Sou Fujimoto Architects

Sou Fujimoto (1971), forse il giovane architetto più sulla cresta dell'onda negli ultimi dieci anni, polverizza ontologicamente il limite tra esterno e interno

Serpentine Gallery Pavilion, London, 2013 (photo Iwan Baan)

Uno dei più grandi miti dell'architettura dell'ultimo secolo abbondante è l'annullamento del limite tra esterno e interno, tradizionalmente perseguito attraverso aperture ampie e numerose “che proiettano il paesaggio nella casa”. Sou Fujimoto (1971), forse il giovane architetto più sulla cresta dell'onda negli ultimi dieci anni, semplicemente polverizza ontologicamente tale limite: non tanto portando elementi naturali entro lo spazio abitato, quanto attribuendo uno stato quasi magico di incertezza allo spazio, alle forme, alle funzioni, alle possibilità dell'architettura, che fa dubitare di dove realmente ci si trovi.

Qualcuno ha riconosciuto nelle origini geografiche di Fujimoto – nato nella regione di Hokkaido, ricca di boschi e vallate – le ragioni di questa sorta di “regionalismo ipercritico”, che non si limita a minare le basi della modernità ma gli stessi fondamenti del costruire. In effetti, spesso i suoi edifici sembrano trasformarsi in giochi da interpretare, come quelli che si trovano nei giardini pubblici. A differenza di questi ultimi, è però il bianco a dominare e non il colore o il puro materiale: come da codice quasi immutabile nell'architettura giapponese post-Sejima (di cui Fujimoto è considerato l'erede più compiuto).

E forse non è un caso che Tokyo, megalopoli composta da una miriade di cose piccole, a partire dai lotti degli edifici, abbia avuto la capacità di accogliere la sua sensibilità minuta “da sottobosco”, dove ogni movimento, uso dello spazio e abitudine si affida all'istinto. E forse non è neanche un caso se i progetti in cui l'elemento vegetale non è tanto presente in sé ma piuttosto in quanto metafora – l'abitazione-giocattolo House NA a Tokyo (2011) o la nuvola metallica del Serpentine Gallery Pavilion (Londra, 2013) – risultino in fondo più efficaci di più recenti interpretazioni del tema “edificio-bosco”.

Anche il progetto più riuscito fra questi ultimi, l'Arbre Blanc a Parigi (2019), non colpisce tanto per la presenza arborea quanto per la figura a gigantesco ananas, frutto dell'enfatizzazione nel numero e nello sbalzo fenomenale dei balconi protesi verso la natura.

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