Se si dovesse compilare una tassonomia minima a due voci dell'architettura contemporanea forse si potrebbe attribuire a una voce la specifica ‘volume’ e all'altra ‘superficie’. Da un lato, infatti, vi è la propensione di molti progettisti a ricercare la forza della massa, il gioco dei volumi, l'emozionalità degli sbalzi. Dall'altra, viceversa, c'è chi pone in secondo piano l'articolazione tridimensionale per privilegiare le qualità comunicative di pelli, schermi e trame di facciata.
Collocare Josep Lluís Mateo (Barcellona, 1949) in una di queste due aree del mondo dell'architettura apparirebbe però un’operazione piuttosto difficoltosa. Pur mantenendo coerenza ed equilibrio in ogni suo progetto, l’architetto spagnolo oscilla sempre tra queste due polarità, portandole spesso all'estremo, ma senza la sfacciataggine di chi vuole stupire a ogni costo.
Una qualità che, come evidenziato dal critico Miquel Adrià, possiede sempre il valore del dubbio, dell'ambiguità: “Non si sa mai se i suoi edifici siano pesanti o leggeri, solidi, liquidi o gassosi, belli o brutti”. O magari anche se siano (più) volume o (più) superficie.
Così, per esempio, se a primo impatto il fabbricato del Centro Culturale a Castelo Branco, in Portogallo (2000- 2006), colpisce per l'imponente sbalzo verso la piazza antistante, accentuato dal contrasto di pendenze con la grande rampa di accesso, a una presa più ravvicinata si rivela come attenta declinazione del tema della facciata come “filtro urbano”.
Questo principio, coniato e sviluppato dallo stesso Mateo come sviluppo concettuale e tecnologico del frangisole, considera la superficie esterna dell'architettura sia come limite ultimo dello spazio costruito, sia come elemento di mediazione tra interno ed esterno. Giocando sul confronto tra il rivestimento in zinco dell’intero edificio e le facciate laterali in doghe di legno, regolabili in base all’incidenza della luce.
In tal modo, Mateo dona al volume sospeso di Castelo Branco una pelle altrettanto ‘sospesa’: un po' come se dall'onda emergessero Moby Dick e il Pequod, riuniti in un unico corpo.