La gentrificazione e i suoi esiti

Spesso nascosta dietro le retoriche della riqualificazione urbana, altre volte usata come accusa contro qualsiasi processo di trasformazione, il fenomeno di “appropriazione borghese” ha precise caratteristiche. 

Il termine gentrification è un neologismo entrato nel linguaggio nel 1964 coniato dalla sociologa tedesca marxista Ruth Glass. Trasferitasi a Londra, negli anni Sessanta Glass osserva che molti tratti della città e molti quartieri, da Notting Hill a Islington, stavano perdendo il loro carattere di classe operaia, diventando accessibili solo “ai più abbienti che possono ancora permettersi di vivere e lavorare lì […]. Gli squallidi ristoranti italiani sono ormai diventati eleganti espresso bar. Le piccole scuderie e i cottage si sono trasformati, come Cenerentola, in residenze eleganti e costose”.

Ma non era una favola. “Una volta che questo processo di gentrificazione inizia in un distretto”, scrive Glass, “va avanti fino a quando tutti o la maggior parte degli occupanti originari della classe operaia sono sfollati, e l’intero carattere sociale del distretto è cambiato”. Glass imputa questi cambiamenti al crescente sostegno statale allo sviluppo immobiliare privato e all’allentamento delle leggi sul controllo degli affitti.

Neukölln, Berlino. Foto di Kadir Celep su unsplash

Glass registra il graduale sfollamento dei colletti blu dai loro quartieri di origine e arriva a questa definizione: per gentrification (da gentry = borghesia) si intende il progressivo imborghesimento di un quartiere popolare, spesso centrale e comunque degradato, attraverso una sostituzione, in termini di classi sociali, degli abitanti originari, come scrive in London Newcomers, testo che precede di qualche anno il seminale London: aspects of change.

“One by one, many of the working class quarters of London have been invaded by the middle-classes – upper and lower. Shabby, modest mews and cottages – two rooms up and two down – have been taken over, when their leases have expired, and have become elegant, expensive residences.”

Oggi la gentrification può assumere forme molto diverse. Non basta analizzare le scelte dei singoli acquirenti delle abitazioni, sebbene la questione dei gusti e delle preferenze della classe media rimanga comunque rilevante nella generazione della domanda. Per fare un paragone, è quello che accade quando lo status che si conferisce a un tipo di automobile non è legato solo al suo valore economico, ma al suo essere trendy in un determinato momento all’interno del nostro gruppo culturale. Si tratta di quel “capitale culturale” di cui scrive per primo negli anni Ottanta del Novecento il sociologo Pierre Bourdieu in Forme di Capitale. E così al posto delle salsamenterie arrivano i negozi di cibo bio, al posto del parrucchiere di quartiere arrivano hair stylist di catene che si trovano anche a Milano, New York, Tokyo (con relativo innalzamento di prezzi) e così via.

Shoreditch, Londra. Foto dall'archivio di Domus

Ma per cercare di capire un fenomeno così complesso, occorre concentrarsi non solo sulle azioni dei singoli o sugli innalzamenti di singoli prodotti diventati improvvisamente ricercati – si pensi all’avocado-mania – ma al ruolo sempre più attivo dei governi e delle grandi aziende nel promuovere e sfruttare economicamente il fenomeno. Infatti il potere culturale dei singoli o delle presunte “nuove classi creative” (vedi il fenomeno com’è stato raccontato per esempio dallo studioso di temi urbani Richard Florida in The rise of the creative class) viene impugnato in maniera strategica da chi ha la capacità concreta di trasformare le città. Ovvero le amministrazioni e i grandi fondi di investimento immobiliare. Intanto, i costi degli immobili in Italia continuano a salire. Lo registra l’”algoritmo predittivo” del portale Immobiliare.it. Il gruppo ha analizzato l’andamento dei prezzi delle case in 11 città italiane per prevedere i trend di mercato nel 2022. Per restare a Milano, i costi cresceranno ancora. La città fa registrare uno dei rialzi più vertiginosi in Italia: +4,2%.

Williamsburg, New York. View from the Williamsburg bridge of Domino Building construction. Foto di Henry su Adobe Stock

La molla dell’attrazione ricorrente verso gli ex quartieri popolari è la narrazione della “creative city” come fulcro attrattivo delle città. Accade che quella che nella terminologia usata dalla Glass nel 1964 era chiamata borghesia, termine che oggi può apparire desueto, è attirata dalla vitalità di quartieri più poveri ma allo stesso tempo creativi e pop. Queste aree hanno molti requisiti comuni in tutto il mondo: devono possedere la compresenza di gastronomia di alto livello capace di coniugare l’aspetto della cucina popolare con le nuove tendenze del food, nelle strade la “gente del popolo” deve sapersi ben mescolare ad artisti, intellettuali, giornalisti, musicisti.

Tuttavia, alla fine del processo la “borghesia” detesterà proprio i motivi per cui è attirata da un quartiere: apprezza locali sempre aperti ma allo stesso tempo pretende di godere del riposo notturno; desidera strade animate ma non vuole vedere troppa gente, anche perché spesso i nuovi abitanti svolgono professioni creative e hanno necessità di silenzio e concentrazione, si entusiasma per la multietnicità ma allo stesso tempo ha paura di troppa diversità.

Nagamekuro, Tokyo. Foto di Mylène Larnaud su unsplash

La gentrification alla fine è una grande mantide religiosa urbana: finisce per uccidere ciò che ama. È da tenere conto anche l’effetto della gentrification sulle persone: quando i quartieri diventano meno eterogenei, meno economici e meno accoglienti anche se non si arriva a subire un vero e proprio displacement, le persone iniziano ad avvertire una perdita di senso della comunità e di vicinato.

Tuttavia, i fenomeni urbani non si possono spiegare con una lettura dicotomica. La gentrification risponde anche all’esigenza di rendere le città più vivibili, meno degradate, ma è vero che questo processo di rinnovamento inevitabilmente elimina le opportunità che un quartiere “povero” e popolare offre a chi ci vive. È l’eterna dialettica tra rinnovamento urbano e conservazione sociale: una dialettica difficile da gestire in modo che non si trasformi in un meccanismo distruttore.

Le città rimangono vivibili e attrattive solo se mantengono quella mescolanza di vita sociale informale e autoprodotta che si registra soltanto nei quartieri con una alta densità di relazioni umane, di attività artigianali, di bambini che giocano per strada, di presenza di anziani nelle piazze, di mercati ortofrutticoli e non artefatti contenitori di street food, con la presenza di scuole, biblioteche, cinema, teatri e servizi sociali di prossimità.

Immagine di apertura: Manchester, foto di Mihály Köles su unsplash

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