Gionata Gatto

Gionata Gatto racconta il suo progetto Technofossils, che unisce paleontologia, tecnofossili, luce e resine plastiche, nell’impossibilità di sbrogliare processi naturali e antropogenici. #MDW2017

Gionata Gatto MDW2017
Ricerca, passione e risultati sperimentali segnano la produzione di Gionata Gatto. Scienza, ecologia e teoria economica sono alcuni degli ambiti disciplinari coinvolti nelle sue pratiche progettuali.
Si tratta di un percorso originale cominciato allo IUAV di Venezia e completato alla Design Academy di Eindhoven dove scopre la possibilità di sganciarsi dal prodotto per aprirsi a una tensione progettuale ibrida. Un metodo che mette in gioco tecniche e saperi finalizzati alla definizione di dispositivi d’interpretazione del reale che si spingono a prefigurare un futuro possibile per il design. L’oggetto diviene uno dei tasselli di un sistema più complesso che s’interroga sulla capacità dei progettisti di partecipare alla definizione di nuovi ambiti operativi e concettuali. Gionata Gatto conferma il suo spirito di ricerca anche con il progetto Technofossils che sta sviluppando con la galleria milanese Subalterno1, spazio votato alla scoperta di giovani designer e nuovi talenti nel mondo dell’autoproduzione. L’abbiamo incontrato per approfondire la conoscenza delle sue ricerche.
Gionata Gatto, Technofossils, presntato al Miart 2017 dalla Galleria Subalterno1 e alla MDW17
Gionata Gatto, Technofossils, presentato al Miart 2017 dalla Galleria Subalterno1 e alla MDW17

Marco Petroni: Gionata, cominciamo dal progetto Technofossils presentato al Miart e alla Design Week. Di cosa si tratta?

Gionata Gatto: Technofossils nasce dalla ricerca avviata con Geomerce, un progetto sviluppato con Giovanni Innella nel 2016. In questo nuovo percorso di ricerca, ho analizzato una procedura di laboratorio introdotta in paleontologia per studiare l’evoluzione di pattern e venature nel regno vegetale. Si tratta del Leaf-Clearing e permette di “scheletonizzare” tessuti fogliari capaci di produrre tassonomie di “architetture vegetali”. È un modo per identificare una parte dei mutamenti evolutivi della flora del pianeta. Nello specifico, il progetto accosta il processo di scheletonizzazione all’uso della luce. Un tentativo di restituire una traccia utilizzando una luce radiante che illumina dal basso verso l’alto una selezione di foglie scheletonizzate e immerse in una resina trasparente. Sfruttando la conduzione luminosa del materiale plastico, la luce illumina l’architettura della foglia, la cui struttura eterea ritorna a diventare visibile. Ognuna delle luci proposte è la rappresentazione visibile-invisibile di una storia, una sorta di tecnofossile di bosco-laboratorio la cui natura ibrida è insieme vegetale e artificiale. Technofossils gioca con l’impossibilità di sbrogliare intrecci di processi naturali e antropogenici. Gli oggetti sono al tempo stesso luci, rifrazioni, foglie, chimica, calore, moltiplicazioni, sovrapposizioni e intrecci, unici e indivisibili. La frizione tra questi elementi è quello che ha ispirato questo nuovo progetto.

 

Marco Petroni: Nella tua ricerca sta acquisendo una centralità sempre maggiore lo studio delle piante e della flora più in generale. Da dove nasce questo particolare interesse? E quali prospettive apre nell’ambito del design?

Gionata Gatto: Anni fa ho seguito in TV l’intervento del biologo Stefano Mancuso, che presentava le ricerche del suo laboratorio nel campo dell’elettrofisiologia, ma soprattutto un suo punto di vista sulla vita vegetale. Ho approfondito la conoscenza di questa visione leggendo alcuni suoi libri e, successivamente, ho trascorso del tempo nel suo dipartimento di ricerca. A partire da questa esperienza, mi sono accorto di quanto poco conosciamo il “linguaggio” vegetale e, soprattutto, di come questo sia composto da tasselli, anche molto complessi, fondati su fatti evoluzionistici basati a loro volta su moltitudini d’interazioni multispecie. È un linguaggio che, seppur incodificabile, è comunque adiacente al nostro e andrebbe in qualche modo integrato per comprendere meglio il passato e progettare nuovi “futuri possibili”, come li chiameresti tu. Credo che immaginare questi futuri implichi sempre di più ragionare in termini speculativi e trans-disciplinari.

Gionata Gatto, Technofossils, Galleria Subalterno1, via Conte Rosso 22, Milano
Gionata Gatto, Technofossils, Galleria Subalterno1, via Conte Rosso 22, Milano. Photo Federico Villa

Marco Petroni: Progetto e scienza sembrano due settori disciplinari apparentemente distanti. Eppure, sempre più progettisti si applicano in questo affascinante settore di ricerca. Quali sono i motivi? E qual è la tua idea in merito a questo campo specifico?

Gionata Gatto: Credo che tra scienza e design esista spesso un parallelo interessante nel modus operandi. In entrambi i casi, per esempio, si parte da una posizione analitica che via via porta a formulare ipotesi speculative da esplorare. Questa tensione verso ciò che ancora non è o non si conosce apre entrambe le professioni al tema della “possibilità”, anche se poi modalità e finalità sono diverse. Ciò che spesso accade in questi progetti al confine tra design e scienza è l’emergere di tecnologie inedite o modalità alternative di sfruttare tecnologie esistenti. Questo sembra generare motivazioni da entrambe le parti e diventa occasione di confronto trans-disciplinare. In questo confronto, designers, scienziati, e produttori di strumenti tecnologici puntano a soddisfare esigenze che non si esprimono quasi mai in termini di interessi direttamente economici, ma piuttosto in opportunità per configurare nuovi settori applicativi e quindi incrementare l’impatto della propria presenza nella società e in possibili nuovi mercati. Tutte queste dinamiche cambiano anche il modo in cui un progettista si muove e quello che può offrire a questi territori ibridi.

Gionata Gatto, Technofossils, Galleria Subalterno1, via Conte Rosso 22, Milano
Gionata Gatto, Technofossils, Galleria Subalterno1, via Conte Rosso 22, Milano. Marcello Pirovano / Subalterno1

Marco Petroni: Di recente, Bruno Latour ha dichiarato che occorre ripensare gli strumenti di lettura delle dinamiche progettuali contemporanee proponendo l’ibridazione disciplinare come strategia di rinnovamento. Sei d’accordo? Qual è il tuo punto di vista al riguardo?

Gionata Gatto: Sì, soprattutto oggi sono molti i filosofi-sociologi che cercano d’indirizzare la questione della trans- inter- multi- extra- disciplinarità, anche in campo progettuale. Latour propone l’ibridazione disciplinare perché la natura della conoscenza non può essere considerata in quanto singolarità, ma come un prodotto ibrido, che deriva dalla connessione di una molteplicità di elementi. Per il pensiero moderno e dal mio punto di vista, questo è ancora assolutamente inaccettabile: natura e cultura rimangono realtà dicotomiche, tanto quanto lo sono il passato e il presente, il pubblico e il privato, la ricchezza e la povertà. Per questo, concordo sul fatto che il concetto occidentale di modernità non intende lasciare spazio né all’inclusione né al valore del collettivo. In una bella mostra dell’anno scorso allo ZKM di Karlsruhe, in Germania, questo pensiero Latour l’ha espresso in un unico concetto: “Reset!”

Marco Petroni: Sei sempre in movimento. È difficile collocarti non solo geograficamente ma soprattutto come designer. Come vedi il futuro della tua professione?

Gionata Gatto: Sono in movimento perché, onestamente, sto ancora cercando. Ho provato a lavorare nel contesto del design tradizionale, ma ho visto che ogni volta che provavo a partorire prodotti che fossero producibili e vendibili, mi ritrovavo a progettare per persone fittizie o clienti inesistenti. Forse sembra arrogante da dire, ma fa lo stesso: il reale, francamente, spesso mi annoia. A me sembra che, sotto questo suo involucro “cool”, l’industria del design – intesa non soltanto in quanto apparato produttivo, ma anche di consumo, di fruizione del design stesso – sia in realtà afflitta da una frenesia che mette in moto meccanismi da cui desidero dissociarmi.

 

Marco Petroni: Ci sono designer che segui e di cui apprezzi particolarmente il lavoro?

Gionata Gatto: Mi piace come lavora Studio Folder, che ha sviluppato interessanti progetti d’identità visiva e concettuale, tra cui Italian Limes che racconta il tema dei confini. Poi, mi stupiscono sempre la motivazione e la pazienza di persone che progettano in dinamiche sociali complesse. Me ne accorgo quotidianamente mentre osservo come progetta mia moglie, Alessia Cadamuro, che fin dalla Design Academy ha cercato di potenziare l’empatia in quanto collante generativo nei suoi progetti. Mi rendo conto che quello dell’empatia è un altro tema bellissimo nonché uno strumento molto efficace per affrontare la complessità. Poi, in un ambito diverso, seguo Giulio Iacchetti e il suo Interno Italiano, anche se ancora non conosco Giulio di persona. Credo che lui, per esempio, sia uno tra i designer che sanno interpretare molto bene le singolarità inespresse della realtà produttiva italiana. Tutti questi lavori – e molti altri – credo che siano esempi interessanti di cosa significhi ragionare in termini ecologici.

Marco Petroni: Progetti futuri?

Gionata Gatto: Uno dei prossimi progetti potrebbe coinvolgere i licheni e le loro potenzialità di costituirsi parametro di lettura geopolitico. Giovanni Innella e io abbiamo iniziato a lavorarci un po’ di tempo fa e, se troveremo le risorse necessarie, vorremmo iniziare seriamente entro quest’anno. Intanto, a luglio, inizierò un corso di lichenologia in Portogallo.

© riproduzione riservata

4–9 aprile 2017
Gionata Gatto: Technofossils

Subalterno1
via Conte Rosso 22, Milano

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