Martina Angelotti: Prima che sia notte, l'installazione con cui hai vinto il Premio Italia Contemporanea, sembra tessere una relazione molto intensa fra le cose legate a uno spazio specifico, le parole che usiamo per nominarlo e le immagini che proiettiamo su di esso. Che cosa hai visto tu quando per la prima volta hai "guardato" aldilà della grande finestra del MAXXI?
Giorgio Andreotta Calò: La prima volta ho guardato attraverso gli occhi degli altri. Di quei visitatori che si trovavano all'interno della sala n°5, appoggiati al grande vetro. Quasi indifferenti alle opere esposte, stavano incollati alla vetrata con lo sguardo fisso nel paesaggio che gli stava davanti, silenzioso, ovattato in quel vetro spesso. Era un pubblico attonito, rapito dall'esterno, dal vuoto che si apre sotto i piedi. Mi sembrava più interessante immaginare di essere dentro quel pensiero di quel preciso momento. La prima cosa che ho pensato, è stata portare quel paesaggio dentro al museo, e tentare di creare uno spazio in cui il pensiero, attivato dalla contemplazione, potesse prendere una forma concreta. Creare, in qualche modo, uno spazio della coscienza.
Non si tratta esattamente di una fascinazione per un mezzo obsoleto, ma di una scelta precisa di un mezzo appunto, funzionale a quella resa, allo scopo di trascinare dentro al museo l'immagine del presente, mettendo lo spettatore di fronte ad un tempo presente che scorre con lentezza inesorabile.
Mi interessa piuttosto il paradosso di utilizzare un sistema così antico che sta alle origini dell'arte figurativa, per creare una visione del presente…contemporanea. E farlo in un luogo dedicato all'arte del nostro tempo.
In realtà, quel corrimano è stata una scelta forzata dalla volontà del museo.
Allora io la condivido perché involontariamente è riuscita bene!
Risultava pericoloso che il pubblico si muovesse in uno spazio completamente buio. Ma proprio il buio a mio avviso, favorisce una perdita temporanea di percezione dello spazio, dei suoi limiti, dei suoi volumi. Perché in parte quella scatola nera, diventa la negazione dell'architettura stessa, di quella architettura di Zaha Hadid così presente e schiacciante anche dentro la nostra memoria.
È come se per la prima volta volessi condurre il pubblico a provare lui stesso l'esperienza del movimento, a differenza di quello che generalmente fai tu in prima persona, attraverso le tue lunghe peregrinazioni…
Questo lavoro sicuramente pone il pubblico di fronte all'esperienza fisica diretta, anzi, impone questa esperienza che si conclude con l'atto del vedere.
Per capire meglio un territorio bisogna guardarlo di più. Questo è utile tanto per gli architetti che per gli urbanisti, ma è un assunto che vale universalmente anche per semplici osservatori
Credo che la forza di questo lavoro risieda nella capacità di porre lo spettatore di fronte allo scorrere del tempo. Non si tratta in questo caso di cristallizzarlo, congelarlo in una forma. Siamo di fronte ad un'immagine che si modifica ogni frazione di secondo e che non è possibile fissare in un segmento spazio-temporale definito e limitato. Non ci sono immagini di ciò che si vede all'interno. Ho voluto lasciare alla memoria di ciascun visitatore la possibilità di congelare un momento di quella visione. Non parlerei di questo lavoro in termini scultorei, sebbene la forma dell' installazione sia fortemente connotata in questo senso. La scultura per me è il risultato di un'azione sulla materia e ogni azione determina sulla materia una nuova identità e forma, la trasfigura.
Infatti, ecco sopraggiungere il tuo lato "oscuro"…
Questo principio va applicato a larga scala a partire da un frammento di natura, sino ad arrivare a un paesaggio intero. Da un oggetto o un manufatto, a un palazzo o una città.
Questo processo, il gesto secco o prolungato nel tempo e nello spazio, si inserisce nelle pieghe, nella storia, nella forma originaria di ciò che utilizzo come materia della scultura, penetra in essa, riattiva aspetti intrinsechi, li mette in evidenza, li sublima restituendo a chi la esperisce, una forma e una visione inedite. L'azione che si consuma in uno spazio e in un tempo determinato, quel segmento spazio-temporale, si cristallizza e si manifesta nella materia e nella forma della scultura che la trattiene definitivamente.
L'utilizzo del suono è stato infatti ampiamente discusso e dibattuto, ma alla fine l'esperienza resta in silenzio, perché non era necessario aggiungere un ulteriore livello interpretativo. L'edifico stesso, diventa un corpo che vede e che "sente".
Invece hai aggiunto soltanto un elemento materico, l'acqua, (lo specchio, il riflesso, il liquido amniotico….) che come spesso in altri lavori diventa lo statement che ti caratterizza.
L'acqua era necessaria a creare quel ribaltamento dell'immagine sulla parete. Un riflesso visivo e mentale. In quello specchio d'acqua si condensa tutta l'opera. Non è possibile coglierla immediatamente, ma lentamente si concede al nostro sguardo che si abitua all'oscurità. In questo senso siamo portati alla riflessione. Ma l'acqua diventa anche una sorta di limite tra noi e l'immagine: se ci muoviamo fisicamente verso l'immagine, se entriamo con i piedi nell'acqua, infrangiamo lo specchio, rompendo la fissità dell'immagine stessa.