Bêka & Lemoine raccontano Homo Urbanus Venetianus

“Il bisogno di vita sociale non si è estinto, ma si è spostato nel virtuale”, spiegano i registi Ila Bêka e Louise Lemoine a Emanuele Quinz. Il film Homus Urbanus Venetianus è stato concesso in esclusiva per Domus nella sua versione integrale durante l'ultimo weekend di ottobre. L'intervista.

I registi di architettura più noti al mondo, Ila Bêka e Louise Lemoine, offrono al pubblico di Domus la versione integrale del loro ultimo film Homus Urbanus Venetianus, per tutto il weekend fino a domenica 1 novembre 2020. Per guardare il film basterà aprire questo articolo e cliccare su play. Il film fa parte di una raccolta di dieci lungometraggi sul rapporto tra uomo e città: il tema sarà anche al centro del prossimo Domusforum, l'evento in streaming organizzato da Domus che si terrà mercoledì 4 novembre in cui ospiti d'eccezione interverranno sul tema "Il futuro del futuro delle città". Emanuele Quinz ha intervistato il duo creativo per noi.

Emanuele Quinz: Con l’episodio su Venezia (Homo Urbanus Venetianus), il ciclo di film Homo Urbanus arriva alla decima tappa. Come è nato il progetto di questa “Odissea”?

Louise Lemoine: La nostra collaborazione dura da più di 15 anni. Ila viene dall’architettura e io dalla storia dell’arte e dal cinema. Il rapporto tra architettura e cinema ci è sembrato un terreno di intesa fertile, ancora in parte inesplorato. I nostri primi lavori affrontavano la scala dell’architettura, dell’edificio, ma poco a poco, attraverso una lunga serie di film, abbiamo allargato la focale, per arrivare alla piazza, lo spazio pubblico condiviso, e alla città. La scala dell’architettura obbliga a confrontarsi con la questione dell’autore, mentre la città è un’opera aperta, collettiva e anonima, costituita da sedimentazioni storiche che non hanno più una firma, e permette quindi di affrontare problematiche nuove, più complesse, di aprire una prospettiva antropologica.
Ila Bêka: Il ciclo vuole raccontare la città nel modo più vicino possibile a quello dell’esperienza fisica, sensoriale ed emotiva dell’abitante. Per capire come funziona la città, invece di proporre un’analisi razionale di dati e informazioni, vogliamo far rivivere delle situazioni reali. Siamo molto legati alle metodologie dell’antropologia, dell’osservazione partecipante. C’è una frase del regista Jean Rouch che è per noi un’importante fonte di ispirazione: “prima bisogna filmare e poi concettualizzare”. Prima bisogna vivere il momento e poi cercare di capire.

Nel film su Venezia, le sequenze oscillano tra paesaggio ed evento, tra l’evocazione delle vedute settecentesche, alla Canaletto, e la cronaca documentaria – a volte comica, a volte drammatica – di una situazione eccezionale, l’acqua alta del 2019.
L.L.: Al centro c’è il rapporto tra l’elemento atmosferico dominante, l’acqua, e l’uomo. È una tematica ricorrente dei vari film, mostrare l’uomo in lotta con il contesto urbano. Che cerca di sopravvivere, di adattarsi a un ambiente estremo. Nel caso di Venezia, volevamo mostrare la sofferenza, la fatica degli abitanti che cercano di ritrovare la normalità in un evento storico che paralizza la città, bloccando i processi più essenziali, dall’elettricità alla fornitura del cibo. Volevamo riversare questa fatica su chi guarda, suscitare una forma di empatia.   
I.B.: Il cinema che sviluppiamo è un cinema della suggestione. Evitiamo l’uso di una voce off che spiega come interpretare le immagini, o della musica che le commenta. La potenza del cinema sta nel poter suggerire senza dover spiegare. Il momento va vissuto come è presentato.

Il titolo del ciclo, Homo urbanus, ricalca quello delle classificazione scientifica delle specie, come quella di Linneo. E soprattutto sembra indicare che, contrariamente a ciò che si pensa, sono le città che definiscono gli abitanti.
L.L.: Oggi più della metà della popolazione mondiale vive nelle città e Homo Urbanus vuole indicare l’ultima tappa dell’evoluzione della specie umana, dopo l’Homo Sapiens. La storia della città è una dinamica di adattamento continuo, della struttura urbana e dell’uomo, un processo ininterrotto e tormentato di trasformazione reciproca.

Al centro della vostra osservazione, c’è lo spazio pubblico. Spazio del potere (pubblico) o della libertà?
I.B.: La città moderna o, come la chiamava Rem Koolhaas, la “città generica” sta eliminando gli spazi non controllabili. Nei film, ci soffermiamo sui quartieri dove lo spazio appartiene ancora al pubblico, non alle istituzioni, ma agli abitanti. Delle zone di resistenza, di libertà, dove si sviluppano delle micro-economie, e che vanno protette, perché sono in via di estinzione. L’architettura o il masterplanning dell’urbanistica costituiscono dei potenti dispositivi di controllo della vita pubblica e tendono a produrre ordine, normatività e omologazione. I nostri film mostrano come il rapporto tra ordine e vitalità è inversamente proporzionale: più c’è ordine e controllo, più la città tende a perdere la sua carica di vitalità.
L.L.: Ci interessa molto la variabilità culturale nella comprensione dello spazio pubblico: cosa si fa in strada e cosa non si fa. Per esempio, a Napoli gli abitanti si sono appropriati di parte della strada per costruire un’entrata o una terrazza per la loro abitazione. A Kyoto, gli abitanti curano lo spazio pubblico per renderlo più gradevole per tutti, attribuendogli un valore sacrale. A Shanghai, c’è una porosità tra interno ed esterno, gli abitanti usano la strada come un’estensione dell’abitazione: ci si mangia, ci si lava i denti, ci si stendono i panni. Confrontare questi comportamenti da una cultura all’altra permette di relativizzare le nostre posizioni.

Con il Covid 19, abbiamo visto delle immagini di città completamente vuote, spettrali, come nei quadri di De Chirico. Che effetto vi ha fatto?
L.L.: Il bisogno di vita sociale non si è estinto, ma si è spostato nel virtuale. La piazza pubblica, la vera città oggi è zoom o le altre piattaforme virtuali. La pandemia ha accelerato dei cambiamenti in atto, rendendo evidente un paradosso. Da una parte vediamo affermarsi un’ipermondializzazione estrema, per cui siamo connessi con tutto il mondo a qualsiasi ora. Dall’altra, riducendo gli spostamenti, siamo diventati iperlocali. La nostra generazione di nomadi, che per lavoro o per cultura prendeva l’aereo una volta alla settimana, grazie al telelavoro ora resta a casa, riscoprendo i vantaggi della dimensione locale. Si inverte il processo di urbanizzazione che sembrava irreversibile, gli abitanti iniziano a defluire dalle grandi metropoli, per radicarsi nei piccoli centri o nella campagna, per cercare una nuova qualità di vita.

Ila Bêka & Louise Lemoine, Homo Urbanus Venetianus, 2018, locandina

Come saranno allora le città del futuro?
I.B.: La crisi sanitaria che stiamo attraversando rivela in modo drammatico i limiti del progetto di sviluppo della città moderna. Anche il modello tanto decantato delle Smart cities si scontra con la realtà, producendo nuove forme di assoggettamento. Al contrario di certi guru che ci propinano previsioni disegnate a tavolino, basate su dati e statistiche all’apparenza inespugnabili, pensiamo che il miglior modo per capire l’avvenire delle città sia quello di osservare il presente. È in quello che accade nelle strade oggi che si radica il nostro futuro.

In apertura: trailer del film Homus Urbanus Venetianus di Bêka & Lemoine, 2019.

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