Addio a Marcello Gandini (1938-2024): “Per innovare date spazio all'individualità”

Il grande car designer è scomparso. Lo ricordiamo con l'intervista in cui raccontava a Domus alcuni dei modelli più celebri che ha disegnato, a partire dalla Lamborghini Countach.

Lei vive nei dintorni di Torino, una regione che forse più di qualsiasi altra al mondo ha plasmato la storia dello styling automobilistico. Cosa secondo lei cosa quel periodo storico del dopoguerra in cui figure visionarie in ogni settore, da Giovanni Bertone a Camillo Olivetti, e da Carlo Mollino a lei stesso, hanno reso il torinese epicentro d’innovazione progettuale e industriale in Italia e nel mondo?

Marcello Gandini: Sembra un paradosso ma quest’innovazione industriale dipendeva in gran parte dalla presenza di tradizioni artigianali altamente qualificate. Nell’ambito dell’automobilismo, in particolare, si è beneficiato del gran numero di scoccai e battilastra bravissimi, gente che per tradizione lavorava le scocche in legno delle carrozze, e che nel dopoguerra si è trovata senza lavoro. A Torino c’era questa grandissima facilità di fare modelli di prototipi, e con la facilità d’esecuzione viene fuori la domanda. Di conseguenza c’è stata per molti la possibilità d’inserirsi nel settore come stilisti, come disegnatori; specialmente qui a Torino, fino a dopo la guerra, lo stilista vero e proprio non c’era. Fino a quel momento, stilista era il cliente stesso, nel senso che il tizio che voleva la Ferrari carrozzata fuoriserie, o la Lancia carrozzata in modo particolare andava dallo scoccaio e cercava di spiegare cosa voleva.

Quasi un sarto dell’automobile.

Erano artigiani abilissimi, prendevano il telaio e poi tiravano su il filo di ferro che simulava le linee della carrozzeria. A quel punto il cliente diceva: “Mah, la vorrei un po’ più lunga”. Questo, allora, era lo stilista. La mia prima auto è stata fatta così, tirando su questi fili di ferro da un carrozziere oscuro, uno che più che altro faceva riparazioni.
Si batteva l’alluminio e, servendosi solo di questi fili di ferro, si formavano le lamiere. Dopodiché venivano tolti e si facevano strutture per reggere i pannelli della carrozzeria. Ho cominciato con le auto da corsa, lavorando per gente che faceva gare in salita con la Fiat 600 elaborata e aveva due soldi da spendere per cambiare un po’ la carrozzeria.

Più che un disegnare l’auto era un farla.

Allora non c’era disegno. Al massimo un bozzetto. All’inizio della mia carriera, quando lavoravo per Bertone, era venuto uno che aveva una catena di alberghi alle Hawaii, già anzianotto, e che voleva farsi carrozzare una Rolls Royce. Erano tempi in cui queste cose non si facevano quasi più, però aveva una moglie giovane e carinissima che disegnava. Era arrivato con dei disegnini di come voleva questa Rolls Royce. Era il tipico cliente dell’era dell’automobilismo preindustriale.

Quella che oggi sarebbe customizzazione?

Diciamo di sì, ma a fini anche pratici. Ricordo di uno che aveva comprato un’Abarth Zagato, una delle prime, quella con la gobba. Voleva alleggerirla, e siccome derivava dalla Fiat 600 e aveva il motore posteriore fissato su una traversa in basso, le abbiamo segato la coda. Per non lasciare scoperte le pulegge che giravano, abbiamo montato una rete metallica che sembrava la gabbia dei polli.

Questa realtà che lei descrive è assai lontana dalla realtà dell’industria automobilistica di oggi.

Infatti. Un centro stile oggi è fatto di centinaia di persone.

La reale innovazione è comunque possibile in un contesto del genere?

C’è un problema. E’ un problema che c’è da sempre, ma è forse quello centrale di oggi: tutti vorrebbero l’innovazione ma nessuno è disposto a partire da zero. La vera innovazione è quasi sempre conseguenza della presenza in un’azienda di un personaggio con un grande carisma, più la volontà da parte dell’azienda mettere in atto la visione di questo individuo, persino le sue fantasie. L’esempio più lampante è la DS19, di Flaminio Bertoni, il quale era un genio ma anche un autocrate assoluto: riusciva a condizionare le scelte di un’azienda a tal punto da attuare progetti assurdi secondo le logiche dell’industria, ma che quasi senza eccezione si sono rivelate geniali.

Marcello Gandini. Il designer, quand’era responsabile del Stile alla Bertone, disegnò anche il Centro ricerche, uno stabile nella campagna piemontese sottostante la medioevale Sacra di San Michele. Foto Andrea Basile

La DS19 è stata un’auto di grande ispirazione nel mondo dell’architettura: Alison Smithson ha addirittura scritto un libricino a proposito.

Ha influenzato moltissimi settori nell’ambito del design. Quello che salta fuori con chiarezza dalla vicenda della DS19 è che per l’innovazione ci vuole una mente: non ci può essere una collaborazione tra 100 o 200 persone. Quelle possono subentrare dopo, quando ci sono grane da risolvere, ma il concetto iniziale deve essere frutto di una visione fortemente personale.

Le sue auto sono molto diverse fra loro, si può dire che non c’è uno stile unificante.

Diciamo che quelle più conosciute non sono tanto delle innovazioni formali quanto sull’approccio.

Questo è vero, ma se pensiamo alla Countach, è stato uno dei pochissimi casi nella storia dell’automobile in cui è stata concepita una forma realmente nuova e inedita.

Il fatto è che la Countach rappresentava l’abbandono di alcune abitudini ormai consolidate dell’industria automobilistica. Non faceva nessun riferimento ad auto passate, e non era nell’occhio della gente. Il gusto non era educato ad apprezzarla. All’inizio era una forma culturalmente aliena ma nel giro di qualche anno è diventata un oggetto simbolo. E’ rimasta in produzione 17 anni. Ancora adesso gli stilisti dell’Audi mi dicono che è fonte d’ispirazione per le auto che fanno. La Miura invece è una storia diversa: propone innovazioni a livello di particolari, ma nell’insieme già al momento del lancio era accettata dall’occhio della gente.

Ferruccio Lamborghini col modellino della Miura. Foto storiche archivio Quattroruote

Quanto è stato lungo lo studio del progetto Miura?

Un mese o due. Nell’autunno del 1965, Ferruccio Lamborghini, Paolo Stanzani e Gianpaolo Dallara sono venuti da me e mi hanno proposto una collaborazione. Io non ho iniziato subito perché c’erano alcuni progetti da finire, per cui i primi schizzi li ho prodotti alla fine di novembre. Mi ricordo la vigilia di Natale, alle 10 di sera del
24 dicembre 1965, avevamo il modello in legno ed ecowood pressoché finito, abbiamo battuto Bambino Gesù per un paio d’ore. Poi la macchina è stata costruita tra gennaio-febbraio e presentata a Marzo.

E’ davvero incredibile se si pensa ai tempi glaciali di concepimento di un’automobile oggi. Lei si occupava anche degli interni?

Sì, facevo tutto. Allora non erano così sofisticati come adesso. Mi è capitato di farli in una notte: disegno e costruzione.

Un suo collega, Chris Bangle, che fino a poco fa è stato a capo del centro stile BMW, diceva che nei suoi progetti uno degli obbiettivi che si pone è di dare un dinamismo innato all’automobile, persino quando è ferma.

Il movimento fa parte di questo tipo di estetica, e devo dire che non mi occupo volentieri di oggetti statici. Non mi interessano tanto le forme che ispirano la sensazione di movimento, quanto il movimento che in unfluisce sulla forma. Non è detto che la macchina che dà l’idea di movimento stando ferma sia più bella.

Qual è il suo ricordo della Countach? Una foto, un disegno?

Niente, credo; forse, se scavo bene, qualche piccola foto del prototipo magari la trovo. Il mio archivio in genere è il cestino della carta straccia, che ho qui sotto. Preferisco l’archivio della memoria: cancella facilmente le cose sgradevoli.

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