Ricordando Richard Serra (1938-2024): una conversazione con Lisa Ponti

Nel 1985, il grande artista americano maestro del minimalismo e della land art, che ci ha lasciati il 26 marzo, aveva incontrato la storica redattrice e direttrice di Domus: uno scambio anticonvenzionale come i suoi protagonisti, contro ogni idea di categoria e monumento.

Il suo nome ormai quasi istintivamente viene associato a immagini di grandi spire di metallo che si stendono e si raccolgono attraverso paesaggi naturali, urbani o vasti ambienti espositivi: il percorso di Richard Serra però era molto più profondo e complesso, era quello di una stagione cruciale dell’arte americana e internazionale. L’artista californiano, morto il 26 marzo a 85 anni, aveva inserito la sua ricerca in quella dell’arte minimale che animava la scena newyorkese degli anni ‘60, debuttando trentenne in una collettiva al Guggenheim del 1969 – diventata pietra miliare per avvicinarsi solo successivamente alle espressioni di land art che lo hanno reso celebre nel mondo.
Nel giugno del 1985, a Milano, una conversazione con Lisa Licitra Ponti raccontava tutta questa complessità, di un artista simultaneamente partecipe e critico del suo tempo: raccolto e pubblicato su Domus 622, nella forma quasi di un flusso di coscienza, questo apparente monologo, in realtà dialogo, decostruiva proprio quegli assunti ormai mainstream come un presunto legame di Serra con la monumentalità, la possibilità di inserirlo in una qualche categoria, e le ragioni della ricezione controversa della sua prima grande realizzazione pubblica, il Tilted Arc del 1981 a New York, un gesto di valenza politica che veniva strumentalmente ridotto a polemiche di estetica.

Domus 662, giugno 1985

Conversazione con Richard Serra a Milano

Incontro con Richard Serra, a Milano per la mostra alla galleria Christian Stein (20 maggio - 10 luglio 1985).

Ho visto il Cimitero Monumentale, qui a Milano. Gli architetti postmoderni dovrebbero vederlo tutti. È un manuale di architettura. Mi ha interessato la massa, il peso, la verticalità di quelle case in miniatura; lo spazio interno, la misura delle pareti, il fatto che alcune partono con una pianta quadrata e salgono a un quadrato minore, il fatto che sono elementari, asserzione di una presenza fisica nello spazio. E sono disposte un po’ come una piccola città. Non hanno mai scale in salita, in alcune si può vedere come sono disposti i sarcofagi da fuori. Un po’ come un ospedale. Più di tutte mi è piaciuta la cappella Mariani, in stile egizio. Ero talmente preso dagli aspetti formali che non mi ricordavo più di essere in un cimitero... Non ho mai disegnato una tomba.

La prima mostra della transavanguardia italiana a Basilea, nel ’80? Sì, ricordo. Mi piaceva, mi incuriosiva. Pensavo, allora, che era la cosa più originale che avessi visto da gran tempo. Cucchi mi incuriosiva. E quell’energia che sembrava esserci, e che da molto non avevo più vista... Ma i movimenti non sono né più né meno della gente che ci sta dentro. Se è gente che cresce, il movimento cresce. Se è gente che diventa reazionaria, il movimento diventa reazionario. Bene, per quel che posso osservare, stando a New York, devo dire che ora mi interessa meno, quell’arte. Come stile è inadeguato. Pittura descrittiva accademica. Non tutti, certo, ma la tendenza generale. Qualcuno, come Kiefer, è molto interessante...

Anche il mio stile è cambiato... Faccio cose diverse. Cose che costruisco in relazione a un dato luogo (come quelle che sto facendo qui, specificamente pensate per gli angoli della galleria – e non so ancora cosa farò con l’altra metà della sala), o elementi nel paesaggio determinati dalla topografia del paesaggio; o sculture architettoniche che, an che loro, son costruite per spazi determinati e per starvi in permanenza. Cerco, dove possibile, di costruire per la permanenza (anche se è difficile, perché i lavori non li puoi rivendere, e i committenti sono altri, commissioni pubbliche, di governo...) Ce ne saranno venti, di miei lavori permanenti, nel mondo.

I movimenti non sono né più né meno della gente che ci sta dentro. Se è gente che cresce, il movimento cresce. Se è gente che diventa reazionaria, il movimento diventa reazionario.

I luoghi? I luoghi che mi interessano sono i luoghi “di scarto”. Voglio dire: se fai un lavoro per la Chiesa o l’Esercito, o per la Ibm, l’ideologia politica lo userà come emblema. L’arte, la libertà, saranno usate per una morale. C’è un contesto (non fisico) di condizioni che già tende a designare il contenuto. Io cerco di evitarle, queste situazioni. Quello che voglio, è cambiare i connotati di uno spazio. Non voglio valorizzarlo, voglio alterarlo, metterlo in crisi. Un modo per fare ciò è analizzare le specifiche componenti ambientali di un luogo, di uno spazio, e metterle in crisi usando il proprio linguaggio. Il proprio linguaggio non lo si può mettere in crisi con il proprio linguaggio, ma altri linguaggi sì: usando componenti simili, in scala, misure, peso. Io posso mettere in crisi l’architettura perché non uso il linguaggio dell’archiettura. È difficile mettere in crisi la scultura con la scultura, ma è possibile con la scultura mettere in crisi l’architettura. Una delle funzioni della scultura, anzi, è questa: mettere in crisi l’architettura. Le Corbusier l’aveva capito, penso: in una sua lettera a un amico in Russia parla della cappella Sistina e dice che “Michelangelo ha distrutto il soffitto”, e ha fatto bene. Bisogna incoraggiare pittori e scultori ad alterare le funzioni di spazi e luoghi. Gli architetti innovatori l’han sempre capito, penso. Gli altri architetti vogliono gli artisti come decoratori, artigiani utilitari. L’artista che si mette al servizio dell’architetto non mi interessa. Mettere in crisi il contesto è necessario. Mettersi al servizio del luogo, no. Non mi interessa. Mi interessa dichiarare il mio proprio luogo e spazio, che è quello specifico della scultura e nient’altro.

Monumenti? Non mi interessa fare dei monumenti. I monumenti commemorano una persona, un luogo, un evento, e al mio lavoro io non attribuisco alcun simbolismo descrittivo... La gente dice che la mia scultura è monumentale perché è grande, ma è una scultura che non ha niente a che fare con la storia dei monumenti.

Domus 662, giugno 1985

Mio padre? Mio padre veniva dalla Spagna, e mia madre dalla Russia. Mia madre una ebrea russa, mio padre uno spagnolo di Maiorca. La madre di Gaudì era una Serra, anche lei.

Sì, lotto col Governo americano per quel lavoro. Quello che è deplorevole, in questa situazione, è che il tuo Paese, quando ti chiede di essere patriottico come quando ti obbliga a difenderti, ti riduce la libertà. Io avevo firmato un contratto col Governo per costruire un’opera specifica per un dato luogo. Mi invitano alla Casa Bianca, strette di mano, congratulazioni. Il lavoro vien fatto, e installato. Tre anni dopo, compare un nuovo “regional director” che decide di toglierlo di lì. Indìce, sempre lui, una udienza in cui, sempre lui, fa da pubblico ministero, da difensore, da giudice. E mi chiamano a difendermi davanti a questa “corte”. Procedimenti come questi, in America, sono una tremenda minaccia per la libertà di espressione. Ed è tremenda la malafede con lui la “gente” è stata spinta a criticare l’opera. Non le è stata chiesta, mai, un’opinione sulle proprie condizioni di lavoro, sugli spazi degli uffici, sulla architettura, no, la si invita a firmare una petizione che dice che non c’è valore artistico in quest’opera. Un pubblico ufficiale promuove una petizione in cui si chiede a degli impiegati di decidere sul contenuto estetico! Non ha diritto, costui, di mettere in discussione un contratto che un cittadino ha fatto con il proprio Governo. Hanno perfino chiamato un esperto di terrorismo che ha dichiarato che una bomba piazzata fra la scultura e l’edificio avrebbe una forza dieci volte maggiore che se la scultura non ci fosse. 

La gente dice che la mia scultura è monumentale perché è grande, ma è una scultura che non ha niente a che fare con la storia dei monumenti.

Folle, surreale! Bastano ora parole come “topi”, “pornografia”, “polluzione” perché ci si sbarazzi di qualsiasi cosa. Si fa appello ai sani sentimenti del lavoratore – i tedeschi in regime nazista facevano appello ai sani sentimenti delle masse. L’America era il paese dalla libertà: inversione di marcia, ora. La repressione spesso agisce così, con un processo esemplare a un individuo solo. È stato così, il mio caso è un test. Ma è stato incoraggiante sentire, a New York, per la prima volta, una solidarietà fra film-makers, poeti, scrittori, pittori, scultori, architetti, direttori di museo, come quella che c’è stata. Hanno fatto quadrato, non tanto per il mio lavoro quanto perché quest’atto governativo è un segnale di repressione, e se questa volta è capitata a me, può capitare a chiunque. Tutti si sono allarmati, penso, per le implicazioni che questo processo alla scultura comporta. Non credo però che Reagan consenta. Vorrebbe dire smentire un contratto con un artista, un impegno, smentire il suo programma stesso per “l’Arte nell’Architettura”. Se quel che vuole è mandare a monte il programma... Non credo. Ma potrebbe. Forse pensa che l’arte sia Hollywood, forse gli interessa hollywoodizzare l’arte. Bene, è stato un momento duro, ma della solidarietà io sono molto riconoscente. E sono molto contento di essere qui: questa è la prima vacanza che mi prendo da tutto ciò.

immagine di apertura: Richard Serra, foto © Oliver Mark

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