Il futuro dello scalo milanese di Porta Romana

Un grande parco con collina, social housing, case per studenti e uffici. Ce lo raccontano Carlo Mazzi di Prada Holding e Manfredi Catella di Coima che, insieme a Covivio, cambieranno la fisionomia del quartiere che ospiterà le Olimpiadi Invernali del 2026.

In una conversazione corale con Domus, Carlo Mazzi, Director di Prada Holding Spa e Presidente di Prada Spa, e Manfredi Catella, AD di Coima, l’impresa immobiliare che ha cambiato la fisionomia di Milano con progetti come Porta Nuova e Bosco Verticale, raccontano le loro visioni sul futuro dello scalo di Porta Romana a Milano. La zona, paradossalmente periferica nonostante la posizione centrale e oggi dominata dalla Fondazione Prada di OMA/Rem Koolhaas, presto cambierà completamente faccia. Il sito prima ospiterà il villaggio olimpico durante le Olimpiadi Invernali dal 6 al 22 febbraio 2026 (insieme a Cortina e ad altre località del Nord Italia), poi diventerà oggetto di un ulteriore imponente intervento urbanistico e immobiliare guidato dalla cordata Prada Holding, Coima e Covivio, azienda finanziaria francese operante nel mondo immobiliare. In attesa del concorso ufficiale per l’aggiudicazione del masterplan che avverrà in primavera, ci facciamo raccontare dai suoi protagonisti le visioni sul quartiere, su Milano e sul futuro delle città.

Possiamo parlare di un quartiere firmato Prada? (MG)
Carlo Mazzi, Prada: È  sproporzionato parlare di un intero quartiere Prada, tutt’al più potremmo immaginare un parco firmato Prada, mentre il quartiere è di Coima-Covivio. La nostra presenza ha come finalità quella di conservare la memoria di quest’area, assicurandoci che non diventi oggetto di interventi senza cura. L’idea è di unire la città che oggi è interrotta da una barriera, quella dello scalo. Per valorizzare meglio l’area e per dare respiro a tutti i quartieri che vi si affacciano avevamo proposto qualche anno fa alle Ferrovie dello Stato di interrare parzialmente la linea ferroviaria e costruirci sopra una  una collina, visto che la linea non poteva essere totalmente interrata, e la proposta è stata accolta con favore.

Manfredi Catella, Coima: La maggior parte dei settori è rappresentato da aziende che hanno saputo affermare un proprio brand, con dei valori ben chiari. Se pensiamo alle automobili e diciamo Tesla, sappiamo tutti di cosa stiamo parlando. Quando invece si parla di uno dei settori più importanti dell’economia, perché ci avvolge ogni giorno, qual è il brand che vi viene in mente? È strano che un settore così importante non abbia espresso aziende con marchi che abbiano un’identità valoriale e reputazionale. Sicuramente questa è un’ambizione imprenditoriale che noi abbiamo da sempre. Il problema è che per arrivare ad affermare un brand bisogna realizzare molto prodotto e, mentre negli altri settori questo avviene velocemente – basti pensare a un iPhone –, nel nostro mestiere il prodotto richiede molti anni per farlo.

Scalo Porta Romana. Foto Andrea Cherchi

Questo deficit di riconoscibilità degli sviluppatori è dovuto al fatto che la responsabilità è passata agli architetti? (WM)

M.Catella: Noi, in Italia, abbiamo avuto un periodo di ricostruzione nel Dopoguerra dove la quantità prevaleva sulla qualità con la scusa dell’emergenza. Questo ha generato un progressivo deterioramento del settore, che è stato guidato non sempre dalla qualità. Poi abbiamo avuto il periodo dei geometri – figli di quel periodo – in cui abbiamo assistito a un certo appiattimento di competenze finalizzate a produrre ciò che era necessario. Successivamente c’è stata la cessione del ruolo dal committente all’architetto: anche questo lo considero un errore grave perché il prodotto deve nascere dal committente, non dall’architetto. Adesso bisogna riordinare la filiera per fare le cose nel modo giusto.

Avete un modello di riferimento per questo nuovo quartiere? Sarà una Porta Nuova 2? (MG)
M. Catella: Lo scalo di Porta Romana non deve avere un riferimento definito perché ogni luogo ha una sua caratteristica, delle sue specificità. Quindi pensare di calare su un luogo un altro luogo è sempre una forzatura. Quello che invece può essere calabile è un metodo. Occuparsi di immobiliare significa esercitare un atto di grande responsabilità perché qualunque cosa tu faccia, che sia il singolo edificio o di scala più ampia, di fatto, tu realizzerai qualcosa che rimarrà per molto tempo e, per definizione, impatterà la collettività. Questo vale anche per una casa privata che in molti vedranno per tanti anni, quindi è un atto molto poco privato e molto pubblico. Quando poi si ragiona su una scala di quartiere la responsabilità è ancora maggiore.

Qual è la peculiarità di quest’area?
M. Catella: Porta Romana non è un quartiere qualunque perché si colloca in quella corona di confine tra centro storico e periferia. Conosciamo tutti la zona: attraversandola abbiamo un’area industriale, case popolari e poi il Parco Sud. È davvero una frontiera, e per questo il progetto è complesso, perché deve interpretarne due lati. Quando si progetta in un centro storico quello che si ha attorno può condizionare o ispirare. Qui bisogna avere una delicatezza nel ricucire i due lembi di un territorio.

Come verrà definito il masterplan? (MG)
M. Catella: Il masterplan distribuisce le funzioni e le macro-forme, ma non entra nel dettaglio dell’architettura o almeno non dovrebbe farlo. Quando penso a un masterplan, penso a tre dimensioni. La prima è quella invisibile, la seconda è quella più intensa e la terza è quella privata, quella invisibile: sotto un quartiere scorrono tutte le infrastrutture che poi lo fanno funzionare. Ora, la parte invisibile oggi è più complessa del passato perché c’è anche la dimensione del digitale. Quindi vuol dire ragionare oggi sulle funzioni da abilitare tra dieci anni, e non è facilissimo quando la tecnologia evolve così rapidamente. Bisogna chiedersi come ci muoveremo, come utilizzeremo gli spazi fisici: non è detto che sarà come oggi.

Dopodiché abbiamo la parte più “intensa” di un masterplan, ossia dove avviene lo scambio della comunità e dove c’è più interazione tra le persone. È il “piano terra” di un quartiere, con parchi e aree pubbliche, aree pedonali, funzioni culturali e servizi. Questa fascia normalmente si trova tra i livelli meno uno, zero e più uno, ed è una fascia fondamentale perché anima un quartiere. Oggi ancor più che in passato è necessaria perché, con l’avvento dell’e-commerce, stanno sparendo i negozi e le botteghe. Per ultima abbiamo la dimensione privata, i luoghi dove dormiamo e lavoriamo. Questo riguarda più l’architettura dell’edificio e non è immediatamente il masterplan.

Carlo Mazzi. Foto Brigitte Lacombe

Come si svilupperà il bando e con quali tempistiche? (MG)
M. Catella: Il banditore è rappresentato dal raggruppamento Prada, Covivio e Coima. Il concorso sarà privato ma aderente all’Articolo 8 del regolamento edilizio, quindi avrà una sua componente pubblica. Non sarà su invito ma aperto e sviluppato in due fasi: la prima è quella dell’accreditamento con le manifestazioni d’interesse, dopodiché la giuria – composta da 7 membri di cui 4 nominati dal banditore, 2 scelti dal banditore sulle terne proposte dall’Ordine degli Architetti e dall’Ordine degli Ingegneri e uno scelto dal Comune – selezionerà chi parteciperà alla seconda fase, quella di effettiva progettazione del masterplan. Il modello di questo concorso è gemello dello Scalo Farini, la differenza è che questo viene bandito dall’operatore che poi svilupperà (cioè Prada, Covivio e Coima): non è un concorso per avere delle linee guida, bensì un progetto industriale.

Il quartiere ospiterà il Villaggio Olimpico, che ha come data di consegna giugno 2025. I tempi purtroppo si sono dilatati molto per la pandemia: l’aggiudicazione doveva avvenire un anno fa, quindi con un anno di ritardo. Ora l’obiettivo è di concludere l'aggiudicazione del masterplan entro la primavera.

Le città corrono sempre più il rischio di diventare esclusive. Avete pensato a delle formule per la residenza che possano rendere la zona aperta a diversi utenti? (GR)
M. Catella: Sicuramente, nel senso che il quartiere nasce innanzitutto su impulso dell’Accordo di Programma (una convenzione tra enti territoriali come Regioni, Provincie e Comuni e altre amministrazioni pubbliche, ndr.) quindi il Comune e la Regione hanno predisposto una parte rilevante di edilizia convenzionata e sociale. Poi Prada ha una presenza importante in quest’area che va al di là della funzione culturale.

C. Mazzi: Cosa posso dire? Non la penso come Margaret Thatcher che sosteneva che la società non esiste, che esistono solo le persone e tutt’al più le famiglie. Noi crediamo che la città sia fatta dalla società. Io credo e spero che si possa fare un quartiere che non sia una struttura con una singola funzione, ma che sia un quartiere vivo, cioè che sia articolato in tutte le molteplici funzioni sociali. Vorrei ancora sottolineare la funzione del parcoun luogo di svago e di relax; poi avremo uffici, negozi, abitazioni. Avremo social housing e student housing. La speranza è che venga un ambiente socialmente armonico, come un’orchestra composta da tanti strumenti diversi che suonano insieme.

Manfredi Catella

Cosa significa cambiare la fisionomia di un intero quartiere di Milano, come avvenuto con Fondazione Prada? Ve lo eravate immaginati fin dall’inizio? (MG)
C. Mazzi: Noi speravamo che il quartiere si sviluppasse, ma dire che siamo andati lì per modificare il sud di Milano non me la sentirei di affermarlo. Non potevamo essere così presuntuosi da pensare di cambiare la città. Tuttavia, l’idea alla base del trasferimento della Fondazione in quel quartiere fu ispirata dalla possibilità di recupero di strutture preesistenti, un principio caro a Prada. Lì c’era la dismessa distilleria Società Italiana Spiriti, con il suo fascino industriale. I terreni con i capannoni fatiscenti dietro la Fondazione sono poi stati ceduti a Covivio per un funzionale riutilizzo.

Pensiamo che quella posizione sia stata scelta bene, fortunatamente bene. Pensiamo che star lì sia un’opportunità per noi stessi perché vogliamo vivere la città vera. Spesso parte delle città vengono snaturate. Via Montenapoleone è sicuramente un gioiello ma personalmente rimpiango quando c’era il fruttivendolo, il ciabattino che faceva le scarpe su misura e il salumaio, ma questa è l’affermazione di un uomo del secolo scorso.

Questa interpretazione di quartiere allargato è forse un meccanismo per evitare, almeno sulla carta, la gentrificazione? (WM)
M. Catella: Sul tema della gentrificazione non vorrei farvi inorridire, ma non penso che sia di per sé sbagliata. Nel senso che le città, le economie, le società si evolvono nel tempo, hanno esigenze diverse. Via Montenapoleone se non si fosse gentrificata non sarebbe quello che è, ossia un’eccellenza nel mondo che chiunque viene a vedere. Alcune zone diventano più ricche e meno inclusive di altre. Quando abbiamo fatto Porta Nuova, avevamo comprato le aree di Garibaldi e di Varesina che avevano una loro vocazione. Più complesso è stato intervenire in Isola, un quartiere che aveva delle vocazioni ben precise. È stato un lavoro di ricucitura e di comprensione della matrice sociale di quel quartiere per valorizzare le caratteristiche che potevano sopravvivere e proseguire.

A partire da Expo, Milano è cambiata radicalmente, dalla Darsena a Porta Nuova. Un tempo la città era più “funzionale” mentre oggi sembrano consolidarsi dei valori legati alla piacevolezza del rapporto uomo-natura. È un principio che state portando avanti anche nei futuri progetti per Milano? (GR)
C. Mazzi: Noi di Prada non siamo immobiliaristi, ma semplici utenti, quindi parliamo come fruitori. Che questa problematica sia un tema universale è evidente. Nerone era un grandissimo urbanista e bruciò tutto un pezzo di città per ricostruirla in maniera più magnificente. Tendeva anche lui a strutturare la città con forme qualitativamente sempre più eccelse ma con gravi problematiche sociali connesse. Noi abbiamo visto nella città – nel Dopoguerra, ma anche prima – la creazione di ghetti, di periferie che hanno avuto un effetto gravemente negativo in termini di  rapporti sociali. Ci sono queste due componenti confliggenti: da un lato l’esigenza di migliorare la città e i centri urbani; dall’altro relegare le famiglie in periferia e quindi frantumare  la società e creare contrapposizioni sociali. Ci vuole l’urbanista, ci vuole l’architetto, ci vuole anche la grande impresa immobiliare che possa avere un progetto per conciliare qualità, rapporti sociali e inclusione.

Oggi si parla tanto di diversity e inclusion: anche sotto l’aspetto immobiliare. Su come risolverlo, onestamente, non sono in grado di dare una formula precisa. Ricordo con nostalgia alcune città che ho frequentato, come Innsbruck, che negli anni sono diventate un luogo qualsiasi.

M. Catella: Se guardiamo l’architettura degli anni Ottanta e Novanta, era un’architettura molto iconica, molto autoreferenziale. L’architetto diventava un brand fino a diventare poi archistar. E poi questa tendenza ha dato il suo peggio in Paesi come la Cina o Medio Oriente, dove vediamo una collezione di fac-simili di edifici SOM, Kohn Pedersen Fox, Foster e chi più chi più ne ha più ne metta. Quella è la rappresentazione fisica di un’economia fortemente ispirata all’America, e a un capitalismo di matrice americana, che, come tutte le cose, aveva delle cose positive e delle cose negative. Di positivo c’erano la meritocrazia e l’innovazione, di negativo il ritorno personale basato sulla ricchezza.

Oggi c’è un cambio culturale profondo che però non nasce dal fatto che siamo diventati più buoni o più bravi, ma dal fatto che quel modello capitalistico estremizzato in quella forma ha generato dei problemi mondiali che si chiamano ad esempio ambiente e povertà. Sono emergenze molto accelerate che bisogna affrontare ora.

Scalo Porta Romana. Foto Andrea Cherchi

Quale sarà il futuro delle città? (GR)
M. Catella: L’idea che più grandi sono le città e meglio sono, è figlio di quel modello capitalistico che non mi ha mai convinto, perché non credo nella crescita illimitata, in generale. Oggi lo si vede in tutto il discorso dei borghi che si fa in Italia, concettualmente è la ricerca di una qualità della vita più semplice e magari più accessibile e più vivibile: è forse questo il punto su cui bisogna riflettere su quando si sviluppano le città. Con Renzo Piano si parlava di come le città dovrebbero essere contenute e avere una dimensione identificata, per poi metterle in connessione veloce tra di loro. In Italia, da Milano si raggiunge Torino in 40 minuti: che differenza c’è con i quartieri di Londra, dove le distanze sono quelle? Ci può essere un modello di sviluppo nuovo, che il nostro Paese può esprimere perché fa parte della nostra storia ed è più attuale che mai.

Nella sua idea di rammendo delle città, Renzo Piano sosteneva che il futuro delle città esiste già. In Italia, se escludiamo Milano e Roma – molto diverse tra loro – forse le città non ci sono. Il nostro modello è di un territorio prevalentemente collinare, se non montuoso, dove gli insediamenti grandi non c’erano. Se le città non crescono più e non producono più, poi che succederà? (WM)
M. Catella: Non credo sia un tema di città, bensì di distribuzione dell’economia. Le città continueranno a crescere. L’opportunità che noi abbiamo rispetto ad altri Paesi è un tessuto molto più accessibile perché piccolo, ma di città ne abbiamo tante. Se le si mette a sistema, connesse, è come se fossero dei quartieri, cosa che non si può fare in altri luoghi. È un modello che noi possiamo sviluppare ma il vero problema strutturale in Italia è la demografia: se trovassimo un modello territoriale potremmo essere sicuramente una destinazione attrattiva per molte persone, che potrebbero venire a vivere qui e contribuire all’economia. Quindi, non dico di fermiare il capitalismo, sarebbe assurdo. Ma pensiamo a modelli di crescita diversi che possano essere anche molto superiori dimensionalmente a quelli che abbiamo adesso.

Coima, nata ormai quasi 50 anni fa a Zingonia, ha visto un’evoluzione del mercato immobiliare molto importante.Alla luce di questo cambio di paradigma dal punto di vista culturale, sente che il privato si fa carico di preservare e portare avanti dei valori e delle condizioni abitative delle città che una volta erano portate avanti dal pubblico? C’è un conflitto in questo? Prendiamo la Francia, in cui una volta lo Stato aveva mano più libera: oggi, conmeno disponibilità economica, ha trovato formule come le ZAC, ovvero le zone d’aménagement concerté, per coinvolgere i privati nello sviluppo della città. Quanto diventa corresponsabilità pubblico-privata la creazione di una città più equa? (GR)
M. Catella: Un’azienda che si occupa di territorio deve avere un forte senso di responsabilità occupandosi di un bene comune e di progetti che hanno impatto, per molti anni, sulla collettività. In questo senso credo che tra pubblico e privato possa esserci un rapporto virtuoso se ciascuna parte svolge bene il proprio ruolo. Per questo tutti noi dobbiamo aggiornare le nostre organizzazioni, private e pubbliche, rispetto a nuove competenze tecniche ad esempio in materia ambientale, digitale, sociale. Questo per potere affrontare con competenza un futuro che ci offre una sfida straordinaria che può riportare l’Italia ad essere di nuovo modello per il resto del mondo come lo è stata in molti periodi della nostra storia.

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