All’incrocio di Creek Road – un tempo ruscello, oggi lungo divario d’asfalto – autobus rumorosi sfrecciano veloci sotto il sole torrido e lasciano una scia di polvere sul viale trafficato. L’attesa al semaforo sembra eterna, e non solo per via del caldo. Se solo diventasse verde, ci si potrebbe rifugiare sotto il mandorlo dall’altra parte della strada... C’è chi, con coraggio, decide di tentare, sperando che moto, auto e bus diano la possibilità di raggiungere le rare zone d’ombra che punteggiano sparute le vie.
Superare Creek Road significa varcare la soglia di un nuovo mondo, fatto di stradine tortuose e vicoli stretti che si snodano sotto bellissimi balconi, sospesi a mezz’aria sopra le fila degli alberi, qua e là interrotti dai cavi che collegano la città alla corrente. Lo skyline unico di Stone Town è il tangibile risultato di una straordinaria fusione culturale. Per secoli, la città è stata l’epicentro di un intenso scambio commerciale tra Asia e Africa, e la sua architettura e struttura urbana ne portano ancora le tracce.
Zanzibar rappresenta un microcosmo emblematico del ventesimo secolo, un luogo che abbraccia passato, presente e futuro contemporaneamente. È una testimonianza vivente della storia dell’architettura e, allo stesso tempo, scrive il capitolo della sua conservazione. Sul lato ovest sorge Stone Town, riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, mentre sul lato est si estende Ng’ambo, “L’altro lato”, la cui storia è intrecciata con quella della popolazione indigena swahili. Queste due realtà sono separate da un ampio viale, una linea retta che ne delimita chiaramente i confini. “Creek Road” è l’ostacolo che ancora persiste. Nata come linea di segregazione durante il dominio britannico, oggi in teoria è possibile attraversarla. Tuttavia, la rigida configurazione urbana e le scelte di conservazione storica – e l’impronta psicologica che queste hanno lasciato nella percezione della città – continuano a mantenere vivo il divario tra i due luoghi.
Stone Town si presenta come un vero palinsesto dei molteplici strati culturali depositati da diverse comunità nel corso dei secoli, risultato della fusione tra la cultura indigena swahili e le influenze dei commercianti arabi, persiani e indiani.
Almeno fino a oggi. Infatti, l’architetto Aziza Chaouni, docente presso l’Università di Toronto, insieme a un team di esperti – Fadi Masoud, direttore del Centro per la ricerca sul paesaggio, e Bomani Khemet, professore associato di Scienze degli edifici presso l’Università di Toronto – sta collaborando con l’Autorità per la conservazione e lo sviluppo di Stone Town, guidata da Ali Bakar, per una nuova iniziativa di ricerca che mette in discussione lo status quo delle politiche di conservazione. Alla base della metodologia del workshop c'è la possibilità di ricongiungere la molteplicità di storie opposte che hanno dominato la città di Zanzibar attraverso un riallestimento degli spazi pubblici e dei vuoti nel tessuto urbano, che potrebbe non solo raccontare i molteplici strati della storia della città, ma anche formare una rete che ricolleghi le sue due facce. Dato che la Stca ha deciso di impedire l'ingresso delle auto nel centro storico, questo progetto ha un senso preciso: gli spazi adibiti a parcheggio dovranno essere ripensati.
Il riconoscimento di Stone Town come Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco nel 2000 ha giocato un ruolo cruciale nel preservare la parte coloniale della sua storia – ma c’è molto di più. Il paesaggio urbano è in un vero e proprio museo a cielo aperto, una collezione di edifici che raccontano visivamente le storie sovrapposte dell’occupazione della città. Stone Town si presenta come un vero palinsesto dei molteplici strati culturali depositati da diverse comunità nel corso dei secoli, risultato della fusione tra la cultura indigena swahili e le influenze dei commercianti arabi, persiani e indiani. Dopo aver scacciato i portoghesi nel diciottesimo secolo, la città divenne sede dei governanti omaniti, per poi passare sotto il protettorato britannico fino all’indipendenza nel 1964.
L’espansione verso l’altra sponda del torrente, “Ng’ambo”, iniziò nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Qui, la popolazione, composta da vari gruppi etnici e sociali, accoglieva mercanti, schiavi liberati, pescatori e commercianti. Durante il dominio britannico, Ng’ambo vide la crescita di diverse comunità, tra cui arabi, swahili, indiani, persiani, comoriani, goani e malgasci, fino ad equiparare le dimensioni di Stone Town. Queste comunità costruirono case in uno sviluppo organico, creando un tessuto urbano caratterizzato da case swahili, beyts omaniti e dukas indiani. Dopo l’indipendenza, il governo socialista di Karume introdusse rigidi piani di ricostruzione modernista, che portarono alla creazione di massicce unità abitative note come “Treni”, ora abitate da famiglie a medio e basso reddito, a due passi dalla storica città protetta dall’Unesco.
Zanzibar rappresenta un luogo che abbraccia passato, presente e futuro contemporaneamente. È una testimonianza vivente della storia dell’architettura e, allo stesso tempo, scrive il capitolo della sua conservazione.
Nonostante ciò, la divisione spaziale e razziale imposta dalle autorità coloniali ha lasciato una profonda frattura nel tessuto urbano di Zanzibar. Le due narrazioni del passato coloniale, una protetta dall’Unesco e l’altra esclusa dalla conservazione, coesistono, ma finora non sono mai state studiate in modo integrato. Sebbene le iniziative dell’Unesco abbiano favorito la conservazione, l’esperienza unica e il patrimonio residenziale delle due forme di vita indigene e i successivi sviluppi modernisti sono rimasti in gran parte trascurati. Lo studio condotto da Aziza Chaouni si propone di ribaltare questa tendenza, attribuendo per la prima volta un’importanza storica anche all’architettura moderna.
Il valore del patrimonio urbano delle “due parti” di Zanzibar e la loro possibile riunificazione rappresentano un complesso lavoro di storicizzazione di una narrazione globale dell’architettura. Tale prospettiva sfida le concezioni implicite nella conservazione, mettendo in discussione l’opposizione tra l’eredità vernacolare e quella post-indipendenza dell’architettura africana. Stone Town si configura così come un caso di studio fondamentale per una riflessione critica sulla storia dell’architettura globale del ventesimo secolo. Il progetto di Chaouni ha il potenziale di mettere in discussione il canone consolidato della conservazione dell’architettura globale, con implicazioni che vanno ben oltre i confini della Tanzania.
Tutte le foto sono di Aziza Chaouni