Reyner Banham aveva già capito tutto della Silicon Valley

“Sic transit gloria siliconvallensis”, scriveva il grande critico inglese poco meno di quarant'anni fa.

Reyner Banham dedicò alla Silicon Valley ben tre testi, pubblicati a distanza ravvicinata a partire dal 1980 fino al 1987[1]. Nel suo ultimo articolo “La fine della Silicon Valley”, il critico inglese espresse una posizione lontana da quell’ottimismo per l’hi-tech che aveva caratterizzato i suoi primi saggi, in cui aveva dipinto la Silicon Valley non solo come una località ma anche come una coscienza industriale illuminata.

Il primo dei saggi di Banham sulla Silicon Valley risale al 1980, l’anno in cui l’economia della Valley inizia a dare segni di malessere, tanto che Banham osserva che è arrivato il tempo di fermarsi e fare il punto sullo stato attuale della visione corporativa e dell’architettura hi-tech della Silicon Valley. Proprio nel 1980, il San José Museum of Art inaugurava la mostra “Architecture for Industry in the Santa Clara Valley”[2] ma tale informazione – contenuta nell’articolo del 1980, pubblicato sulla rivista locale New West – venne rimossa quando il testo fu sottoposto a piccoli tagli e interpolazioni, per essere ripubblicato nel 1981 su The Architectural Review col titolo “Silicon Style”. Così questo evento non fu mai approfondito dagli storici e non venne neanche mai più menzionato[3]. Eppure proprio su The Architectural Review, Banham pubblicò parte del materiale esposto in mostra, come le fotografie e le piante relative agli edifici delle compagnie IBM, Qume, Alza, Digital Equipment e Dysan.

Fairchild Whisman Road assembly area. Photo courtesy of Computer History Museum

Nel 1985, la rivista Architecture pubblicò il secondo testo di Banham, “The Greening of Hi-Tech in Silicon Valley”, un’indagine molto circostanziata sulle architetture più rappresentative e controverse di un’area con un enorme potere economico. “What happens on your 18th birthday? – scriveva sarcasticamente Banham – Daddy gives you a Porsche?”[4]. L’autolavaggio hi-tech su El Camino Real, la scuola superiore di Campbell e il revival egizio della Rose-Croix University non sono che alcuni degli esempi di quello che Banham definiva ironicamente “Silicon Style”, un’architettura che probabilmente lo affascinava proprio in virtù delle sue forti contraddizioni. Banham concludeva questo testo col disincanto di chi vede la buona architettura scomparire, o sopravvivere ma solo a patto di essere “riciclata”, come nel caso della scuola di Campbell, un edificio classico che venne convertito in un complesso di uffici e negozi. Al contrario, nella Valley le architetture che nascevano kitsch venivano rigorosamente conservate come mete turistiche, come la Winchester Mystery House, una residenza della fine del XIX secolo simile a un’attrazione di Disneyland[5].

Con il suo ultimo articolo sul tema, Reyner Banham descrisse la Silicon Valley come una spettrale geografia in rovina, composta da edifici postmoderni in decomposizione o mai terminati, che erano già ruderi prima ancora di essere compiuti e che derivavano “in modo elementare dall’opera di Michael Graves e Aldo Rossi”[6]. Tra gli edifici della Silicon Valley, Banham si sofferma su alcune preesistenze, come lo Shoreline Amphitheater, che testimoniava le radici counterculture dell’area della Baia di San Francisco, e sui resti della militarizzazione – la base aerea di Moffett Field, gli hangar e i laboratori Ames Research della NASA – che ricordano come, durante la Guerra Fredda, la Valley diventò un vero e proprio centro di controllo e di difesa sul Pacifico. L’articolo è accompagnato da una serie di foto dell’autore, da cui è evidente lo stato di degrado dell’area. Ma a quello che potrebbe apparire come un paesaggio in rovina, si aggiunge molto presto, nel testo di Banham, l’immagine del paesaggio dello scarto, nel momento in cui le aree della Santa Clara Valley – definita solo nel 1970 “Silicon Valley” – vengono “consacrate” a gigantesche discariche:

“L’immondizia sepolta fermenta e produce grandi quantità di metano […] una parte di esso filtra attraverso l’erba, e in certe tranquille notti senza vento si accumula una massa di gas sufficiente a provocare incendi ed esplosioni se un ignaro spettatore sfrega il suo Bic per accendere una sigaretta o uno spinello di marijuana… Questi episodi apocalittici con il fuoco che zampilla dal terreno come in qualche visione da biblica vendetta divina, sono molto indicativi – persino simbolici – dello stato attuale della Silicon Valley”[7].

Quest’immagine apocalittica e allo stesso tempo dissacratoria sembra essere adeguata a presentare alcune contraddizioni della Silicon Valley, sospesa tra le ambizioni utopistiche dell’era digitale, che la porteranno a diventare la maggiore tecnopoli del mondo, e il carattere pragmatico dell’architettura dei suoi edifici. Ma insieme all’immagine di un territorio in rovina, Reyner Banham evidenziava la presenza di alcuni sparuti monumenti. Un edificio, in particolare, attira la sua attenzione, quello della Fairchild Instruments, modellato sugli esempi della sede centrale della John Deere di Eero Saarinen e della Xerox Corporation a El Segundo di Craig Ellwood:

“Costruito nel 1967 – appena vent’anni fa: sic transit gloria siliconvellensis! – […] [il Fairchild Building] fu la prima costruzione moderna della valle a esprimere l’idea che un buon progetto può diventare parte essenziale della politica e dell’immagine aziendale […]. [Esso] Sembra un monumento adatto alla fine della Silicon Valley, perché è il momento in cui la valle e la sua sfrenata cultura industriale devono finalmente esprimere un giudizio sulla loro posizione in seno a una storia che hanno sistematicamente cercato di ignorare, facendo finta che l’ieri non sia mai esistito nello stesso modo in cui si è costruito come se non esistesse il domani”[8].

Con queste parole, Banham sembra sottolineare un certo grado di immaturità nella cultura industriale dell’area. Se nel passato la Silicon Valley fu il monumento alle ambizioni tecnologiche di una nazione, oggi essa appare come la città illusoria della tecnologia che confeziona prodotti assemblati altrove. Cosa sarà, dunque, della Silicon Valley? Diventerà un luogo geografico popolato da nuovi monumenti o sopravvivrà solo come il deposito fisico, l’archivio e il museo diffuso della cultura digitale? In fondo, la contrapposizione messa in evidenza da Banham tra il corpo in decomposizione e l’emergenza di nuovi monumenti alle ambizioni dell’era microelettronica si adatta ancora all’immagine dell’area. La descrizione che Banham fornisce, e che in un certo senso anticipa l’attuale, è quella di una Silicon Valley intesa come ultimo atto della disgregazione urbana in una sommatoria di oggetti discreti e isolati, una città dell’imprenditoria che segue il modello della città di Los Angeles, nata dalle ambizioni sfrenate di pochi developers invece che da un piano. È chiaro che alla luce della reinvenzione, effettuata da Banham, del mito di Los Angeles[9], occorre riconsiderare anche molti dei luoghi comuni sulla Silicon Valley, sospesa come L.A. tra una storia urbana fatta di separazione fisica e la dimensione del fantastico. Ancora oggi, l’area è caratterizzata dal contrasto tra giovani compagnie informatiche, le startup – che tendono a cambiare rapidamente aspetto, occupando fabbriche o capannoni industriali che è possibile smantellare e ristrutturare in tempi rapidi – e giganti come Facebook ed Apple, che preferiscono invece costruire nuove sedi, capaci di veicolare attraverso l’architettura l’immagine che vogliono trasmettere al mondo. Tali edifici diventano monumenti personalizzati, simbolo di una nuova ed eccentrica era hi-tech.

1:
Cfr. Banham, Reyner, “The Architecture of Silicon Valley”, New West, n. 5, September 22, 1980, 47-51; Banham, Reyner, “Silicon Style”, The Architectural Review, n. 169, May 1981, 283-90; Banham, Reyner, “The Greening of high tech in Silicon Valley”, Architecture, March 1985, vol. 74, 110-119; Banham, Reyner, “La fine della Silicon Valley”, Casabella, n. 539, October 1987, 42-43.
2:
Cfr. Banham, Reyner, “The Architecture of Silicon Valley”, op. cit., 48. La mostra fu inaugurata il 2 settembre del 1980 e il materiale d’archivio è attualmente conservato presso il Research Library and Archive dello History San Jose (HSJ). Le corporations esposte in mostra erano Adp Dealer Services, Alza, Digital Equipment, Dysan, Fairchild Camera e Instrument, Hewlett-Packard (2 sedi), IBM (General Products Building), Intel (2 sedi), I.S.S. Sperry Univac, Memorex, Qume, Rolm, Syntex, Varian Associates, Xerox, Wyle e Distribution Group.
3:
C’è solo una menzione di quella mostra nell’ultimo articolo di Banham su Silicon Valley, ma esso venne pubblicato solo in italiano.
4:
Banham, Reyner, “The Greening of high tech in Silicon Valley”, op. cit., 119.
5:
Cfr. Winner, Langdon, Silicon Valley Mystery House, in Sorkin, Michael (a cura di), Variations on a Theme Park: Scenes From The Few American City and the End of Public Space, New York: Hill and Wang, 1992, 31-55.
6:
Banham, Reyner, “La fine della Silicon Valley”, op. cit., 42
7:
Banham, Reyner, “La fine della Silicon Valley”, op. cit., 42.
8:
Banham, Reyner, “La fine della Silicon Valley”, op. cit., 43. La sottolineatura è di Banham. Ispirati al lavoro di Eero Saarinen, Simpson, Stratta & Associates di San Francisco disegnarono il Fairchild Building alla fine degli anni sessanta. L’edificio venne demolito nel 1993.
9:
Cfr. Banham, Reyner, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, Torino: Piccola Biblioteca Einaudi, 2009

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