Al festival grande attenzione è stata dedicata alle dimensioni della casa in cui le persone vivono, con One Central Park come esempio universale per promuovere l’abitazione ad alta densità.
Seguendo poi i percorsi paralleli al nucleo centrale del festival, il progetto The Global 1:1 si è chiesto quanti metri quadrati occorrano per vivere bene in città. Nel cortile del birrificio di Central Park il Sydney Architecture Festival, insieme con lo studio Hassell e con il Committee for Sydney, ha messo a confronto piante d’appartamento di medie dimensioni tracciandone i contorni sul cemento della corte. La mappatura delle piante delle abitazioni medie in città di tutto il mondo ha dato ai visitatori un termine di paragone molto concreto per capire di quanto, o quanto poco, spazio dispongano normalmente le persone per abitarci. Come dice David Tickle dello studio Hassell, ciò pone la questione della quantità di spazio che serve nelle case. Tickle mette a confronto l’ordinaria abitazione australiana di 78 metri quadrati con spazi abitativi molto più compatti di altre città del mondo, tra cui Copenaghen (50 metri quadrati), gli Stati Uniti (70 metri quadrati) e Hong Kong (15 metri quadrati). Dice Tim Horton che quando le piante degli appartamenti sono state disegnate in scala 1:1 si è scoperto che “nell’area di un’abitazione australiana si possono far entrare tre appartamenti”. La mostra non entra nel merito delle implicazioni che l’abitare in spazi più ridotti ha per la salute, i rapporti familiari e quelli comunitari, né di quali altre risorse siano disponibili a livello pubblico e comunitario a fronte di quelle investite in spazi più ristretti.
Ma dove si potrebbero parcheggiare case di questo genere in un luogo come Chippendale? La grande contraddizione del Sydney Architecture Festival è stata la presentazione, come progetto d’immagine, dell’enorme casa/opera d’arte di 1.050 metri quadrati costruita per una sola persona – la collezionista Judith Neilson – contrapponendole minuscole abitazioni di soli 13,75 metri quadrati, ipotizzate come soluzione alla crisi del costo degli alloggi.
Con questo non si vuole sminuire l’eccellenza progettuale dell’edificio, o l’atteggiamento di apertura di Judith Neilson, che ha messo la sua casa a disposizione degli estranei. Ma c’è un tocco di ipocrisia che gli organizzatori del festival dovrebbero ammettere.
Il risultato è, senza incertezze, bello. Tutti i materiali e gli arredi sono stati scelti per resistere alle condizioni climatiche, tutti gli elementi mobili come i cardini hanno un movimento meccanico e non digitale. La casa ha riscaldamento e condizionamento geotermici. Dispone di quattro camere da letto oltre che di un appartamento separato per gli ospiti e di un’abitazione annessa per il maggiordomo. Al tavolo da pranzo possono sedere 60 invitati. I bagni sono sei. Ma oggi come oggi in questa casa vive una sola persona.
Non è una contraddizione? Perché si invitano certe persone a vivere in spazi minuscoli mentre altri luoghi sono destinati alla vendita di edifici sovradimensionati di edilizia privata? Anche se Neilson ha l’intenzione di condividere la sua casa con tutto il mondo, non c’è dubbio che ciò avvenga e debba avvenire a sua esclusiva discrezione.
Si pone la domanda se non sia necessario aumentare il prezzo dello spazio, al di là del potere d’acquisto di chi risiede in aree urbane densamente popolate, come lo Stato talvolta fa per lo spazio delle autostrade. Se è possibile imporre in certe autostrade che su ogni auto viaggino almeno due persone, possiamo imporre lo stesso obbligo all’abitazione? Dato che la funzione dello spazio è quella di un’abitazione privata, che non può essere affittata, è tecnicamente meno accessibile al pubblico anche rispetto a uno spazio commerciale, che per lo meno si può affittare.
È indispensabile che lo Stato acquisti consapevolezza di queste contraddizioni, in una città in cui al proprietà immobiliare è la principale risorsa commerciale, al punto che la disuguaglianza si misurerà non in denaro ma in metri quadrati: la quantità di territorio che ciascuno ha a disposizione.
L’Australia è il Paese più urbanizzato del mondo e vanta alcune delle città più vivibili del mondo.
In una nazione dalla storia così recente, dove l’architettura ha avuto una parte fondamentale nel processo di costruzione dell’identità nazionale e nell’accoglienza dei nuovi immigrati, il festival ha fatto bene a riflettere sull’architettura del luogo. Ponendo Chippendale al centro dell’attenzione gli organizzatori hanno mostrato come nuovi progetti possano documentare la storia sociale e tramandarne il riflesso alle costruzioni future.
E tuttavia il festival avrebbe dovuto assumere una posizione più critica su certe soluzioni che proclama, e sul modo in cui possono differenziarsi nell’applicazione alle persone: cioè chiedersi che cosa accadrebbe se vivessimo tutti in spazi piccoli, oppure se vivessimo tutti in spazi grandi? A chi tocca decidere chi vive dove, e a vantaggio di chi? Anche se un festival di questo tipo non potrà mai risolvere tutte le contraddizioni di una città multiforme come Sydney, occorre per lo meno essere consapevoli di quelle del modo in cui la città prende forma.
30 settembre – 3 ottobre 2016
Future Impending
Sydney Architecture Festival