Spugne di cemento. (Corviale e i suoi fratelli)

Le dimensioni, nel caso del Corviale, contano davvero: 750.000 metri cubi di cemento per un edificio di 958 metri di lunghezza, 200 di spessore e 30 di altezza; con 1.200 alloggi e “8.500 vicini di casa” (come recita un bel racconto di Roberto Monelli).

Progettato da Mario Fiorentino e un team di architetti romani nel 1972, realizzato solo 10 anni più tardi e mai completato (ancora oggi mancano i servizi principali), il Corviale è un o dei più grandi parallelepipedi del mondo; una geometria euclidea extralarge: un chilometro secco di calcestruzzo sfaccettato composto da cinque coppie di stecche messe in fila sul colmo di una collina.

A renderlo un’unica immensa “casa” è l’implacabile modulo costruttivo: due blocchi di residenze, divisi da una fenditura verticale strettissima e tagliati circa a metà della loro altezza da un piano “libero” destinato ad ospitare negozi, spazi ricettivi e di incontro. Un lunghissimo corridoio divenuto col tempo un ricovero di abitazioni abusive, che si sono sommate ad una lunga storia di occupazioni, abusi e morosità.

Una storia che oggi, a più di 20 anni dalla sua nascita, torna a far discutere tra i fautori della demolizione (e del riutilizzo di una volumetria appetibilissima) e quelli del recupero. Anche grazie ad un seminario in progress promosso dentro al Corviale da Stalker-Osservatorio Nomadi.

Considerato da molti un “mostro” e da altri un monumento, il Corviale resta in verità un colosso bifronte.

A prima vista, il Corviale sembra un viadotto lasciato a metà sul colmo di una collina, il frammento di una immensa e incompiuta diga abitata. Del resto, come alcuni altri grandi edifici di “edilizia economica e popolare”, il Corviale nasce nel solco delle megastrutture residenziali immaginate 50 anni prima da Le Corbusier con il miraggio dell’ autostrada abitata di Algeri e proseguite con le infrastrutture residenziali di Kenzo Tange. Immense macchine per abitare, capaci di contrapporre la loro limpida geometria alle asperità del paesaggio suburbano e di proporre un modello di vita alternativo sia alla città storica che alle periferie industriali.

Un modello divenuto in Italia praticabile solo alcuni decenni dopo, grazie ai fondi stanziati per la residenza popolare (la prima legge per la 167 è del 1962) e alla presenza di un unico promotore, lo Stato, capace di supportare un tale impegno senza garanzie di ritorno economico. Dopo le “Vele” di Napoli (64), il “Biscione” di Genova (68), il complesso di Rozzol Melara a Trieste (70) e quello del “Monte Amiata” al Gallaratese di Milano (73), il Corviale è l’ultimo esemplare di una piccola stirpe di grandi edifici che hanno impersonificato l’alterità dello Stato rispetto alle dinamiche del mercato immobiliare privato.
Colossi ideati per attirare un intero mondo vitale -un ceto popolare di assegnatari assistiti- irrigimentarlo e contrapporlo all’espansione selvaggia delle periferie, che solo a Roma nel corso degli anni ’60 ogni anno accoglievano 60.000 nuovi abitanti.

Ma proprio l’eccesso simbolico del Corviale, la volontà di potenza che univa in quegli anni una parte dell’architettura italiana, svela anche l’irresponsabile presunzione che ha impedito ad alcuni suoi protagonisti di guardare senza paraocchi le effettive dinamiche del mercato edilizio e le debolezze strutturali dell’intervento statale.

Non dobbiamo infatti dimenticare che il Corviale è stato ultimato solo nei primi anni ’80, quando le politiche di edilizia economica erano ormai esaurite, la loro battaglia era già persa e –soprattutto- il “nemico” era cambiato.

L’utopia concreta del Corviale è stata così doppiamente beffata.

Dall’interno, poichè l’isolamento e l’assenza di servizi, il rapido degrado e la rigidità degli spazi interni, le difficoltà di assegnazione, hanno rapidamente richiamato una rete di famiglie escluse dai meccanismi di assistenza, disposte ad appropriarsi in forme parassitarie e illegali di un modello domestico rigido, senza variazioni.

E dall’esterno, perché quando il Corviale ha cominciato a “funzionare”, nelle periferie romane già pulsava il ritmo diverso e brulicante di una miriade di piccole trasformazioni edilizie. Il tentativo di concentrare una città in un unico edificio per accorparvi i volumi altrimenti scompaginati dei condomini abusivi, nulla ha infatti potuto contro la marea di villette e palazzine che lo hanno presto raggiunto e sorpassato, lasciandolo sul posto come un bastione nostalgico.

Proprio per questo, più che ad una infrastruttura, il Corviale ricorda il fossile di un grande dinosauro tardivo, uno di quelli sopravvissuti ai primi sommovimenti climatici; selezionati, ma comunque destinati a estinguersi.

Eppure, proprio questo suo ritardo congenito, insieme con la potenza immutata della sua geografia di cemento, deve consigliare oggi una grande e lucida prudenza. Che allontani la nuova utopia di una “cancellazione” del Corviale e il progetto –altrettanto pericolosamente autoritario e velleitario- di una sua sostituzione con un villaggio in stile medioevale.

Meglio davvero ascoltare le ricerche di Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi e capire che forse il riscatto del Corviale può nascere solo dall’attento studio delle sue attuali condizioni: nonostante tutto, nonostante le immense difficoltà, la vitalità del Corviale, sta proprio nelle sue anomalie, nella sua inaspettata permeabilità ad accogliere forme di vita eclettiche. Sta nelle relazioni di vicinato tra famiglie e gruppi di eterogenea provenienza, ma abitanti sullo stesso infinito piano; nell’uso improprio dei ballatoi e dei negozi. Basterebbe forse esasperare nel suo immenso corpo quella varietà di usi e attività che non gli è mai stata davvero concessa e che è stata in piccola parte raggiunta solo grazie a continui abusi; permettere in questi grandi massi di cemento una varietà di regimi di proprietà e di modi di abitare sottratta a qualsiasi normativa d’uso, lasciando che vi si introducano spazi di lavoro, di commercio, luoghi espositivi, di sperimentazione, di svago. Progettare la loro coesistenza senza costringerli entro standard e regole di contiguità.

A ben pensarci, l’unico futuro per queste grandi case pensate come città ma rimaste immensi dormitori, sta forse proprio nel rilanciare la loro utopia: riprogettarle come vere “spugne di cemento”. Gli unici luoghi della città contemporanea dove sia possibile sperimentare la libera combinazione dei modi di vita.

* pubblicato sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore

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