Iwan Baan: come viviamo

Invece di cadere nella scuola della fotografia di stile documentario alla National Geographic, la collezione di fotografie di Baan in mostra alla Perry Rubenstein Gallery suggerisce una specie di introspezione o di palese soggettività.

Di solito mi piace andare alle mostre d'arte solo dopo aver fatto qualche compito a casa. Per lo meno, conoscere il nome dell'artista in mostra viene considerato un segno di cortesia giornalistica. Ma mi sarebbe piaciuto visitare "Iwan Baan: The Way We Live", alla galleria Perry Rubenstein di Hollywood, da tabula rasa, completamente ignara di Baan e della sua condizione di rock-star del mondo dell'architettura, e candidamente inconsapevole del contesto in cui le fotografie in mostra sono state pubblicate in origine.

Se non avessi conosciuto Iwan Baan – meglio ancora, se non avessi conosciuto Herzog & de Meuron – che cosa avrei pensato constatando che in Bird's Nest #2 (ritratto in corso di costruzione dell'emblematico stadio di Pechino, che rende piccini gli operai in primo piano) spira la stessa atmosfera di Los Angeles #1 (veduta aerea della città)? Avrei pensato che fossero opera di un artista che traccia un parallelo tra un groviglio di aste d'acciaio e un groviglio di incroci autostradali, e che illustra lo splendore e l'assurdità di questi soggetti in un singolo batter d'occhi.

Allora il punto critico di una personale di Baan – non certo la prima, ma la prima al di fuori di un rigido contesto architettonico, e la più completa di tutte – sta in un presupposto vincolante: non è corretto dare per scontato che delle fotografie abbiano un senso complessivo solo perché noi ci vediamo dentro i Rem, le Zaha e gli Heatherwick, né che grazie a questi nomi le foto siano bell'e pronte a farsi leggere come un insieme. La parte più significativa del successo della mostra dipende dal fatto che le immagini di Baan, ridotte all'immediatezza visiva e al punto di vista concettuale che presentano, funzionino o meno come opere d'arte 'anonime', più per ostensione che per dichiarazione. Qual è l'inedita coesione che si sviluppa tra queste immagini – un collage che ha richiesto otto anni di lavoro – quando le osserviamo tutte insieme?
In apertura: Iwan Baan, <i>Torre David</i>. Qui sopra: Iwan Baan, <i>Dubai</i>
In apertura: Iwan Baan, Torre David. Qui sopra: Iwan Baan, Dubai
Personalmente mi è parso molto soddisfacente vedere la già leggendaria foto intitolata City and the Storm ("La città e la tempesta"), scattata da Baan a Manhattan dopo il passaggio di Sandy, aperta alle interpretazioni, senza che la testata di una rivista newyorchese la attraversi; allo stesso modo la foto di una ragazza scattata attraverso una vetrina della sede di Mikimoto Ginza 2, a Tokyo, appare, sulle bianche pareti della galleria, non come l'angolo di una struttura emblematica, ma come un dipinto astratto piegato a metà. Non più un Toyo Ito, in altre parole, ma solo un Iwan Baan. La ragazza di Tokyo #1, che guarda fuori verso chi osserva, non è poi così diversa dal mare di visi di Guangzhou #1 (scattata dentro il teatro dell'opera di madame Hadid, ma questo non c'entra): sono punti di riferimento anonimi, figurativi, di composizioni surreali e fluide.
Iwan Baan, <i>City and the Storm</i>
Iwan Baan, City and the Storm
Nel complesso le opere di Baan si giovano di un relativo grado di semplificazione: dal fatto al sentimento. 'Deprivare' queste immagini dell'informazione legata alla poesia permette a The Way We Live ("Come viviamo") di assurgere all'altezza del suo ricco, ingannevole titolo: non viviamo a Caracas, a Shanghai, a Tokyo, a Los Angeles, a New York o in una delle numerose altre città che Baan ha visitato con la sua macchina fotografica. Certo che no. Sono altri a viverci. Ma, invece di cadere nella scuola della fotografia di stile documentario e didattico alla National Geographic, la collezione di Baan, nel titolo e nei fatti, suggerisce una specie di introspezione o di palese soggettività. Non solo sua, ma anche 'nostra'. Di colpo ci si trova tanto vicini all'ambiente che ci circonda direttamente da farcelo apparire astratto (ovvero: la fotografia di Baan intitolata CCTV #1 è un particolare che dimostra quanto distorto possa essere lo sguardo ravvicinato) e si è tanto lontani dall'ambiente degli altri da sentirsi distaccati dalla maggior parte del pianeta, anche nell'epoca della connettività mondiale; anzi specialmente in questo mondo. A prescindere dall'efficienza del collegamento di Skype, non si è mai contemporaneamente di fronte al portatile a Tokyo e a Caracas, a 15.000 chilometri di distanza. Si è solo davanti al portatile a Tokyo, con l'astratta ma chiara coscienza che il mondo è grande e che la maggior parte di esso è sempre fuori portata.
Iwan può starsene sollevato a un chilometro da terra e riuscire ancora a spiegarti il posto in cui vivi nel meno pedante e più visivamente potente dei modi
Iwan Baan, <i>Shanghai</i>
Iwan Baan, Shanghai
Le foto di Baan suggeriscono che in realtà viviamo (1) confinati nella miopia di quel che riusciamo a vedere e toccare direttamente, e (2) perpetuamente a confronto con la vastità del resto del mondo, cui siamo geograficamente, concretamente – se non emotivamente – estranei. In una conversazione seguita all'inaugurazione Perry Rubenstein mi ha confidato che certi cittadini di Los Angeles, interrogandosi sulle fotografie dedicate alla loro città, ammettevano di non sapere dove fossero state scattate quelle immagini. Appunto: certe volte ci sentiamo estranei perfino rispetto al nostro ambiente. "Iwan può starsene sollevato a un chilometro da terra e riuscire ancora a spiegarti il posto in cui vivi nel meno pedante e più visivamente potente dei modi", mi ha dichiarato Rubenstein. "Ha la capacità di farti vedere il tuo mondo in modo diverso: e che cosa si può chiedere di più a un artista?"
Iwan Baan, <i>Lalibela</i>
Iwan Baan, Lalibela
È significativo che la mostra segni un punto di svolta per Baan, da una qualifica a un'altra. La definizione di 'fotografo d'architettura', in ogni modo, non gli è mai stata molto consona, ma veniva usata comunque per semplicità. Una mostra personale di questo genere, immediatamente dopo una ben diversa mostra di Mike Kelley nella stessa galleria, colloca più palesemente Baan tra le file degli artisti. All'inaugurazione Baan mi ha spiegato che, selezionando otto anni di lavoro, sperava di ottenere una collezione di foto che parlassero tanto di 'chi sono io' quanto della Cina dell'ultimo decennio, di Manhattan nell'ottobre del 2012 oppure della Torre David (il grattacielo non finito di Caracas che vive come una comunità autonoma; molte delle foto in mostra facevano parte del progetto vincitore del Leone d'Oro della Biennale Architettura 2012). Le foto di Baan aprono all'osservatore parecchie porte chiuse e lo fanno entrare in certe società anch'esse chiuse; ma, cosa più importante, aprono un dialogo su prospettive che restano bloccate pur essendo in piena vista.
Iwan Baan, <i>Tokyo #1</i>
Iwan Baan, Tokyo #1
Fino al 13 aprile 2013
Iwan Baan: The Way We Live
Galleria Perry Rubenstein, Los Angeles

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