Allora come ora
È il 1995. È il 2024. Tre decenni sono passati da quando Mathieu Kassovitz vince il premio per la migliore regia al Festival di Cannes con un film ambientato nelle banlieue parigine all’indomani degli scontri tra civili e forze dell’ordine. Un copione che negli anni abbiamo visto ripetersi più volte. L’evento che spinse il regista a stendere la sceneggiatura della sua folgorante opera seconda fu l’indignazione per l’uccisione del diciassettenne immigrato zairese Makomé M’Bowole in una stazione di polizia avvenuta nell’aprile del 1993.
Melting pot in bianco e nero
Kassovitz apre con immagini di repertorio di rivolte urbane nelle periferie francesi per staccare sullo sguardo in macchina di uno dei protagonisti: Saïd (Saïd Taghmaoui), giovane maghrebino amico di Hubert (Hubert Koundé), afro-francese di seconda generazione, e dell’ebreo Vinz (Vincent Cassel). Un mix di culture, origini, etnie e personalità differenti perfettamente amalgamate e in equilibrio tra loro. Il regista li segue tra i palazzi, i parcheggi, i giardini pubblici, sui tetti, nelle piazzette, disegnando una geografia suburbana armonica e, sotto certi aspetti, accogliente.
L’elegiaco bianco e nero permette di azzerare la furia dei colori lasciando emergere tutta la democraticità delle sfumature. La storia dell’arte fino al XXI secolo, ricordiamolo, si è basata sulla fotografia in bianco e nero più che sullo studio di stampe a colori, poiché il bianco e nero, soprattutto in pittura, permetteva di focalizzare maggiormente la composizione di disegni e dipinti nonché di individuare con maggior precisione la distribuzione delle masse pittoriche. L’elegante bianco e nero di Kassovitz ci permette di analizzare in profondità le relazioni tra essere umano ed essere umano e tra essere umano e ambiente, dando preponderanza agli aspetti sociologici rispetto a quelli emotivi.
Periferia, città, luce, buio
La luce diurna inonda gli agglomerati urbani periferici all’interno dei quali si muovono i protagonisti, trascurati e isterizzati dall’assenza di un futuro reclamato a colpi di bombolette spray su muri e cartelloni pubblicitari. Kassovitz li segue per un giorno interno, entra nelle loro case, ci fa conoscere le loro famiglie, li accompagna nelle loro interazioni rabbiose con chiunque incontrino sul loro cammino. Vinz, il più incline alle provocazioni e all’ira, trova una pistola smarrita da un poliziotto il giorno prima e se ne impossessa nell’attesa di dare sfogo alla rabbia e alla vendetta per l’amico pestato a cui non gli è concesso neppure di fare visita.
Un mix di culture, origini, etnie e personalità differenti perfettamente amalgamate e in equilibrio tra loro. Il regista li segue tra i palazzi, i parcheggi, i giardini pubblici, sui tetti, nelle piazzette, disegnando una geografia suburbana armonica e, sotto certi aspetti, accogliente.
A metà pellicola l’azione si sposta sulla capitale, su Parigi, che si staglia alle spalle dei tre giovani fino a sfumare schiacciata indistintamente sullo sfondo: tutt’altro che “Ville Lumière”, è piuttosto il luogo del buio e di una notte dove Saïd, Hubert e Vinz vagano spaesati, respinti, costantemente minacciati, vessati da una Francia bianca classista e razzista che li ingloba come cavie da laboratorio a favore dell’esercizio istituzionalizzato della violenza.
Anatomia di una caduta
Nel ritratto di questo habitat urbano e suburbano dicotomico si innestano elementi della cultura popolare internazionale, come i riferimenti a Taxi Driver di Scorsese, a Il cacciatore di Cimino o, sul piano musicale, a una orgogliosa Édith Piaf mixata a ritmi rap che accompagna la macchina da presa a volo d’uccello sugli edifici residenziali delle sofferenti banlieue.
L’alba del rientro nella suburbia non rappresenta un ritorno a una zona di protezione bensì all’ennesimo incontro-scontro che sfocia nel colpo di pistola cruciale sul quale un Saïd nuovamente in primo piano e con sguardo in macchina, come in apertura, questa volta gli occhi li chiude. L’odio è la storia di individui, di istituzioni, di una società in caduta libera da un palazzo di cinquanta piani: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. Il problema non è la caduta, costante e lunga ormai trent’anni. Il problema è l’atterraggio. Ma la contemporaneità pare non essere atterrata. Pare essersi schiantata e sfracellata a suolo.