Viaggio in Italia: Crespi D’Adda, sogno lucido e oscuro dell’architettura operaia

Il villaggio realizzato da Cristoforo Crespi a fine Ottocento in provincia di Bergamo illumina una parabola unica, di produzione e di vita artificialmente composte. 

Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1085, in edicola a dicembre 2023.

Viaggiando in Italia alla ricerca dell’architettura intesa come sortilegio, capace di tenere insieme visioni e illusioni, Crespi D’Adda appare come una tappa obbligata, insieme lucente e oscura. Un villaggio operaio costruito davanti a una fabbrica di cotone dal nulla, alla fine del 1876. E qui verrebbe bene citare Karl Marx, che nello stesso anno scriveva: “Le reliquie dei mezzi di lavoro hanno, per il giudizio su formazioni sociali scomparse, la stessa importanza che ha la struttura delle reliquie ossee per conoscere l’organizzazione di generi umani estinti. Non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche”.

Una citazione quanto mai appropriata per il caso unico di Crespi d’Adda. Non che non ci fossero precedenti. All’estero bisogna ricordare le saline reali di Claude-Nicolas Ledoux ad Arc-et-Senans o la New Lanark Twist Company di Robert Owen nello Strathclyde. E da noi la Nuova Schio dell’imprenditore vicentino Alessandro Rossi, la Borgata Neumann alle porte di Torino dello svizzero Carlo Giovanni Napoleone Leumann e molto prima, alle porte di Caserta, la sorprendente Colonia Leucianorum di Francesco Collecini. Realizzata nel 1789 attorno a un opificio di colorazione della seta per diretta volontà di Ferdinando IV.

Ma Crespi D’Adda è diversa. Non solo perché fu scelto un terreno incolto da sempre, alla confluenza dell’Adda e del Brembo, un territorio difficile per tutte le stirpi celte, romane, longobarde, orobiche, viscontee che vi erano transitate senza fermarvisi. E nemmeno perché resta l’ingenua utopia dell’industrializzazione italiana, fatta di macchine rivoluzionarie, ma ancora più di persone e della loro disumana fatica, di presunzione fatale e disincanto feroce.

Il villaggio operaio di Crespi d’Adda resta una delle ultime affermazioni della millenaria idea maestra per cui nel costruire l’utile non si può prescindere dal bello.

Crespi d’Adda è diversa perché è un esempio perfetto di come l’architettura possa coincidere col tempo e lo spazio, illuminando una parabola unica, di produzione e di vita artificialmente composte, che si allontaneranno presto in una decadenza veloce e una fine ineluttabile.

Immaginato da un uomo tanto ricco quanto difficile, visionario e concreto assieme, Cristoforo, e conclusa da un figlio devoto e ipersensibile ma soprattutto attento ai costi, Silvio, il villaggio operaio di Crespi d’Adda resta una delle ultime affermazioni della millenaria idea maestra per cui nel costruire l’utile non si può prescindere dal bello. Un precetto a cui si ribellò il secondo Novecento, con gli esiti che subiamo ogni giorno nella nostra vita. 

Trionfo della geometria euclidea, che dà una misura antica e un’aura nobile e religiosa alla serialità industriale, Crespi d’Adda è una teoria di regolari casette che contemplano simbolicamente il corpo della fabbrica, il quale non è più un edificio, cioè il contenitore di una funzione, ma un sistema urbano che suddivide il villaggio in tre parti. La zona residenziale ad est, la zona di pubblica utilità al centro, dove si dispongono gli edifici di interesse pubblico, e la zona industriale a ovest. All’estremo sud, una lunga fila di cipressi termina con un cimitero che mostra in solennità lo stile eclettico della fine dell’Ottocento. All’estremo Nord si erge il finto castello medievale della proprietà.

Il masterplan di Crespi D’Adda appare semplicemente funzionale per le attività che la retorica della prima rivoluzione industriale immaginava per l’idea di città. Una parte destinata alle residenze di chi lavora in fabbrica. Un’altra per le funzioni pubbliche e gli edifici comuni – la chiesa, il dopolavoro, il teatro, le scuole, l’albergo, le poste, un piccolo ospedale, i bagni pubblici.  L’ultima per il lavoro e la proprietà, con la grande fabbrica e la villa padronale che proiettano il paternalismo su tutto il progetto.

Guardando meglio, però, le cose cambiano prospettiva. Gli edifici del lavorare e del vivere si combinano in una poetica della forma, una visione culturale che permea l’esistenza personale e, allo stesso tempo, stabilisce un equilibrio formale del nuovo paradigma della fabbrica totale. Crespi d’Adda è un viaggio iniziatico nella religione del lavoro, elemento propulsore che aprì le porte della società che viviamo oggi. Per questo non si può usare il lessico “popolare” per questi alloggi, perché la loro idea architettonica e politica era completamente diversa. Le case operaie, ideate per ospitare due famiglie furono subito allargate con una divisione verticale o orizzontale, visto che al tempo le famiglie erano numerose. Ognuna equidistante dall’altra, a base quadrata di dodici metri, producevano un ritmo che faceva armonia tra vuoto, pieno e verde.

Crespi d’Adda è un viaggio iniziatico nella religione del lavoro, elemento propulsore che aprì le porte della società che viviamo oggi. Per questo non si può usare il lessico “popolare” per questi alloggi, perché la loro idea architettonica e politica era completamente diversa.

All’interno, la divisione non comprendeva il bagno, le cui funzioni venivano svolte da una latrina nel giardino di ogni casa e da docce pubbliche al centro del villaggio. Però avevano tutte decorazioni in cotto, che le davano un che di lezioso, ed erano circondate da un giardino recintato che intrecciava le “reggette” dell’imballaggio del cotone grezzo che giungeva in fabbrica. Secondo una traduzione non italiana, nella parte antistante la casa veniva di solito curato un giardino con fiori, mentre dietro la casa lo spazio verde veniva dedicato esclusivamente all’orto. Un insieme di atavismi e modernità che non sopravvisse alla banalizzazione fascista degli anni Trenta, quando Crespi D’Adda divenne l’autarchica Tessilia

Camminando verso sud e superate le villette dei capireparto, abitate da tre nuclei familiari e con maggiori decori di quelle operaie, s’incontrano nove ville di tenore alquanto diverso. Monofamiliari e di grande metratura, disposte su più piani e con classiche espansioni Liberty come terrazze, ponti, gazebi, terrazzi, colonnati, giardini d’inverno.

Qui viveva il vertice della fabbrica, oggi diremmo il top management, circondato da giardini ricchi di alberi e fiori, che spezzano l’alternanza di decori celebrativi della secessione austriaca, ma anche statue, fregi, pinnacoli in ceppo dell’Adda e sassi di fiume. Perfetto pastiche delle commistioni stilistiche che rappresentano la prima metà del Novecento, accentuano la scomparsa dell’orto che ha permesso di aggiungere metri, fiori e alberi di alto fusto al giardino.

Alla fine degli anni Trenta, per soddisfare un’economia divenuta autarchica che aveva come obiettivo la guerra, la vendita all’estero del cotone si interruppe. Fu allora che la fisionomia di Crespi d’Adda fu trasformata in senso mussoliniano, secondo le linee di quel linguaggio architettonico che negava non solo lo stile eclettico del primo Novecento ma anche il neonato Razionalismo. Sparirono fregi e decorazioni, archi e trifore, per cedere il posto a linee ortogonali che si volevano sinonimo di funzionalità giustificata da “oggettive esigenze di bilancio”.

I contorni delle finestre in mattoni rossi, che spiccavano sulle bianche pareti in intonaco civile, vennero espunti come le decorazioni del sottotetto che, seppur modeste, davano un tono borghese alle abitazioni degli operai che, per traslazione, non erano stati mai proletari ma il primo livello della borghesia. Scomparve anche il marcapiano assieme al colore pastello delle abitazioni che al massimo poterono mantenere il bianco, rosso e verde del tricolore.

Crespi d’Adda finì così di essere un palcoscenico del lavoro, inteso come forza creatrice di trasformazione, prima che di ricchezza e dignità sociale. E finì anche l’architettura libera dall’orizzonte del rendimento che trovava nella “forma bella e varia” (Palladio) il proprio senso, perché la funzionalità dell’edificio riguarda soltanto chi quel fabbricato deve utilizzare mentre la bellezza riguarda tutti.

A guardarlo oggi liberato dalla riscrittura fascista, ogni dettaglio di Crespi d’Adda sembra la dimostrazione della rappresentatività che primeggia sulla funzionalità e la indirizza nella vita attiva, cui sono asservite le costruzioni che idealizzano l’esistenza operaia. Crespi D’Adda non era solo l’idea di creare nuovi spazi, moderni, igienici e educativi ma la prova che proporzioni, forme, decori e in una parola l’architettura può essere il manifesto della nuova società che si affaccia al nuovo secolo. Crespi d’Adda è la fine della separazione tra utile e bello, industriale e artistico, funzionale e contemplativo. Prima che la storia dimostri tutta l’evidenza di una realizzazione che stigmatizza la gerarchia sociale e lavorativa, cioè lo scarto tra l’immaginario e la realtà.

La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover

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