“Gli artisti non vanno in analisi”: ricordando Italo Rota (1953-2024)

Eclettico, collezionista, interprete, pensatore prima che progettista, Italo Rota – che ci lascia a 70 anni – ha attraversato il contemporaneo costruendo connessioni tra mondi diversi, oggetti e architetture, come vestiti e città: una filosofia che raccontava a Domus nel 2017. 

“Conosce, capisce, seleziona e ricompone”: questo era Italo Rota che parlava di Alessandro Michele al tempo della sua apoteosi Gucci, nel 2017. Ma è anche la sintesi della visione curatoriale, del vivere interpretativo che proprio di Rota è stata la cifra lungo un’esistenza fatta di progetti, ricerche, collezioni, provocazioni, che ha attraversato gli ultimi decenni e si è conclusa lo scorso 6 aprile. Di formazione milanese – consolidata nei tirocini con Albini e Gregotti, e nella collaborazione alla rivista Lotus International a fine anni ‘70 – Rota ha presto ampliato in tutte le direzioni possibili il suo campo d’azione, per tipologia come per geografia: col trasferimento a Parigi, dove si unisce a Gae Aulenti per il Musée d’Orsay, arrivano il teatro, la scenografia e il design. Col ritorno a Milano nel decennio successivo, la sua visione abbraccio il valore del design per la città: sono gli anni in cui firma il progetto per il Museo del Novecento, sempre a Milano, mentre condivide una diversa possibilità di leggere il mondo insegnando – dirige il corso di design alla Naba – collezionando, esponendo, lavorando sul temporaneo che poi si dimostra strutturale. È quel che aveva fatto anche per Domus, quando nel giugno 2017, sul numero 1014, aveva interpretato il ritorno del progetto Domusmoda, in una copertina che riabbracciava il panorama di Sottsass e Mendini, e che gli dava l’occasione per raccontarci il suo.

Questo articolo è stato pubblicato in origine sull'allegato Domusmoda del giugno 2017.

Domus 1014, giugno 2017

Architettura tessile

Pensatore, prima ancora che designer e architetto, Italo Rota condensa la sua visione dell’evoluzione dell’abito – e dell’uomo – in un tableau vivant ideato per questo Domus Moda. E sostiene come, oggi, la vera urbanistica sia fatta dagli abiti.

Carlo Antonelli: La storia della nostra copertina nasce dal fatto che gli uomini per partire e intraprendere i viaggi, per sopravvivere ed evolvere, debbono per forza vestirsi.
Italo Rota: E quindi da subito il problema è ricco e multiforme. Bisogna farsi pantaloni, giacche, sacche e soprattutto scarpe. Senza le scarpe non si va da nessuna parte. E questo è dimostrato dall’archeologia, dove possiamo trovare manufatti estremamente raffinati e complessi. 

Prendiamo Ötzi, questa mummia che ha vissuto sulle Alpi 5.300 anni fa e che si trova a Bolzano, al Museo Archeologico dell’Alto Adige. La sopravveste che indossa è a righe bianche e nere. Ötzi è completamente vestito con vari strati, ha pure dei contenitori per trasportare ogni cosa. Non si era mai trovato finora, diciamo, un guardaroba fatto e finito. La cosa straordinaria è che questi abiti sono sia sofisticati sia funzionali. Ötzi aveva anche attrezzi che oggi potremmo considerare complementi di abbigliamento, i cosiddetti accessori. Aveva una mini ascia in rame preziosissima... L’illustrazione che ho idea-to per la copertina di questo Domus Moda raffigura un po’ il destino che stiamo vivendo anche noi: cioè avere abiti concepiti per viaggiare, ma che in realtà poi usiamo per il nostro mondo sedentario, perché sono comodi. Da un punto di vista ideologico, essi sono lo strato minimo che sta tra il nostro corpo e la realizzazione della nostra personale utopia. Penso che l’alleggerimento dell’abito sia dovuto alla necessità di assottigliare questo momento particolare, cioè per guardare dentro una visione: ed è strano, perché anche nei film di science-fiction la gente da decenni è sempre meno vestita. Porta la tutina.

In generale, stiamo andando da 50 anni verso la seconda pelle.
Sì, perché arrivati lì noi siamo dentro le visioni, quelle progettate, ovviamente.

Cosa intendi per visioni progettate?
Il mondo che stiamo costruendo e in cui viviamo. Finalmente, dopo un periodo lunghissimo, ci possiamo concedere di nuovo il lusso di sognare ed esplorare. Questo non vuol dire che ogni tanto non ci piaccia vedere degli umani vestiti da Gucci. Il tema dell’osservazione reciproca di gruppi diversi c’è sempre stato, ma oggi tra le tribù metropolitane produce esiti particolarmente spettacolari: il massimo che puoi vedere è una donna vestita sportiva insieme a un tipo vestito Gucci. Anche come incastro estetico, diciamo.

Non so se Alessandro Michele – il direttore creativo di Gucci, appunto – sia un genio, ma di sicuro è una super intelligenza, e come tutti gli iperintelligenti conosce, capisce, seleziona e ricompone. E questo tipo di lavoro oggi è un’operazione fondamentale, molto più pertinente di quella di un creativo geniale che si sveglia alla mattina e fa uno schizzo. Da Gucci sembra che tutte le persone e le risorse interne lavorino insieme per raggiungere un obiettivo comune. Chi ha dei pensieri molto organizzati può mettere insieme tutto un ciclo produttivo stando seduto a un tavolo, e quindi arrivare immediatamente a risultati strabilianti. Questo, almeno, visto da fuori. Quando li vedo, gli abiti di Gucci mi suggeriscono l’esistenza di tutta questa filiera, che lavora insieme in maniera efficace ed economica.

E l’altra tutina della copertina cos’è?
L’ha disegnata Yamamoto (con la linea che fa per Adidas) per la Virgin Galactic.

Per i piloti o per i viaggiatori?
Per andare nello spazio.

A fare i giretti...
Sì, però penso che andare nello spazio rimanga ancora oggi il vero stimolo, che poi è lo stimolo di sempre degli umani, visto che hanno fin dagli albori studiato le stelle, prima ancora del nostro pianeta. È un desiderio di andare via, o forse sì. Questo qui è un tipico esempio della necessità di mettere il minimo necessario tra la visione e la pelle.

Certo. E i costumi impellicciati dell’artista americano Nick Cave?
Nick Cave rappresenta proprio l’estensione del vestito come estensione della mente. Che però c’è anche nel Gucci di Michele. Quegli abiti lì non li abbiamo sognati, né immaginati, ma li avevamo già visti, cioè erano possibili. Erano protesi che soddisfacevano la nostra psiche, non gli occhi: una proiezione del nostro mondo interiore, più che un prodotto della cultura.

Domus 1014, giugno 2017

Perché ti interessa tanto il camminare?
Beh, camminare per me è tutto perché mi aiuta a pensare, nel senso che il camminare è proprio quello: pensare… io ho fatto solo due case nella mia vita proprio perché cammino, non riesco a star chiuso in una casa. Una volta un signore si scusò con Einstein perché avevano un appuntamento su un ponte per la consegna di un manoscritto e aveva 20 minuti di ritardo ma l’altro (Einstein) gli rispose “Sì, ma guardi che non ho perso tempo perché avevo delle cose a cui pensare”.

Camminare in città è come esaminare un grande interno dove le strade sono corridoi. Questa esperienza da interni cambia il modo in cui guardiamo ad architettura e urbanistica.

Italo Rota

Nel mio caso, compio flâneries che possono svolgersi – classicamente – solo e unicamente in città. In generale, la flânerie non prevede di arrivare al limite, per esempio tra città e campagna. In città la tua flânerie è totalmente inclusa dentro questo grande interno che è la metropoli, la quale ormai è praticamente senza limiti. Arrivare al limite della metropoli è un progetto concreto e il flâneur non ha un obiettivo preciso. Questo essere in un grande interno oggi fa cambiare tutti i discorsi sull’architettura, sull’urbanistica, e infatti il grande progetto teorico che puoi porti oggi è: “Come faccio a perdermi?”. È un progetto complesso. Sappiamo sempre dove ci troviamo, grazie al Gps. Se ci si vuole perdere, bisogna farlo in modo deliberato.

 Camminare in città è come esaminare un grande interno dove le strade sono corridoi. Questa esperienza da interni cambia il modo in cui guardiamo ad architettura e urbanistica. Gli edifici non sono più architettura, ma grandi oggetti in un supermercato. Camminare per una città è come curiosare nell’area dedicata alle sedie di un negozio. Quando arrivi in una zona archeologica (con edifici senza il tetto) ti trovi in un interno in forma di esterno. Cioè ti imbatti in tante categorie di interni/esterni – l’interno di un interno, l’esterno di un interno e l’interno di un esterno –che poi prendono vita quando gli umani le invadono, così che la città è fatta di corpi coperti da tessuto. In questi luoghi, puoi osservare che la vera urbanistica la fanno gli abiti, l’urbanistica tessile. Gli abiti diventano visibili quando le masse diventano moltitudini – non basta ci sia una folla di persone. Questa è la differenza tra la Quinta Strada di New York e qualunque strada di Mumbai o di Shangai. Non vedi le stesse cose.

E qui torniamo a questo ritorno dell’ornamento, al “decorare se stessi” che trionfa nella moda degli ultimi anni.
Immagina la forma di una clessidra: la parte stretta è come la cruna di un ago. Possono uscire solo poche cose per poi esplodere nello spazio e nel tempo, come è successo negli anni Sessanta. Pensa alla famosa scena del film Roma di Fellini, quando c’è una sfilata di preti e suore con abiti bizzarri. Cioè: c’è il passaggio dall’idea di lusso della religione alla religione individuale. Nel senso che, alla fine, siamo tutti vescovi e papi quando facciamo questo. Gli unici esempi di uomini con piume, gioielli e mitre sono stati i vescovi, ma questo in ogni religione del pianeta, incluso Taoismo e Induismo. Basta pensare ai preti etiopi di Addis Abeba. E questo l’abbiamo trasferito nel nostro quotidiano. Cioè, la religione si è democratizzata attraverso il lusso vestimentale, come invece il design si è democratizzato con la plastica. Penso che quell’immagine felliniana sia proprio un momento fondamentale. Direi che potrei tenerla lì per descrivere cosa è successo dopo. Anche perché questi abiti che Fellini disegna all’epoca sono al di là del bene e del male. Mettiamo anche Salomè di Carmelo Bene, con tutte quelle tuniche fosforescenti... è proprio la degenerazione dell’abito rituale della religione. Ma metti anche Ferragamo con tutte queste scarpe degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta: sono le scarpe che vedevi indossate dai papi… Nel senso che poi la religione ha voluto essere minimalista per diventare poi democratica. L’architettura ecclesiastica è diventata astratta, con solo una croce appesa al muro. Le boutique minimaliste hanno fatto lo stesso mettendo le T-shirt in mostra. Anche il corpo di Cristo è scomparso dalla croce.

Il sacramentale, l’onirico, lo psichico...
Ci sono poi altri fenomeni che raccontano queste cose. Per esempio quando Louis Vuitton… non so le ragioni per cui l’ha fatto... è andato da Yayoi Kusama... e le ha fatto disegnare prodotti e interni sotto la direzione di Marc Jacobs. Questo rappresenta il problema di come la mente stia uscendo da dietro gli occhi, la mente vince sul corpo. Tutto il lavoro della Kusama è di quel tipo lì. Sta di fatto che i più bei negozi di moda che abbia mai visto negli ultimi 20 anni li ha fatti lei.

Questa anziana signora che lavora rinchiusa in un ospedale psichiatrico, non dimentichiamolo…
Se guardi un’immagine del negozio di New York fatto da lei e rimani strabiliato… perché non è un sogno, è un disagio viscerale e tu hai voglia di scoprire cosa c’è dietro, perché nel disagio oggi ci sono grandi valori… Quando lo si riconosce, è una grande gioia. Nel senso che ci convivi, non devi più risolverlo, non so come dire: se hai voglia lo risolvi, se no lo identifichi. Se hai un problema con il padre, con la madre o con il vuoto, che cacchio ne so, ne fai qualcosa, anzi alle volte lo conservi per trarne un profilo creativo. Gli artisti in genere non vanno in analisi. Più in generale, oggi, per fare scoperte e progetti straordinari non devi andare dallo psicoterapeuta. C’è un’ammissione che esiste questa dimensione psichica, non solo individuale, ma che spesso genera anche una psiche collettiva che degenera.

 È successa una cosa interessante negli Stati Uniti: accumulare ed esibire sfacciatamente ricchezza non sono più nella lista dei disagi psichici, ed infatti sono stati tolti dal manuale Dsm. C’è l’esibizione pubblica e c’è quella interiorizzata nel mondo delle fashion victim, che accumulano sempre contro qualcuno. Questo è un fenomeno molto interessante: l’abito è usato per espellere qualcuno dal tuo spazio e questo avviene attraverso l’accumulo, ma soprattutto sul display dell’accumulo, che è di tipo museale. Cioè si usano tutte le tecniche museali: dalla vetrina, al magazzino, al capolavoro… e quello lì costituisce tutto un mondo.

Immagine di apertura: Foto Comune di Reggio Nell'Emilia da Flickr

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