Le case nel cinema: Dino Risi per Domus

Oggi gli Oscar premiano storie di case – tra Povere Creature! e La zona di interesse – e già ottant’anni fa, in un’Italia che si riapriva al mondo, un futuro maestro del cinema italiano raccontava a Domus che “la casa nel cinema sta a i personaggi come quella nella vita sta all’uomo”.

Le architetture fanno da coro alla crescita di Bella Baxter in Povere Creature! di Lanthimos – ma tutto il suo cinema è costellato di edifici-personaggio, dall’albergo per single di The Lobster alla villa senza tempo di Dogtooth – o da agghiacciante sostituto retorico per l’orrore dei lager nazisti come la candida casa de La zona d’interesse; altre architetture, stavolta celebri come la Tomba Brion di Carlo Scarpa, vengono trasfigurate in luogo simbolo di un rapporto familiare nel secondo episodio di Dune.
Sempre meno scenografia, sempre più entità vicine ai personaggi, comprimarie se non protagoniste, le case hanno preso ruoli cruciali nel cinema moderno, a mano a mano che il modo di raccontare si staccava dagli stilemi classici. Nel febbraio del 1946, mentre l’Italia si riapriva ad una dimensione internazionale dopo la seconda guerra mondiale, un giovane critico cinematografico destinato a diventare un maestro della commedia italiana, Dino Risi, esplorava per la Domus di Ernesto Nathan Rogers – sul numero 206 – proprio questo mondo di case-personaggio, tra le stanze da letto di René Clair, le capanne di Charlie Chaplin-Charlot e gli ambienti di Hitchcock.

Domus 206, febbraio 1946

La casa nel film

Nell'affidare a Dino Risi il tema di questo articolo eravamo sicuri che la sua sensibilità lo avrebbe svolto in modo da esserci di grande aiuto. Il nostro scopo era infatti di fare intendere questo ragionamento: la casa del cinema sta ai personaggi come quella della vita sta all'uomo. Ma quanti invece vivono come se fossero figure letterarie, (mentre tanti registi non hanno ancora capito quanto sia lontano il loro mondo dal nostro).

Non farò un discorso tecnico. Dirò piuttosto dei rapporti sottili, d’ordine qualche volta psicologico, che la casa contrae col film. Dirò di quello che è stata ed è per me la casa nel film. Dirò se mi è riuscito qualche volta di abitare un film.

Ho visitato sullo schermo migliaia e migliaia di case. Ho visitato la casa Usher, il palazzo di Monsieur Beaucaire, i salotti di Alberto Collo, la capanna di Charlot, la camera ammobiliata del mostro di Düsseldorf, la soffitta del professor Unrath, l’appartamento di Cupo tramonto, la casa di tolleranza di Maria, leggenda ungherese, la pensione di Mattia Pascal, la stanza da bagno della contessa Maritza, lo studio di pittori del Milione, il castello del cittadino Kane, la casa dei pescatori di Aran. Con quelle, migliaia e migliaia di case. Devo dire che raramente mi è parso di vivere in quelle case. A teatro la casa è il più delle volte elemento accessorio. È la prima a mostrarsi, e poi scompare. La parola le costruisce davanti. Al cinema la casa è elemento necessario sempre, anche se non pare. Se esiste, ha pochi attimi di silenzio: quando i personaggi si avvicinano all’obbiettivo, ingrandendosi. La casa allora si allontana, si perde nel flouMa subito dopo gli oggetti riprendono a funzionarerientrano nell’immagine da tutte le parti, rivendicano la loro necessità.

È chiaro il carattere di questa necessità, in un’arte che si raccomanda prima di tutto agli occhi: gli oggetti vi acquistano una funzione continua di contrappunto e possono qualche volta persino assumere un valore di personaggio. Intorno all’attore, nel film, le cose vivono la loro continua presenza. Spesso indifferenti, o si direbbe tali, si aggiustano invece in modo di rubare allo spettatore certi moduli dell’attenzione indiretta, che poi, sommandosi, portano nel giudizio un non calcolabile peso. L’attenzione diretta è sull’uomo, e sulle parole che ne sono la mutevole giustificazione. La funzione degli oggetti non è soltanto descrittiva, ma espressiva. Così come un oggetto sbagliato può disturbare o interrompere una particolare suggestione nata dal film, allo stesso modo un oggetto felice può dar voce al film. Di qui l’importanza che hanno, nel film, l’arredamento in particolare e la scenografia in generale.

Domus 206, febbraio 1946

Tocca allo scenografo-arredatore di ridurre gli oggetti piccoli e grandi, una sedia o una casa, a questa funzione espressiva. Al regista di comporli nell’inquadratura, o di escluderli, in modo che la loro presenza, se necessaria, sia, oltre che avvertita, efficiente. L’operatore, toccando di luce e di ombra gli oggetti, dando vita alla insensibile prepotenza delle cose, collaborerà col regista a creare quel solo modo possibile in cui si precisa l’intenzione poetica dell’autore. Avverto che si parla qui di film d’arte, cioè dell’opera che si propone di raggiungere un valore poetico. È proprio qui che il coro silenzioso delle cose è più difficile da dirigere. Negli altri film la casa ha soltanto un valore funzionale e decorativo. Il film è opera di collaborazione. Orchestrare le parti è la difficile arte della regia. Un film riuscito è un film orchestrato, un film in cui tutte le parti si dispongono armonicamente su una prospettiva nella quale la necessità le avvicenda. In questo modo gli oggetti metteranno la loro voce accanto a quella più rivelata e precisa che hanno le parole. Ma questo concerto non si produce che raramente. In generale il film, obbedendo alle formule sperimentate, è opera di collaborazione differente (che differisce). Gli oggetti agiscono il più delle volte contro il film. Questo non è da deplorare nei casi, troppo frequenti, in cui la scenografia è testimonio muto di orrori e di attentati commessi contro l’arte.

Si vede la casa nel film? Si vede, ma troppo spesso con quell’aria di cosa necessaria, messa lì perchè non se ne può fare a meno. La casa che si vede è la casa che partecipa al film, che fa controscena, che è qualche volta personaggio e protagonista. La casa nel film ha il più delle volte una funzione decorativa, di fondo, qualche volta una funzione che si potrebbe dire di spalla, raramente una funzione di personaggio. Questa condizione ha molte ragioni, oltre a quella ovvia per cui una casa non potrà mai essere altro che una casa. Anzitutto una ragione che direi tecnica, di necessità. La casa è la scena immobile nella quale gli attori svolgono la loro drammatica finzione. Non può che commentare debolmente l’azione, nel migliore dei casi accordarsi con l’azione. È il caso più frequente. L’immobilità della casa, che condiziona quella funzione minore, può in casi fortunati, per una ragione di contrasto, assumere un significato preciso, come se la presenza immobile degli oggetti accusasse l’inutile corsa dei fatti. Ma esiste una ragione più precisa, tutta cinematografica, che impedisce molto spesso all’obbiettivo di mettere a fuoco la casa. L’occhio della macchina da presa ha il potere, fissandole, quasi di lievitare le immagini. L’obbiettivo amplifica, esagera, deforma. Può agire su una faccia. La faccia non ha un modo solo, il modo che hanno gli oggetti, di rispondere a quello sguardo. La sua è una risposta attiva. La faccia risponde con le sue armi, con la necessità di cui è provvista, non si fa guardare ma guarda piuttosto. La risposta degli oggetti, se gettiamo su di loro l’occhio fotografico, è unica ma imprevedibile. Come se l’ultimo valletto domandasse la parola in un consiglio di Reggenza. Dare la parola agli oggetti richiede nell’autore una responsabilità intenzionale enorme. Si pensi alla casa del Vampiro di Dreyer, a certe nature morte di oggetti di Lang.

Quanti sono i registi che han fatto parlare la casa? Quanti sono coloro che han sentito la drammatica presenza degli oggetti? Pensiamo un momento alla nostra casa, come ci è stata e ci è vicina, pensiamo a certe rivelazioni della casa: all’attesa che c’è in una porta, alla libertà che c’è in una finestra, agli infiniti suggerimenti di certi oggetti, ai ricordi, al vivo cuore di un orologio, alla minaccia impassibile di un ritratto, alla sorpresa di una tenda che si muove, all’infinito delle stanze vuote, alle innumerevoli presenze e assenze di cui vive una casa. Molti si son fatti schiavi della casa bella. Pochi han sentito e raccontato la casa che soffre, la casa che ama. I colpi di scure contro gli alberi del giardino dei ciliegi, riempiono di angoscia la casa di Cekof. È il dolore delle case di tutto il mondo abbandonate o distrutte.

Domus 206, febbraio 1946

C’è un genere di film nel quale la casa si rivela con intenzioni precise, nel quale la casa si manifesta. È il film giallo. La minaccia, la paura abitano la casa. Porte, corridoi, stanze buie, maniglie, oggetti comuni trasformati dall’ombra, recitano coscienziosamente la loro parte, si prodigano a fabbricare il brivido. Ma è raro che s’avventurino a tentare una paura metafisica, il più delle volte non toccano che i consumati luoghi comuni dell’orrore, secondo le vecchie ricette. E lo spettatore, più che la paura, prova la memoria della paura. Pochi audaci sperimentatori sono usciti dalla formula, con ossessionante rigore si sono immersi in quel clima, l’hanno teso agli estremi (Pabst, Dreyer, Lang, Hitchcock, ecc.).

Nel film realista, tipico il film naturalista francese, la casa è una cassa di risonanza, fondo vivo di passioni e di violenze. Qui la casa ha una funzione interpretativa, è la traduzione visiva della condizione dei personaggi. Un letto, una sedia, una tappezzeria, bastano a suscitare l’irrimediabile, ci avvertono che non c’è scampo. Zola, Dabit, Simenon attraverso Mac Orlan e Prévert, han fornito il testo al film cosidetto d’atmosfera. (Renoir, Carné, e anche in un certo senso Clair sono in Francia gli esempi illustri). Nel film intimista e psicologico, la casa risponde in un modo più discreto, e gli oggetti suggeriscono spesso. Il disperato e inutile trillo della sveglia in Alba tragica diventa il lamento della sedia a dondolo di Cupo tramonto.

Nel film espressionista, apparso in Germania nell’altro immediato dopo guerra, la casa ha assunto una violenza interpretativa necessaria per mediare le passioni degli uomini. Si è così snaturata, ha perduto la propria anima per assumere quella dell’uomo. Con risultati discussi, ma utili a un arricchimento del linguaggio e della sintassi cinematografica. Nel film così detto d’intreccio, la casa si può dire che non esiste. Non c’è tempo per la casa. I personaggi procedono con inutile fretta, le cose non hanno nessuna vita possibile, se non quella di oggetti-chiave, pretesti utili ad articolare l’azione.

Nel film in costume la casa ha una funzione solenne, che la preoccupa, e si avverte. Il costume stabilisce quasi una fisica comunione tra le persone e le cose, si può dire che i personaggi sono dei mobili che camminano. Nel film d’avventura, e nel film comico, la funzione della casa è soltanto utilitaria (si farà la solita eccezione per Chariot). Nel film rivista è soltanto decorativa, e spesso decorativa in quel modo eccessivo che gli Americani hanno diffuso. Appartiene a questo genere eccessivo la casa dei ricchi (Incantesimo) che è diventata la casa-tipo della felicità borghese, ed è stata offerta con poche varianti, in innumerevoli copie, in visione ai poveri di tutto il mondo.

Domus 206, febbraio 1946

Una parola bisogna spendere sulla più inverosimile e inabitabile casa dello schermo. Quella del film erotico-passionale che fu di moda nell’epoca d’oro del muto. Hanno una patetica innocenza quelle passioni devastatrici, una benefica tristezza quelle morti d’amore tra pesanti broccati, tappeti, divani e cuscini, vasi giapponesi, foglie di felci e vetri colorati. La casa visse in quei film la illimitata frenesia dell’assurdo, la felicità del cattivo gusto. Mai la casa nel film s’è fatta tanto vedere (neppure nei film di Sternberg, dove gli oggetti hanno spesso goduto di una vita arbitraria e illimitata, ma piena di calore).

Questa è la casa, così com’io l’ho vista, come ho cercato di raccontarla, con poche parole. Non ho nominato Warm, Meerson, Trauner, Gibbons, Toluboff, e tanti altri. Non volevo, con questa materia, commettere un abuso di confidenza.

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