Chi è Romain Gavras, il regista dell’architettura che genera rabbia

Per arrivare a muovere le masse all’interno di una Parigi fasulla che mescola la zona centrale, la torre Eiffel e la peggior edilizia di massa cinese (Sky City), lavorando a metà tra l’assalto ai simboli archetipici, le ragazze del nuoto sincronizzato dei musical con Esther Williams e le geometrie umane dei videoclip di elettronica di Michel Gondry, ci vogliono anni di lavoro e cesello su un immaginario preciso. Per avere uno sguardo chiaro come quello che Romain Gavras sfoggia nel video musicale di Gosh di Jamie XX, bisogna padroneggiare perfettamente quell’universo visivo, quei riferimenti e saper filmare gli spazi aperti al pari di quelli chiusi. Che poi sono esattamente le doti, guarda caso, che servono per realizzare un’epica shakespeariana della metropoli moderna, un Signore Degli Anelli che contrappone periferia arrabbiata con bandana sulla bocca e tute, a poliziotti in assetto antisommossa, ovvero il prossimo film di Romain Gavras: Athena, che sarà su Netflix dal 23 Settembre. L’apoteosi della sua carriera, pura rabbia messa su film.

Athena, Romain Gavras, 2022

Un conflitto su scala mai vista, girato come fosse un video musicale, tutto piani sequenza e uso creativo dei droni all’interno di un quartiere periferico (per l’appunto Athena, a Parigi). Perché se c’è una cosa che Gavras ha affermato tramite le immagini per tutta la sua carriera è che l’aggressività e brutalità architettonica di quei luoghi lì, quei palazzi e quelle aree, imposta dalla società a chi ha meno, ha finito per trasferirsi addosso alle persone che li abitano. Tramite l’edilizia è stata creata una giovane generazione arrabbiata che adesso si stringe attorno a quei palazzi e trae da loro la propria forza ribelle.

Quindi se c’è un oggetto che più di tutti rappresenta lo stile di Romain Gavras è la molotov. Un feticcio che ricorreva nei suoi video musicali e poi è entrato di diritto nei film. Il simbolo perfetto di un artista che ha fondato un’estetica contemporanea intorno alla rabbia dei marginali, le periferie, l’edilizia popolare e uno stile d’abbigliamento che non imita mai la moda ufficiale ma è composto da elementi aggressivi, tute, catene, giubbotti bomber e bandane. Kombat Banlieue contemporaneo che anima gli spazi urbani in modi al tempo stesso familiari e nuovi. Gavras non fonda una mitologia nuova intorno alla periferia, ma eleva quella che già esiste, la realtà dello streetwear, delle movenze e degli atteggiamenti da strada, fondendolo con i palazzi, le aree verdi tenute male, i graffiti sui muri, le aree vuote senza un perché e le baracche. Tutto contribuisce a creare la rabbia.

Gosh, Jamie XX, 2015

Nel suo primo video musicale c’era già tutto, I Believe dei Simian Mobile Disco, in cui un gruppo di ragazzi con volti, corpi e abbigliamento da periferia fa sfoggio di sé, del proprio swag e dei luoghi che abita come fossero proprietari di chissà quali ambienti raffinati e desiderabili. Quel mondo è loro, li rappresenta e loro lo rappresentano. Sarà però qualche anno dopo con Stress dei Justice che si affaccia con chiarezza la capacità di Gavras di incastrare i personaggi in un paesaggio. In quel video musicale fatto di gang, case popolari, giubbotti tutti uguali con logo sulla schiena, cattiveria, vandalismo, botte, palazzoni e ragazzetti arroganti, fa fare un salto in avanti a L’odio di Kassovitz, perché chi viene dalla banlieue non ha più bisogno di sembrare vittima ma contrattacca senza un vero perché. E già lì, 14 anni fa, c’è un’inquadratura che ritorna in Athena, pazzesca, delle auto in corsa viste dal lato, con un drone ad alta velocità.

Gosh, Jamie XX, 2015

I corpi, la rabbia e l’ingenuità dei ragazzi tra i 13 e i 18 anni sono la vera passione di Gavras. Nel suo immaginario sono sempre persone già formate (spesso vestiti tutti alla stessa maniera, come con una divisa), dotate di desideri e volontà di ferro, un’organizzazione quasi militare e nessun limite in quel che sono disposti a fare. Forse perché anche lui non era diverso. Ce ne vuole infatti per fondare a 13 anni un collettivo, Kourtrajmé (verlan francese gergale per courtmetrage), con un paio di amici e mantenerlo così attivo fino ai 40 anni. Ancora Athena infatti è realizzato con altri membri di Kourtrajmé (Lady Lj alla sceneggiatura) e I miserabili, film di due anni fa tutto banlieue e resistenza, era un altro esempio del collettivo (diretto da Lady Lj, prodotto da Gavras).

Con una conoscenza simile i ragazzi li puoi anche far esplodere, come nel controverso video musicale Born Free di M.I.A., in cui alle angherie della polizia in tenuta antisommossa nei confronti di persone inermi sono i ragazzini a rispondere, scatenando una guerra nel deserto sanguinosa e senza sconti per chi guarda, pensata e girata per disturbare con le sue parti umane che esplodono a favore di obiettivo. Manca la città, quindi manca un pezzo, e si sente. Born Free ha grande cattiveria politica ma pochissimo stile.

Bad Girls, M.I.A., 2012

Sarà lo stesso in un altro video per M.I.A., quello di Bad Girls, girato anch’esso lontano dalle metropoli, che gioca con il mondo arabo con ironia, posizionando auto impolverate degli anni ‘90 nel deserto su strisce di asfalto, e donne che si atteggiano come fanno di solito gli uomini, possiedono gli oggetti tipici del potere fallico ed esibiscono un’ironica posa di dominio su auto che si muovono su due ruote. Puro showcase di abilità da quartierino, sgommate ed esibizione. Gente che il mondo se lo vuole prendere. Ma che montaggio e che inquadrature, di nuovo, di drone! Così cruciale è per i suoi riferimenti visivi il mondo dei ragazzini arrabbiati delle periferie che Gavras riesce ad infilarli anche nei suoi spot pubblicitari, come in quello per la campagna Adidas Is All In, in cui alle grandi figure dello sport affianca l’ardore dei suoi ragazzi, o quello di Powerade in cui la grinta di un pugile ci viene mostrata tutta radicata in un’infanzia di periferia e botte.

No Church In The Wild, Kanye West, Jay-Z, 2012

Madre produttrice cinematografica e padre idolo del cinema arrabbiato anni ‘70 e ‘80 (Costa Gavras, pseudonimo di Kostantinos Gavras), Romain Gavras è cresciuto in una famiglia con tutti i riferimenti giusti, in cui la lotta era argomento di discussione a tavola. Tradurla in una chiave estetica chiara e completa è stata quindi una conquista arrivata per davvero con No Church In The Wild. È il 2012 e quel video del brano di Jay-Z e Kanye West con Frank Ocean è la prova generale per Athena. Uno scontro tra polizia e ragazzi arrabbiati lungo quasi 5 minuti, montato scegliendo le parti essenziali e ambientato non più nei deserti ma finalmente per le strade. Architettura da centro Parigi, strade pulite da infangare con i lacrimogeni, auto costose da ribaltare, vetrine di negozi di livello distrutte mentre dietro passa la polizia a cavallo che carica come in una lotta medievale. Dopo l’esperimento di Stress nasce qui davvero il Kombat Banlieue, quell’idea per la quale il movimento della protesta e della lotta, le scelte dell’abbigliamento dei ribelli sia tutto stile, sia l’estetica cruciale dei nostri anni e che lo stile sia una forma di potere. I suoi ribelli non sono dei disperati perché non lo sembrano e quell’abbigliamento da poco diventa una divisa.

Stress, Justice, 2007

Intanto Our Day Will Come era già uscito, debutto nel lungometraggio, storia folle di ribellioni assurde. Un ragazzo e un adulto rossi di capelli sì ribellano ad un mondo che li emargina per questo. Non ha nessun senso (e non è indimenticabile) ma non a caso si accende quando la follia combattiva si impadronisce delle immagini e qualcuno dà fuoco ad un’auto. Non andrà molto meglio The World Is Yours, secondo film, un po’ più compiuto, una commedia con gangster che però non fa davvero ridere né è davvero cinema criminale Lì però, di nuovo, c’è un’inquadratura di quelle che in pochi possono vantare, la prima, in cui un gruppo di uomini è immobile in uno scenario di periferia, fermi in tensione con un martellone pronti a sfondare qualcosa e in attesa del passaggio di un treno della metropolitana sopraelevata per farlo senza essere sentiti. Streetwear, desolazione, volti maghrebini, cattiveria e un’impennata di suono per l’arrivo del vagone che corrisponde esattamente con l’innesco dell’azione furiosa: un assalto per liberare un cane (!).

Our Day Will Come, Romain Gavras, 2010

Questo è il percorso che porta a Gosh, prima di Athena, la sua opera più compiuta, un musical elettronico dentro la più finta delle città e al tempo stesso la più popolare e aggressiva delle periferie del mondo. Masse con abiti uguali ma anche volti truccati uguali e una maniera pazzesca di incastrare le persone nelle architetture. Ci sono almeno un paio di sequenze perfette (che non a caso prevedono un drone), quella dal volto del protagonista del video, all’indietro fino a renderlo un puntino bianco in una selva di finestre da palazzone, e poi l’altra, quella che da sola definisce un’intera carriera, in cui un gruppo di persone si muove disegnando un una spirale alla perfezione e il movimento di drone ci mostra che sono dentro la torre Eiffel (o meglio la sua replica). Le persone che assaltano i luoghi cardine delle città e li fanno loro attraverso il movimento, occupandoli con la grazia del ballo coordinato e lo stile dell’abbigliamento ma un fare che risulta sempre aggressivo.

In Gosh il Kombat Banlieue non ha molotov e scontri ma la coreografia come arma di appropriazione degli spazi, in Athena invece i palazzi diventano torri, i ponti diventano mura di una città medievale, i vari livelli delle zone verdi sono caverne e vie di fuga. In una regressione brutale la periferia diventa uno spazio pre-civiltà, roccaforte per difendersi e contrattaccare. Quando al termine del primo furioso piano sequenza di 10 minuti, nel quale i ribelli assaltano una caserma della polizia, rubano le armi e tornano al quartiere per asseragliarsi, il drone li riprende con un movimento all’indietro che allarga la prospettiva e li incastra come signori feudatari a guardia del loro impero (e compare il titolo ATHENA), lì è evidente come Romain Gavras abbia capito, e sappia mostrare senza parole, l’essenza più pura dell’audiovisivo: comprimere un concetto politico in una allegoria visiva fondata sullo stile.

Gosh, Jamie XX, 2015

Hayy Jameel, l’edificio della nuova primavera di Jeddah

È l’ora del tramonto a Jeddah, da secoli cancello d’accesso alla Mecca dal Mar Rosso. Nell’area settentrionale della città, non distante dal sontuoso nuovo terminal dell’aeroporto inaugurato nel 2019, accanto a un lotto di terra per ora abbandonato – un rettangolo di deserto dove si affollano i piccioni e da cui si scorge il consolato americano – sorge un nuovo edificio: un algido parallelepipedo che segna un elemento di discontinuità in questo quartiere soprattutto residenziale. È Hayy Jameel, il nuovo hub per le arti della città.

La facciata bianco perla a quest’ora cambia colore. I riflessi oro e blu, come sottolinea l’architetto libanese Wael Al Awar, che questo edificio l’ha progettato, sono unici, “una cosa del genere a Singapore o nel Regno Unito non potrebbe succedere”. È la luce di Jeddah, “una luce speciale, che non si trova altrove”, quella di un sole caldissimo, che di giorno sbianca ogni cosa. Calando sul Mar Rosso rilascia sfumature soffuse, preziose.

Questo essere in perpetua mutazione è profondamente simbolico. Corrisponde all’essenza di una architettura pensata per cambiare nel tempo, rimodulandosi negli spazi a seconda delle esigenze. Fino all’estrema possibilità che le parti in acciaio — tutti pezzi standard — vengano smantellate e riutilizzate. “Questa architettura non è statica”, sintetizza Al Awar, fondatore dello studio waiwai e curatore del padiglione degli Emirati Arabi all’ultima Biennale di Venezia, premiato con il Leone d’Oro.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Che cos’è Hayy Jameel

Jameel è la famiglia di filantropi originaria proprio di Jeddah che ha finanziato l’edificio, fratello minore – per età, non per ambizione – dell’Art Jameel di Dubai. Hayy in arabo significa quartiere. È il nome scelto per uno spazio che vuole essere “accessibile, comune e collaborativo”, come si legge sul sito ufficiale.

Tuttavia, Hayy Jameel non si apre esplicitamente alla strada e al vicinato. “Questa è una zona residenziale, non potevamo fare altrimenti”, dice Al Awar, spiegando che l’edificio, già più alto delle case circostanti, è stato progettato in modo da non invadere la privacy altrui. Non si offre allo sguardo e al tempo stesso non dà la possibilità di guardare. È uno scrigno ricco di sorprese, ma opaco, disegnato per essere scoperto dall’interno.

L’unica ideale trasparenza con ciò che Hayy Jameel contiene è la facciata, una superficie lunga 25 metri che ogni anno ospiterà l’opera di un artista diverso, un programma in collaborazione con Lexus. Apre le danze, dalla capitale Ryhad, Nasser Almulhim, con un disegno ispirato a una favola locale che racconta di uccelli e carestia.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Hayy Jameel: oasi, arena, spazio pubblico

Ai due lati della facciata si trovano le scalinate che portano al cortile interno, Sana. Se Hayy Jameel è un quartiere, per Al Awar questo spazio ne rappresenta la piazza. Anzi, l’agorà. La sfida, spiega, è stata riportarne le dimensioni a una scala umana laddove la progettazione nei paesi Golfo è tutta a dimensione di automobile — il suo riferimento sono stati i cortili di Damasco, dove l’architetto è nato, o quelli del Marocco. “Ma anche a Jeddah abbiamo un esempio di questa scala, nella città vecchia”. Fa riferimento ad Al-Balad, nucleo storico di questa metropoli da 5 milioni di abitanti che risale al settimo secolo. Una ragnatela di vicoli e stradine che serpeggiano tra palazzi e moschee e bazaar, dove da sempre cittadini e pellegrini si muovono a piedi o sul dorso di un cammello.

Nel cortile di Hayy Jameel intanto crescono le piante. Zamie, alberi del viaggiatore e palme a coda di volpe, trapiantate nei giorni dell’inaugurazione, offrono ombra e riparo dal caldo di questa città strappata al deserto, creando “una piccola oasi”, come la definisce Al Awar.

Sana è un luogo multifunzione che si può trasformare in una piccola arena multilivello per concerti, nello spazio che ospita un mercato, nel giardino dove leggere un libro o bere un caffè con gli amici, ma è prima di tutto concepito come luogo d’incontro e vicinanza. Un’oasi a misura d’uomo, per gli abitanti di una città che si è sviluppata a misura d’auto.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Il cinema qui non è la stessa cosa

Nei 17mila metri quadri di superficie di Hayy Jameel c’è posto per residenze d’artista e spazi per esposizioni, luoghi per eventi, performance e laboratori, negozi e piattaforme educative, un comedy club. E il cinema: quando il progetto è stato concepito, sette anni fa, era un black box. Il motivo è semplice. Per trent’anni il cinema è stato proibito in Arabia Saudita.

Il suo design ha la firma di Bricklab, uno studio fondato nel 2015 dai fratelli Abdulrahman e Turki Hisham Gazzaz. “In città non esistono biblioteche di cinema, non ci sono archivi, questo spazio nasce per essere sia educativo, sia un riferimento per la sperimentazione”, spiegano i fratelli. Nati a Jeddah, sono tornati recentemente qui dopo gli studi all’estero. Anticipato da una installazione, lo spazio cinematografico di Hayy Jameel aprirà in primavera.

Ritorno a Jeddah

Nel corso della nostra conversazione, i fondatori di Bricklab mi danno una informazione che è fondamentale per orientare qualsiasi pensiero sulla loro città natale, sottolineando che le keyword della città – organizzate a chiasmo –sono “arte e cultura, cultura e arte”.

Al-Balad,Jeddah, Arabia Saudita

Quella dei Gazzaz è una storia molto comune qui tra i millennial, almeno tra quelli che mi capita di incontrare nei pochi giorni che spendo nella città saudita: quasi tutti under 40 che hanno studiato all’estero — in Canada, a Londra, a Bristol, qualcuno negli Stati Uniti — e da poco sono tornati, portando un importante contributo di conoscenze, creatività ed energie.

È anche il caso della giovane imprenditrice Tamara Abukhadra, dopo 18 anni passati a Londra. Nel 2014 ha fondato Homegrown Market, un concept store che raccoglie il meglio che il mondo arabo possa offrire in fatto di fashion design, cibo e beauty. Ora è anche un pop-up all’interno di Hayy Jameel. “Sono onorata di fare parte di una comunità così creativa”, dice con sincero entusiasmo Abukhadra durante una chiacchierata a pranzo. A differenza di molte donne qui, intabarrate nel tradizionale abaya nero, non porta hijab e indossa un vestito colorato, palesemente locale ma globalmente arabo. Mi racconta la vita dei ragazzi di Jeddah, come l’area centrale della città sia abitata soprattutto dalle generazioni più vecchie, mentre i giovani si concentrano verso nord, dove ci sono i nuovi quartieri di tendenza – e dove c’è il suo negozio.

Qui la vita sociale, spiega, corre principalmente attraverso inviti tra amici su whatsapp o via mail. “Non ci sono club, solo caffè. Le feste sono tutte private, organizzate in casa”. Che siano per soli uomini o sole donne è assolutamente normale. Alle volte c’è anche dell’alcol. Accenna poi ai party nel deserto, più liberi, ma sono tutti fuori da Riyadh, dall’altro lato di questo paese vastissimo.

Al-Balad, Jeddah, Arabia Saudita
Luci e ombre di un paese in trasformazione

Il funzionario riassume per grandi punti le riforme del giovane principe Mohammed bin Salman al-Saud — abbreviato MBS, per semplicità — grazie alle quali l’Arabia Saudita sta cambiando volto. Riguardano soprattutto le regole che relegavano le donne a una posizione che molto sommariamente noi europei amiamo definire “medievale”, dalle imposizioni sul vestiario (sollevate) al lavoro (ora le donne possono fare qualsiasi lavoro). Racconta dell’ottimismo di un paese che cambia, che si apre al turismo internazionale. Ma anche di quel che succede in piazza Deera, la cosiddetta “chop chop square” di Riyadh, dove vengono spiccate le teste di criminali, oppositori e omosessuali; di tutte le volte che è entrato in un locale e chi c’era dentro, vedendo entrare un europeo, ha reagito uscendo. Dell’attentato del 2007 contro un gruppo di turisti francesi, e di episodi più recenti.

Durante uno dei tanti transfer in questa città dove non esiste la metropolitana e in generale i mezzi pubblici, complice anche una scarsa dimestichezza con l’arabo, sono rimasti per me una sorta di leggenda urbana, finisco seduto accanto a un funzionario del governo francese, che da anni si occupa di collaborazioni importanti tra gli enti museali cisalpini e i paesi del Golfo, come il Louvre ad Abu Dhabi, o il Pompidou di AlUla.

Qualche settimana dopo la mia visita, Mayeul Barbet, pilota francese della Paris-Dakar, è stato vittima di un attentato proprio qui a Jeddah. Il dubbio morale, secondo il funzionario francese, è se disinteressarsi di quello che succede da queste parti, o restare qui “per rendere le cose migliori”. D’altra parte, i petroldollari della famiglia saudita, i più ricchi regnanti del mondo, sono una attrattiva fortissima per paesi come la Francia (o l’Italia), dove la cultura è tra gli ultimi asset economici rilevanti spendibili su scala globale.

Podio F1, Jeddah, Arabia Saudita
Jeddah Corniche, Jeddah, Arabia Saudita

Di sicuro a Jeddah, multiculturale per storia e vocazione, si respira un grande ottimismo sull’onda delle riforme di MBS. I locals mostrano un entusiasmo verso il futuro quasi spiazzante. Ma fuori dal regno questo resta il paese di Kashoggi, il giornalista dissidente trucidato in Turchia probabilmente da agenti sauditi, e dove al primo gran premio di Formula 1, corso proprio a Jeddah, Lewis Hamilton trionfa indossando come uno schiaffone al sistema saudita un casco con la bandiera del Pride. “Se mi sento a mio agio a correre qui? Non posso dire di esserlo”, aveva commentato il pilota Mercedes prima della gara.

A distanza di qualche giorno dal gran premio, si poteva ancora scorgere il podio passeggiando sulla Jeddah Corniche, tra il lungomare recentemente rinnovato e uno Starbucks. Senza conoscere il contesto, lo si sarebbe potuto confondere per una delle statue che punteggiano la città, molte bizzarre, altre apprezzabili, qualcuna un capolavoro. Quasi tutte sono collocate al centro delle tantissime rotatorie che scandiscono la viabilità di questa metropoli-autostrada, o lungo gli svincoli dove per qualche istante solitari esseri umani si avvicinano l’uno all’altro, chiusi in abitacoli climatizzati, prima di lanciarsi sui rettilinei.

Le statue sono l’eredità dell’ambiziosa operazione di arte pubblica lanciata da Mohammed Said Farsi, il sindaco che invitando negli anni Settanta nomi stellari come Joan Mirò, Arnaldo Pomodoro, Alexander Calder ed Henry Moore fu il primo a introdurre arte e scultura occidentali in una città araba. “Ha trasformato Jeddah in un panorama di monumenti del deserto che sarebbero piaciuti a JG Ballard”, scriveva nel 2015 Jonathan Jones sul Guardian.

Jeddah, Arabia Saudita
Dal boom del petrolio a Hayy Jameel

Per capire come sia cresciuta Jeddah dal boom del petrolio e in che modo, visito Saudi Modern, l’iniziativa di Bricklab che documenta l’imprevista evoluzione urbanistica e architettonica dell’Arabia Saudita nei decenni che sono seguiti al 1938. Una data che nel regno conta come un anno zero. La sede è in una villetta a due piani, dall’altra parte di una strada dove sulla parte esterna di un muro di cinta, dettaglio quasi surreale, è montato un lavandino. In una sala, una mappa e un grande plastico dettagliano l’espansione di Jedda, una metropoli stretta tra mare e deserto, e si può vedere chiaramente come dall’intricato reticolo di strade della città vecchia, per proporzioni oramai un francobollo, si dipani un sistema divergente di griglie ortogonali, del tutto simili a quelle delle città americane, che con le loro larghe maglie caratterizzano il tessuto urbano odierno.

La mostra si concentra su un periodo che arriva fino ai primi anni Sessanta, quello del primo grande boom, ma è evidente che oggi questa città stia nuovamente vivendo un momento di forte trasformazione. Durante la conversazione con Al Awar, l’architetto sottolinea che quando il progetto Hayy Jameel è nato, Jeddah contava 4 milioni di abitanti, sette anni fa. Nel 2024, saranno 7 milioni. Ma non è solo una questione di numeri. Qui verrà costruita la torre più alta del mondo, qui sono stati spesi più di 200 milioni di dollari per creare un lungomare che diventasse lo sfondo da favola per le instagrammate dei turisti. E nei giorni seguenti alla inaugurazione di Hayy Jameel, il nuovo festival del Mar Rosso ha riposizionato d’emblée Jeddah sulla scacchiera internazionale del cinema. Senza contare gli eventi dedicati all’arte contemporanea, la Bienal Sur per esempio, le tante fiere come Shara o 21,39 Jeddah Arts, più tutto quello che accade nel già vivace circuito di gallerie sparse nella città.

Di questo fermento e della trasformazione in atto, l’hub culturale Hayy Jameel e la sua architettura sono al tempo stesso riflesso e parte integrante. “Un luogo dove coesistere”, l’ha definito Antonia Carver, direttrice di Art Jameel. L’edificio di rappresenta quello che Jeddah è in atto e in potenza. La riflette simbolicamente, e rappresenta quello che vorrebbe sembrare sempre di più. Lo fa senza fronzoli, senza presentarsi vanitosamente con l’ambizione di essere un landmark da copertina, ma con una modestia genuinamente islamica. E un ottimismo che non può che risultare esotico ai miei occhi di europeo.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu

Con l’apertura di Hayy Jameel hanno inaugurato la mostra “Illuminate”, con 11 grandi installazioni di artisti sauditi dedicate alla luce, “Staple: What’s on your plate”, in cui l’esplorazione del cibo diventa l’occasione per conoscere culture e pratiche artistiche diverse, e “Paused Mirror”, con i ritratti di artisti sauditi scattati dal fotografo siriano Osama Esid che si rincorrono in diversi punti dell’edificio. E c’è anche “Red Sea: immersive”, la sezione in realtà virtuale del festival cinematografico del Mar Rosso.

Basement vs. garage, l’illuminismo del sottosuolo

Was soll ich machen, zum lachen in den Keller gehen…

Cosa dovrei fare, andare a ridere nel seminterrato…

Tobsucht, 1998, band tedesca

In Europa, specialmente in Austria, il Seminterrato è un luogo di ossessioni, da quelle private e sospette a quelle più innocue e utilitaristiche. Alcune persone passano la maggior parte del loro tempo libero (Freizeit) nel seminterrato anziché nei loro salotti in superficie, preferendo al sogno di un conformismo socio-culturale la cruda realtà dell’ossessione e dell’oscurità.

Mentre in Europa si punta a creare costruzioni in legno sostenibili che si innalzano fino alle nuvole, in California ci si affida al cemento per costruire sempre più in profondità. Oggi, la scarsità di beni immobili sta finalmente facendo i conti con i tantissimi edifici a un piano di Los Angeles, portando a una sempre maggiore costruzione di parcheggi sotterranei e di edifici residenziali e adibiti a uffici in cemento a più piani. Inoltre, la California è alle prese con l’incredibile impennata dei prezzi del legno a causa della pandemia. E proprio questo recente cambiamento nei metodi di costruzione, e più in generale le circostanze della vita pandemica, mi spingono a riflettere sul valore delle costruzioni “sotto la terra”. È nella natura di un edificio costruito sotto terra che il materiale da costruzione debba essere adeguato alle condizioni che lo circondano – per esempio si usano materiali più permanenti affinché possano resistere all’umidità, ai terremoti, ai saccheggiatori e agli animali.

Il lato più oscuro del sottosuolo e dei suoi segreti emerge nell’opera di Ulrich Seidl, il cineasta e documentarista austriaco che ci svela le dimensioni umane della cantina come spazio ossessivo. Il suo film, In Cantina (Im Keller) è un documentario del 2014 sulle vite sotterranee degli escapisti del seminterrato. (Il film è stato presentato in anteprima Fuori Concorso durante la 71a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia).

Il lato estremo dell’ossessione delle cantine è ben rappresentato da Josef Fritzl. Negli anni ’70, ad Amstetten, una città della Bassa Austria, Fritzl cominciò ad ampliare la cantina sotto la sua casa di periferia per schiavizzare una delle sue figlie, cosa che fece per più di 24 anni. Fingendo e convincendo tutti che fosse scappata, la violentò più di mille volte, facendole avere sette figli. Uno di loro morì, tre rimasero in cantina, e tre furono ammessi in superficie: per spiegare la loro esistenza alla moglie, Fritzl le raccontò che la figlia li aveva lasciati sulla soglia di casa sua come “trovatelli” affinché lei se ne prendesse cura. Durante il processo, Fritzl sostenne di essere stato un padre premuroso, e di aver portato giocattoli e videocassette in cantina.

A un osservatore esterno, che un tale crimine potesse consumarsi nella sana normalità della periferia austriaca sembrava quasi inconcepibile, ma ci sono prove documentali di altri casi di comportamenti simili avvenuti nei seminterrati di tutta Europa. Un’eccezione a questo stereotipo per me è sempre stato The Pit di Peter Noever a Breitenbrunn, Austria, costruito nel 1970. In questo progetto, l’oscurità di una cantina sotterranea viene annullata portando alla luce lo spazio sotterraneo, uno spazio che adesso è raggiunto dai raggi del sole e si apre al paesaggio circostante. Il sottosuolo inondato di luce può ora ricevere l’interazione umana, creando un finale aperto e luminoso al posto di una conclusione altrimenti oscura. Questo progetto, che comprende anche i Conversation Pits di Walter Pichler, è diventato nel tempo un esempio positivo di come si possa sfuggire alla tirannia della convenzione donando all’intenzionalità di un uso programmato un nuovo ottimistico inizio.

Diversamente dalla più cupa realtà austriaca, nella soleggiata West Coast e in America centrale i garage sono luoghi di ossessione ed evasione, dalle garage band (Nirvana), all’invenzione di computer di largo consumo (Apple), ai frequenti suicidi per asfissia da monossido di carbonio. Nei garage si è liberi di abbandonare i comportamenti convenzionali e lasciare che quelli estremi prendano il sopravvento. Tuttavia, essendo in superficie, gli edifici americani sono più esposti a sguardi indiscreti, e dunque non raggiungono mai lo stesso livello di clandestinità degli scantinati più bui. Anche le soffitte, altro potenziale luogo oscuro, sono spesso compromesse perché rese nella maggior parte dei casi spazi superflui usati solo per l’installazione di canali e condotti per impianti di climatizzazione piuttosto che per custodire segreti. Oggi i californiani possono celare i loro segreti nel vasto universo dei magazzini, ma questo è un altro discorso – che i reality show non hanno ancora del tutto sfruttato.

The Underground Gardens di Baldassare Forestiere, Fresno CA

Agli inizi del novecento, il sole della California e il suo clima secco ispirarono l’immigrato siciliano Baldassare Forestiere a creare un agrumeto dietro la sua modesta casa nei pressi di Fresno, ma ben presto scoprì che le frequenti annaffiature rendevano le radici dei suoi alberi così pesanti da farli sprofondare sei metri più in basso, in uno strato di argilla già infossato. Dopo che la maggior parte degli altri alberi furono sprofondati, Forestiere iniziò a collegare tra di loro le profonde buche, creando una rete di tunnel e stanze sotterranee. Gli alberi prosperarono, ma il suo matrimonio andò in pezzi perché passava troppo tempo sottoterra. Un imprenditore edile lo convinse a scavare un vialetto per trasformare questo paradiso sotterraneo in un fresco motel. Oggi è considerato un monumento storico, e una targa commemorativa celebra lo “spirito creativo e individualista non vincolato dalla convenzionalità” dei Forestiere Underground Gardens. Io ho visitato questi giardini alla fine degli anni ’70, e sono rimasto colpito dall’ottimismo e dalla vitalità degli alberi d’arancio che sbucano dall’oscurità per abbracciare la luce.

Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani

Il mio primo progetto architettonico è stato un edificio sotterraneo sulle colline della Napa Valley nel 1978, in seguito ai miei studi concettuali per un’architettura per una nuova California. Il progetto, 10 Californian Houses, esplorava condizioni di vita estreme prive di caratteristiche rappresentative come piante o facciate convenzionali. Qui le case, per lo più costruite nel terreno, offrono una chiave di lettura di diverse ossessioni californiane. E così c’è una casa per un corridore, condomini per sommozzatori e surfisti, una casa per due fratelli lottatori, e un hotel per alpinisti scolpito in una mitica formazione rocciosa. Questa esplorazione mi ha portato al mio primo cliente, il quale voleva costruire un fienile in cui vivere e un deposito sotterraneo in cui custodire tutti i vestiti indossati dalla famiglia. Questa estrema contraddizione programmatica mi ha spinto a suggerire un edificio costruito dentro al pendio di una collina – la collezione di vestiti completamente sommersa nel terreno, mentre l’abitazione emerge dal suolo e raggiunge i raggi del sole. (Goldman/Ashford Residence, St Helena, 1978/Batey&Mack)

Mentre le ossessioni più oscure possono prosperare in un mondo senza luce naturale, vorrei ora guardare il lato più positivo e ottimista del sottosuolo. Le attuali tendenze edilizie della West Coast riflettono le preoccupazioni culturali e globali del cambiamento climatico, ed è semplicemente prudente vedere la terra calda come una compagna in questo viaggio verso un minore impiego di energia per il riscaldamento e il raffreddamento delle temperature. In un recente viaggio all’insegna del surf nella penisola di Bassa California ho visto diversi edifici che usano la forza bruta del cemento come nuova espressione formale e di comfort.

Goldman /Ashforth Residence, Batey& Mack, 1980,St. Helena, Napa Valley CA

A Todos Santos, in Bassa California del Sud, Taller Terreno, Kevin Wickham e Mark Cruz hanno costruito una casa sotterranea completa di laboratorio di ceramica su un terreno leggermente in pendenza che si affaccia sull’Oceano Pacifico. La struttura di cemento a vista fa un timido capolino fuori dal suo abbraccio terrestre, restando fresca d’estate e calda d’inverno. Entrando dall’alto attraverso un tetto spoglio, le scale conducono in un ventre protettivo fatto di camere da letto e zone living. La piscina soleggiata e la facciata di vetro esposta a sud creano un interno minimalista e sofisticato, dove le dure pareti di cemento vengono addolcite da mobili eccentrici e surreali opere d’arte in ceramica.

Goldman /Ashforth Residence, Batey& Mack, 1980,St. Helena, Napa Valley CA

Allo stesso modo, il vicino Paradero Hotel, completamente costruito in calcestruzzo, forma un’oasi protetta in un paesaggio altrimenti arido. Progettato da Yashar Yektajo e Ruben Valdez, il complesso abilmente organizzato colloca tutti i servizi per gli ospiti (come la reception, il ristorante, la cucina e la spa) in diverse strutture in calcestruzzo completamente all’aperto. Lo spazio aperto, simile a un’oasi, è circondato da un anello di stanze di calcestruzzo a due piani a cui si accede da scale individuali. L’architettura brutalista e quasi nostalgica del resort è ammorbidita da un concept restaurant Farm to Table, e costringe a passare più tempo possibile all’esterno. L’hotel di lusso fornisce ai clienti poncho e coperte lavorate a mano per le fresche serate nel deserto, e si rivolge agli appassionati di design e di cibo con la sua estetica naturale e grezza. Nei progetti di RIMA, la terra battuta torna ad essere un materiale perfetto per la costruzione residenziale e commerciale. Il complesso artistico Casa Ballena a San Jose del Cabo, progettato da Gerardo Rivero, celebra il prolungamento naturale della terra come materiale da costruzione naturale, come era già successo negli anni 60′ e 70′, quando era il materiale da costruzione fai da te preferito dagli Hippie.

House for two fighting brothers - 10 Californian houses, Mark Mack, 1977, Pamphlet Architecture #2/1980
Peter Noever , The pit 1970-presente / Breitenbrun, Austria

Con questa nuova tendenza ad apprezzare materiali da costruzione naturali ci stiamo avvicinando a un modo più sostanziale di costruire, vicino o dentro al terreno, oppure è solo una nuova visione alla moda del materialismo architettonico? Costruire con materiali più reali e solidi e ricongiungersi con il rigore della prima architettura modernista, creando un’architettura nel suo stato puro e naturale di permanenza aptica è sempre stato un sogno proibito per la maggior parte degli architetti. Il fatto che si stia investendo nel sotterraneo suggerisce non solo una nuova realtà della tecnologia edilizia, ma anche un utilizzo più ottimistico delle dimensioni solitamente nascoste degli edifici. Senza paura dell’oscurità e del sottosuolo, oggi possiamo finalmente abbracciare l’opportunità che questo vecchio materiale ci offre, senza nascondere la testa nella sabbia, ma piuttosto lasciando che la terra calda ci riscaldi, avvicinandoci al suolo, facendoci abbracciare e circondare dal nostro pianeta.

Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani
Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani

Architettura Maledetta

Sebbene l’Ansonia e il Cecil condividano le stesse ambizioni di partenza e simili incidenti di percorso, le diverse zone in cui sorgono e l’estrazione sociale degli abitanti li hanno portati a due risultati completamente opposti.

Il Cecil Hotel nel downtown di Los Angeles

La terribile storia del Cecil Hotel, situato nel downtown di Los Angeles, è stata narrata da numerosi documentari “true crime”, tra i quali anche la serie originale Netflix sulla scomparsa di una studentessa universitaria canadese nel 2013. Insomma, la storia di questo hotel è ormai di dominio pubblico, ma possiamo davvero affermare che questo edificio sia maledetto?

Può un’opera architettonica essere talmente “maledetta” da campeggiare sulle prime pagine di tutti i giornali scandalistici? La popolare serie American Horror Story ha realizzato una stagione ispirata ad una recente sparizione avvenuta nell’hotel, e quando si cercano notizie e leggende metropolitane sul Cecil Hotel, ci si imbatte soprattutto nell’elenco delle morti accadute all’interno e nei dintorni dell’hotel, così come in alcuni inquietanti identikit degli ospiti. Forse non è tanto l’hotel in sé ad essere un personaggio in questa sciagurata storia, quanto la zona in cui è situato: la “montagna russa finanziaria” che ha caratterizzato la sua storia, così come la sua trasformazione da hotel a luogo di residenza per gente di passaggio e persone senza fissa dimora basterebbero a giustificarne la cattiva reputazione.

Cecil Hotel, L.A. - Courtesy of Netflix © 2021

Come tante altre strutture alberghiere nel centro di Los Angeles, il Cecil Hotel fu costruito nel pieno del boom economico, precisamente nel 1924, per soddisfare le esigenze legate a un vertiginoso aumento degli abitanti. L’emigrazione verso la California del Sud all’inizio degli anni ’20 è stata la più grande migrazione interna del popolo americano, e così Los Angeles divenne la più grande città della West Coast, scalzando San Francisco. Il tutto avvenne in un periodo in cui la città di Los Angeles stava facendo i conti con una configurazione socio-politica travagliata, che contrapponeva l’emergente classe operaia alla brutalità del capitalismo, e favoriva qualsiasi forma di libera imprenditorialità rispetto alla sindacalizzazione e ai diritti del lavoro.

Con i suoi quindici piani e quasi settecento stanze, il Cecil era uno dei più grandi alberghi della zona, e si poneva come obiettivo quello di competere sul mercato offrendo lusso e comodità mai viste prima. Tuttavia, queste aspettative vennero presto disattese a causa della grave crisi economico-finanziaria del 1929: l’hotel fu costretto a fare scelte più economiche e flessibili, ponendo fine alla sua opulenta ascesa, e anzi trasformandosi in un residence a basso costo. Riducendo il numero di camere e suite e creando bagni e cucine al piano, il Cecil Hotel divenne una casa per i poveri, vista anche la sua vicinanza al distretto di Skid Row, un sottoprodotto della Grande Depressione dove la maggior parte della gente viveva per strada. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che la clientela dell’albergo non fosse più composta da aspiranti imprenditori e star di Hollywood ma da disoccupati, veterani di guerra trascurati e persone in difficoltà che sopravvivevano solo grazie agli aiuti del governo.

Cecil Hotel, L.A. - Courtesy of Netflix © 2021

La situazione fu ulteriormente aggravata dalla chiusura degli ospedali psichiatrici statali in California per decisione del Governatore Reagan, che aveva legami commerciali con gli operatori degli istituti psichiatrici privati, in occasione dell’abolizione del Mental Health Systems Act istituito dal precedente presidente Jimmy Carter. Così, moltissimi californiani mentalmente instabili si aggiunsero al già pericoloso mix di persone che battevano le strade di Los Angeles, nonché nella lista dei potenziali ospiti di un hotel già sulla via del declino. In questo nuovo scenario, la maggior parte dei clienti dell’hotel erano persone senza fissa dimora, bizzarri personaggi in cerca di fortuna e studenti in viaggio con un budget limitato. Per questo, il fatto che due famigerati serial killer alla ricerca di nuove vittime abbiano soggiornato nell’hotel non sembra poi così inverosimile. Si dice che anche il “Night Stalker” Richard Ramirez abbia soggiornato nell’hotel per alcune settimane, quando ancora non viveva per le strade di Skid Row.

Il più noto assassino seriale austriaco di prositute, Jack Unterweger, dormiva nel Cecil Hotel mentre fingeva di essere un giornalista di cronaca nera intento a svolgere ricerche sull’atmosfera letteraria di Charles Bukowski. Nessuno sapeva però che intanto stava uccidendo delle donne. Ma ciò che trovo particolarmente terrificante riguardo a Jack Unterweger è il suo background – ho scoperto che è nato a Judenburg, in Austria, proprio come me. Sua madre era una cameriera austriaca e suo padre un soldato americano, e aveva appena un anno in meno di me. Frequentava la stessa scuola elementare mia e del mio caro amico d’infanzia Fritz, la cui madre era la nostra insegnante di tedesco. Non lo conosco personalmente perché non faceva parte del mio gruppo di amici, ma mi fa rabbrividire pensare che potremmo essere stati nella stessa squadra sportiva o in un gruppo di aiuto della chiesa.

...ho cominciato a dubitare sempre più del mito dell'architettura come strumento di crimine o a vedere un edificio ''maledetto'' come colpevole...

Quando nel 1976 arrivai in California per realizzare il mio sogno nel cassetto, ovvero diventare architetto per Musicisti Rock and Roll (ve ne parlerò in un’altra occasione), il signor Unterweger stava già scontando l’ergastolo per aver ucciso una prostituta in Austria. In prigione scrisse racconti, poesie e un’autobiografia che lo fecero diventare il beniamino della stampa e dell’élite letteraria, la quale presentò una petizione al governo per la sua libertà condizionata, citandolo come caso esemplare di riabilitazione e redenzione. Dopo che il suo avvocato si innamorò di lui, Unterweger scontò un periodo obbligatorio di quindici anni di prigione, al termine del quale gli fu offerto di condurre il proprio show televisivo nazionale. Diventò una celebrità tra l’intellighenzia del suo paese e aiutò la polizia a risolvere crimini in pubblico, il tutto mentre procedeva a uccidere altre undici prostitute – una ceca, sette austriache e tre americane, tutte strangolate durante il suo soggiorno al Cecil Hotel nei primi anni ’80. Si trovava a Los Angeles per indagare su vari crimini, e fu persino invitato a girare in un’auto di pattuglia della polizia come investigatore-ospite, aiutando a risolvere crimini commessi probabilmente proprio da lui.

Per quanto fossi scioccato e al tempo stesso elettrizzato da questa coincidenza personale, ho cominciato a dubitare sempre più del mito dell’architettura come strumento di crimine o a vedere un edificio “maledetto” come colpevole. Nonostante i dettagli raccapriccianti che hanno reso questo hotel una meta del turismo dell’orrore, sono piuttosto le circostanze socio economiche del tempo, nonché la malaugurata riprogrammazione e discutibile gestione della struttura, costellata di incomprensibili passaggi di proprietà, ad aver reso il Cecil un hotel dell’orrore. In altre parole, ho preso in considerazione l’influenza dei fattori sociali nel design, argomento vastamente trattato tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 nelle scuole di architettura progressiste come Berkley e Princeton, e la Teoria dello Spazio Difendibile, che vede i cattivi design responsabili dei mali sociali. Ciò nondimeno, si deve considerare che quello era un periodo caratterizzato da un grandissimo sfruttamento economico e dalla riduzione della rete di sicurezza governativa per una classe di individui già in difficoltà. La società era dominata dal capitalismo, che sta alla base di tutti i valori repubblicani conservatori americani, dove solo i più forti, che vivono in comunità residenziali chiuse, si arricchiscono, mentre i deboli, costretti a vivere per strada, stentano a sopravvivere.

Cecil Hotel - L.A.
Ansonia Hotel - NYC
L'Ansonia Hotel nell'Upper West Side di Manhattan

Prima ancora di trasferirmi nella West Coast, avevo lavorato a una proposta per un hotel della stessa categoria del Cecil a New York, dopo esserci arrivato da Vienna nel 1974. Ero stato assunto da Haus Rucker Co, un gruppo austriaco di architettura sperimentale che aveva portato a termine con successo una mostra di architettura al prestigioso Museum of Modern Art e, in quanto vincitore ai National Endowment Awards, aveva ottenuto il permesso di condurre uno studio sull’uso dei tetti a Manhattan. Così, ho trascorso i miei primi sei mesi a New York sui suoi magnifici tetti: era fantastico pensare alla possibilità di poter utilizzare per usi pubblici, commerciali e privati questi spazi altrimenti inutilizzati. Uno dei nostri “case study” riguardava l’Ansonia Hotel, costruito a Broadway da un grande industriale del rame. Il nostro obiettivo era quello di far riscoprire a tutti la magnificenza del più grande hotel della città, che un tempo copriva cinquecentocinquantamila metri quadrati e contava milleduecento camere e trecento suite.

Sebbene in passato l’hotel sia stato la cornice di svariati scandali, suicidi, efferati crimini e incidenti, era anche uno stravagante esercizio di progettazione architettonica. Oltre alle sue dimensioni ispirate agli hotel di Parigi, la fantasiosa struttura turrita di diciassette piani in pietra calcarea era la versione sontuosa di un hotel residenziale, e offriva servizi che nessun’altra struttura poteva permettersi. Nel 1904, la scelta di costruirlo proprio in quel punto della città si rivelò estremamente lungimirante, poiché di lì a poco la metropolitana che si estendeva verso nord divenne un comodo mezzo di trasporto, e l’hotel poté attrarre clienti anche grazie alla propria posizione strategica per spostarsi in città.

New York upscale real estate promo materials of 1910s - @New York Public Library's

L’Ansonia vantava la presenza di diverse sale da ballo, ristoranti in stile Luigi XIV, una maestosa sala ricevimenti, sale da tè e caffè, una banca, un barbiere, un sarto, sale di scrittura, bagni turchi e, non meno importante, la più grande piscina coperta del mondo. In pochi anni, però, l’hotel si guadagnò una cattiva reputazione: al suo interno, noti criminali e celebrità sportive finirono per incrociarsi lungo i corridoi. Il famigerato scandalo dei Black Sox, in cui otto giocatori di Chicago si accordarono con dei giocatori d’azzardo per perdere intenzionalmente la Finale della World Series del 1919, venne organizzato proprio lì. Jack Dempsey e Babe Ruth soggiornarono nell’hotel assieme al tenore Enrico Caruso, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini e i compositori Igor Stravinsky e Sergei Rachmaninoff. Per facilitare la comunicazione da una parte all’altra della struttura, furono installati all’interno delle pareti dei tubi particolari che permettevano di inviare messaggi all’interno di capsule tra i clienti e il personale dell’albergo.

Nella grande hall, oltre alla maestosa scala e all’enorme lucernario a cupola, si trovava anche una fontana in cui sguazzavano vere foche. Il proprietario aveva addirittura creato una fattoria sul tetto, con quattro oche, un maiale, circa cinquecento polli, moltissime anatre, sei capre e persino un piccolo orso; questo permise all’hotel di offrire ogni giorno uova fresche agli inquilini, almeno fino a che il Dipartimento della Salute non ordinò la chiusura della fattoria. Quando lo visitai per la prima volta, l’hotel aveva perso gran parte del suo fascino, ma c’erano ancora i Continental Baths, un famoso ritrovo gay che ricordava la gloria dell’antica Roma, e che aveva una piscina con cascata, una discoteca e, in un cubicolo, spacciatori di droga. L’elemento più noto era il cabaret di Bette Midler e del suo pianista accompagnatore Barry Manilow.

Ansonia Hotel NYC

Un decennio più tardi, lo stesso spazio divenne il Plato’s Retreat, il famigerato club di scambisti eterosessuali che attraeva talmente tanti personaggi indesiderati e atti sconsiderati da aver fortemente contribuito al declino dell’Ansonia. Ispirati da questo passato esuberante, abbiamo progettato una grande casa di vetro sul tetto ispirata ai palazzi di cristallo Art Deco per ospitare grandi eventi inclusivi, oltre ad aree in cui consumare pasti all’aperto caratterizzate da tralicci topiari per imitare le torrette di rame originali che vennero fuse durante lo sforzo bellico per creare carri armati.

Sebbene l’Ansonia e il Cecil condividano le stesse ambizioni di partenza e simili incidenti di percorso, le diverse zone in cui sorgono e l’estrazione sociale degli abitanti li hanno portati a due risultati completamente opposti.
L’Ansonia di New York è diventato un esclusivo edificio residenziale per i ricchi abitanti dell’Upper Westside vicino a Central Park. Il valore immobiliare è tra uno dei più alti del mondo. Il Cecil hHtel, invece, si è sempre più adattato allo stile di vita squallido e decadente di Skid Row. Los Angeles è una città in cui funzionari e promotori urbani hanno a cuore unicamente gli interessi degli imprenditori capitalisti, i quali sfruttano i vari benefici fiscali a loro offerti in un futile tentativo di rendere Los Angeles Downtown un simbolo di urbanità e grandezza metropolitana, senza tuttavia considerare la popolazione socialmente sfruttata e trascurata che vaga per le strade di questo deserto sociale ed economico. Il Cecil è ora chiuso per ristrutturazione in attesa di una ripresa economica o di uno sviluppo urbano che gentrifichi il quartiere. Ma se questo non dovesse succedere, sarà costretto ad accettare la sua reputazione di hotel dell’orrore.