Il futuro di Alfa Romeo è costruito su una lunga storia di design

Centotredici anni di storia: più di un secolo di innovazioni, concept e design che hanno ridefinito più volte la storia della progettazione automobilistica in Italia e nel mondo. È l’eredità illustre e unica del design Alfa Romeo. Un metaforico gigante sulle cui spalle oggi siedono i designer del marchio con un compito impegnativo quanto esaltante: tradurre quell’esperienza e traghettarla nel futuro elettrico della mobilità.

Il percorso è iniziato ufficialmente con il lancio della Tonale Plug-in Hybrid Q4, l’auto che completa la gamma Tonale e con cui il brand si è data un obiettivo chiaro: offrire una “risposta Alfa” alla transizione elettrica senza snaturare il DNA Alfa Romeo. L’approccio scelto dai designer è un’evoluzione e un tributo a quei 113 anni di storia, che qui vogliamo ripercorrere ricordandone le tappe più importanti.

La nascita di una leggenda: 1910

La storia di Alfa Romeo ha inizio nel 1910, quando il Cavalier Ugo Stella acquisisce la Società Italiana Automobili Darracq, succursale italiana di un produttore francese. Nel 1915 la società diventa A.L.F.A. (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), e fin da subito si concentra sulla progettazione e il design delle vetture. Alla guida c’è Giuseppe Merosi, uno dei più rispettati ingegneri dell’epoca. Il primo veicolo prodotto è la 24HP, un’auto che oggi definiremmo una sport sedan e capace di raggiungere una velocità di punta di circa 100km/h. Il richiamo della velocità porta l’azienda a lavorare su un prototipo che sembra uscito da un film di fantascienza: la 40/60HP “Aerodinamica”. Costruito su commissione dalla Carrozzeria Castagna, il veicolo è la prima vera monovolume della storia. Realizzato interamente in metallo, ha oblò circolari e un’insolita forma bombata da sottomarino grazie alla quale può fendere l’aria raggiungendo velocità di punta di 139km/h.

Alfa Romeo 40/60HP Aerodinamica
Tra le due Guerre: Alfa incontra Romeo

A seguito del primo conflitto mondiale, si apre il secondo capitolo della storia Alfa, siglato dall’unione con il nome dell’imprenditore Nicola Romeo, che aveva rilevato la società prima della Grande Guerra. Gli anni tra i due conflitti mondiali vedono susseguirsi idee sempre nuove e grandi innovazioni, sia dal punto di vista ingegneristico e tecnologico, sia sotto il profilo del design.

Nel 1922 inizia la produzione dell’Alfa Romeo RL. È il primo grande successo internazionale dell’azienda, nonché un’auto vincente come poche altre prima di allora.Negli anni 20 Alfa Romeo si aggiudica tutto quello che si poteva vincere nelle competizioni automobilistiche.

Assieme alla vocazione sportiva cresceva però anche la ricerca del marchio nel design: un percorso che alla fine del decennio culmina nel modello 6C, che permette ad Alfa Romeo di vincere tanto nelle competizioni quando nelle gare di eleganza grazie a una linea innovativa e unica nel suo genere.

Ogni volta che vedo passare un’Alfa Romeo, mi levo il cappello

Dal 1931 al 1939 il settore delle corse sarà invece dominato dalla 8C, la prima vera hypercar della storia. La otto cilindri è un concentrato di tecnologia e design senza precedenti. Leggenda vuole che sia stata proprio una 8C 2900 a far dire a Henry Ford: “ogni volta che vedo passare un’Alfa Romeo, mi levo il cappello”.

Dall’addio alle corse al boom del marchio

Nel 1947 Alfa Romeo lancia le 6C 2500 “Freccia D’oro”, “Villa D’Este” e “Supersport”, divenute subito un’icona di stile. Sul nuovo modello debuttano elementi di design che ancora oggi distinguono il marchio, come la griglia centrale triangolare a mo’ di scudo, con il logo al centro, e le prese d’aria laterali, che ritroviamo oggi sulla Tonale in una rielaborazione contemporanea. Negli anni ‘50 riprendono anche le vittorie nelle corse, con la Tipo 158, la prima vera “Alfetta”: un capolavoro di ingegneria e aerodinamica. Grazie alla progettazione e al motore 1500 più potente mai costruito, poteva raggiungere i 306km/h.

Nei primi anni ’50 l’azienda decide però di ritirarsi, pressoché imbattuta, dalle competizioni automobilistiche per concentrarsi invece sulla produzione commerciale. Con l’introduzione delle catene di montaggio e il passaggio a una produzione industriale di massa, l’azienda si trasforma in un produttore su larga scala di importanza globale: il risultato saranno decenni di grandi successi, capaci di cementare il ruolo di Alfa Romeo come simbolo indiscusso della qualità del design automobilistico italiano.

Alfa Romeo Giulietta Sprint

Nel 1954 nasce la Giulietta, presentata nel modello Sprint disegnato da Bertone al Salone dell’Auto di Torino: è un vero e proprio spartiacque, non solo per quel design che farà la storia, ma anche per gli avanzamenti tecnologici di cui è ambasciatrice, come il motore bialbero 1300cc con testata in lega d’alluminio, il famoso Twin Cam che Alfa Romeo produrrà per decenni. Giulietta Sprint è un successo senza precedenti: Alfa Romeo è costretta a sospendere gli ordini pochi giorni dopo la presentazione per riuscire a soddisfare tutte le richieste.

Dalla Giulietta alla Giulia

Sulle ali del successo della Giulietta, Alfa Romeo introdurrà otto anni più tardi un altro modello destinato a fare la storia: la Giulia, presentata all’Autodromo di Monza nel 1962. Il nuovo modello è un concentrato di innovazione, a partire da un design testato in galleria del vento che le garantiva un coefficiente d’attrito aerodinamico di 0.34. Pesa solo 1000Kg e monta — nella versione TI – un motore 1570cc che garantisce facilità di guida e uno sprint eccellente.

Alfa Romeo Giulia TI

Le vendite vanno così bene che Alfa Romeo decide di affiancare allo stabilimento di Portello un nuovo polo di produzione ad Arese, vicino Milano: qui l’azienda sposterà la sua sede ufficiale fino al 1986. Dalla Giulia derivano poi altri modelli di successo che ancora oggi trovano spazio negli annali Alfa Romeo, dalla Sprint GT, alla Spider Duetto (1966) che Dustin Hoffman guida nel film “Il Laureato” del 1967.

Alfa Romeo Spider Duetto
Le due supercar degli anni Sessanta: Alfa Romeo 33 Stradale e la 33 Carabo

In quegli anni di irrefrenabile fermento nasce anche anche la leggendaria Tipo 33, che non solo vincerà tantissimo in varie configurazioni fino alla fine degli anni settanta, ma sarà anche d’ispirazione a una serie di evoluzioni che segnano lo sviluppo del design Alfa Romeo. La versione omologata della 33, la “Stradale”, era una supercar dei sogni: vola a 260 km/h e ne vengono costruite – rigorosamente a mano – solo 18. La 33 stradale sarà anche la metaforica tela su cui i maggiori designer italiani dell’epoca sperimenteranno senza limiti le proprie idee più audaci. Nel 1968 Bertone disegna e realizza il prototipo 33 Carabo, un’auto spaziale che sembra venuta dal futuro, con portiere a forbice che ispireranno i design di celebri modelli di altre case di lusso italiane.

Alfa Romeo 33 Carabo
Dall’Alfa Sud al passaggio a Fiat

Negli anni ’70 Alfa Romeo risponde inoltre ai grandi cambiamenti del mercato con una serie di nuovi modelli di largo successo come l’Alfa Sud e soprattutto l’Alfetta, omonima della monoposto degli anni 50, una sedan sportiva che per molti anni rimarrà campione di vendite nel proprio segmento.

Gli Anni ’80 segneranno per Alfa Romeo un altro fondamentale momento di svolta e, ancora una volta, l’ingresso in una nuova epoca. Nel 1986, dopo un periodo di difficoltà, l’azienda viene venduta da Finmeccanica al Gruppo Fiat. Nell’ottica del rilancio del marchio, l’azienda torinese favorirà gli investimenti sul design con l’apertura di un nuovo centro di design. Alla fine del decennio arriva l’Alfa 164, il primo modello dell’epoca Fiat: disegnata da Pinifarina e prodotta ad Arese, è una sedan spaziosa adatta anche alle famiglie, ma che non rinuncia in alcun modo alla vocazione e al look sportivo.

Nei tre lustri successivi, poi, sotto la guida di Walter de Silva, il centro Design di Arese si occuperà di progetti importantissimi per l’evoluzione del marchio, come i prototipi Nuvola e Proteo, ma anche la 145, le 156 e 147 e più tardi l’Alfa MiTo.

Alfa Romeo 164
Gli anni 90 e 2000: le Auto dell’Anno

Verso la fine del secolo gli investimenti nel design e nell’innovazione del centro di Arese cominceranno a dare i propri frutti più pregiati. Nel 1997 arriva la Alfa Romeo 156, un’auto capace di riscrivere i paradigmi della progettazione automobilistica. Dal punto di vista tecnologico introduce novità senza precedenti, come il sistema di iniezione common rail per i motori diesel che poi verrà adottato praticamente da tutte le case automobilistiche. A suggellare l’innovazione e un altro nuovo capitolo dell’eccellenza di design Alfa Romeo, la vettura nel 1998 vincerà l’ambito premio Auto dell’Anno.

Il team di de Silva si renderà poi protagonista nel 2000 di un’importante doppietta, con la vittoria dello stesso riconoscimento anche con la Alfa Romeo 147. Con questo modello i designer ripensano subito il frontale della 156, nonostante il suo successo, e lo migliorano ancora. Il resto dell’auto è un trionfo di compattezza sportiva che incarna perfettamente lo spirito Alfa Romeo.

Alfa Romeo, oggi

Negli anni successivi il marchio continua a esplorare e creare icone di design. Nel 2003 arriva l’Alfa GT Bertone, una sedan che ricorda la Giulietta Sprint. Poi l’Alfa Romeo Brera, con il ritorno al segmento 2+2, con tetto panoramico e controllo elettronico della trazione su tutti i modelli.

E poi ancora la 8C Competizione e la 8C Spider, supercar per pochi che rievocano i fasti delle sportive degli anni ‘60 e ‘70, fino al grande ritorno della Giulietta nel 2010, celebrazione della grande storia Alfa. Nel 2016 fa il suo ritorno trionfale anche la Giulia, che assieme alla Stelvio del 2017 – un crossover basato sulla stessa piattaforma – pone le basi per il presente del design Alfa Romeo.

Alfa Romeo Giulia

Ed eccoci infine di nuovo ai giorni nostri, con l’introduzione del concept Tonale nel 2019. Disegnato dal Centro Stile di Torino, viene mostrato al Salone di Ginevra già in una versione ibrida che poi diventerà la Tonale Plug-In Hybrid Q4.

Oggi arriva su strada a completare il percorso Tonale: è l’Alfa Romeo più tecnologica di sempre. I designer del Centro Stile sono riusciti a mescolare le novità tecnologiche con quello spirito Alfa che ha da sempre segnato ogni nuovo design e ogni nuovo modello del marchio.

Non serve l’occhio di un alfista per accorgersi di quanto la Tonale sia un tributo contemporaneo alla Storia Alfa. Nel SUV compatto si può scorgere l’evoluzione dello stile recente del marchio, ma si assaporano anche citazioni illustri, come la fiancata che richiama l’eleganza della Giulia GT del 1960, o i triplici fari LED frontali che si ispirano alla sportività dell’Alfa Romeo Sprint Zagato del 1989.

Alfa Romeo Tonale Q4 Hybrid

“L’Alfa Romeo è un modo particolare di vivere, di vivere l’automobile. La vera essenza dell’Alfa sfida ogni descrizione”, diceva negli anni 60 Orazio Satta Puliga, storico designer e direttore della progettazione Alfa dal 1946 fino agli anni 70. “Può essere paragonata a quei movimenti irrazionali dello spirito che a volte si verificano nell’uomo e per i quali non esiste una spiegazione logica. Siamo nel regno delle sensazioni, delle passioni, delle cose che hanno più a che fare con il cuore che con la testa.”

È questa l’eredità di cui Tonale si fa portatrice. Un lungo corso che, oggi più che mai, nell’era nuova dell’intelligenza artificiale generativa, dell’elettrificazione, della mobilità sostenibile, può permettere a un marchio con 110 anni storia di abbracciare il futuro con coraggio. Cambiando ancora, eppure rimanendo sempre lo stesso.

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L’evoluzione architettonica di uno stabilimento industriale a Parma

L’architettura da sempre gioca un ruolo fondamentale nell’identità di Chiesi Farmaceutici, azienda nata a Parma nel 1935 dalle pulsioni imprenditoriali di Giacomo Chiesi, un farmacista con il sogno della ricerca. La prima vera vicenda architettonica” legata allo stabilimento è però tragica: i laboratori vengono infatti quasi completamente distrutti da un bombardamento nel 1944. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività dell’azienda riprende, e così la sua crescita. Giacomo Chiesi valuta la possibilità di acquistare un terreno per costruirvi una “vera fabbrica”: il nuovo stabilimento produttivo viene inaugurato nel 1955, conta 50 dipendenti e una produzione allargata di medicinali di successo.  

Si tratta dell’ormai storico sito industriale di via Palermo, a Parma: un’area caratterizzata da una grande modernità sin dalla sua nascita, con una specifica attenzione alla qualità degli spazi lavorativi e l’adesione ai principi progettuali più all’avanguardia. 

Nel 1966 Giacomo Chiesi passa il timone ai figli Alberto e Paolo. L’azienda è ancora di piccole dimensioni, ma già affacciata sul mercato internazionale. Con loro inizia un processo di espansione e internazionalizzazione, che si concretizza nell’apertura in Brasile della prima sede estera alla fine degli anni Settanta e poi con l’approdo in decine di Paesi in tutto il mondo: dal Pakistan alla Bulgaria, dalla Cina ai paesi Scandinavi. 

Nonostante questo processo di crescita e lo sguardo internazionale, le radici dell’azienda rimangono ben salde nel territorio parmigiano, e in qualche modo lo sviluppo architettonico dell’area rappresenta l’evoluzione dei valori e dell’identità di Chiesi.  

Tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, in momenti e con ruoli diversi, entra in azienda la terza generazione Chiesi, i figli di Alberto e Paolo: Alessandro, Andrea, Giacomo e Maria Paola. Con il loro ingresso si aprono ulteriori nuove linee di ricerca e sviluppo: Chiesi diventa pioniere nel mondo della medicina rigenerativa e nel 2013 entra in quello delle biotecnologie, posizionandosi oggi all’apice dell’innovazione nel settore bio-farmaceutico. 

Anche in questa fase non viene meno l’attenzione verso l’architettura. A tre anni dall’inaugurazione ufficiale della nuova sede, che affianca il già esistente Centro Ricerche, il Gruppo Chiesi vuole continuare il processo di riqualificazione urbana dello storico sito industriale di via Palermo, a Parma, e creare un innovativo “business playground”. Un hub aperto alla comunità aziendale e ai propri partner, un landmark in cui indagare le interconnessioni tra la salute delle persone e la salute del pianeta. 

Per questo, la società biofarmaceutica multinazionale italiana – che oggi è tra le prime 50 aziende farmaceutiche al mondo – ha lanciato qualche mese fa una Call for Ideas internazionale dal titolo “Restore to Impact”, con l’obiettivo di individuare concept innovativi, evolutivi e trasversali che possano servire da linee guida per la rigenerazione del sito industriale di via Palermo. Chiesi si propone quindi come piattaforma culturale e promotore di riflessioni sull’Open Innovation e sull’architettura costruita. 

“I rapidi cambiamenti a cui assistiamo oggi richiedono l’interconnessione di professionisti sempre più specializzati e con competenze in continua evoluzione. Ma richiedono anche luoghi di lavoro allineati alle attuali nozioni di cooperazione, inclusione, benessere, luoghi in cui ricerca e formazione sono supportate da tecnologie all’avanguardia. Spazi innovativi dove le persone sono sempre al centro,” afferma Andrea Chiesi, Head of Special Projects di Chiesi Farmaceutici.  

Flessibilità, adattabilità nel tempo, porosità – intesa come capacità di dialogare con il contesto fisico e sociale e come qualità del paesaggio e degli spazi pubblici in relazione alla connettività – e sostenibilità in termini tecnologici, ambientali, economici, aziendali e innovativi: sono questi i criteri selezionati dalla Commissione Selezionatrice di “Restore to Impact” per valutare le idee pervenute. 

La partecipazione alla Call è stata significativa, con quasi 500 utenti registrati alla piattaforma web del progetto nei due mesi di apertura dal 1 marzo al 30 aprile 2023 – grazie al lavoro di promozione e diffusione dell’iniziativa, che ha raggiunto più di cento Paesi in tutto il mondo. I concept selezionati per la fase finale del concorso sono 31, di cui 26 per la Categoria Professionisti e 5 per la Categoria Under 30. Di questi ne sono stati premiati tre per ogni categoria, per la Categoria Professional prevista anche una Menzione d’Onore. 

Tra i professionisti, i tre premi e la Menzione d’Onore sono stati assegnati a team di progetto, multidisciplinari o composti da soli architetti. Tutti operano in Italia, due nello specifico a Parma, a riprova di quanto la vicinanza e confidenza con un’area urbana, la sua storia e le sue criticità siano elementi fondamentali per lo sviluppo di un concept d’intervento come quello stimolato da “Restore to Impact”, proteso oltre i confini dell’architettura e aperto alla generazione o rigenerazione di un profondo dialogo tra impresa, territorio e comunità. 

Per la Categoria Under 30, i tre premi sono stati assegnati a laureandi o neo laureati di Architettura provenienti da tre diversi Paesi: Italia, Paesi Bassi e Australia. Un’apertura geografica che denota un diverso approccio metodologico dei tre concept, più inclini a proporre soluzioni flessibili nello spazio e nel tempo. 

La Commissione Selezionatrice commenta così i risultati dell’iniziativa: “Cosa viene prima dell’architettura? I bisogni di una società. Restore to Impact è questo: lanciando un concorso pubblico per rinnovare gli edifici esistenti, si vuole pensare collettivamente a come affrontare la rigenerazione di un’ex area industriale, per creare un cuore pulsante di connettività e riflettere sulle sue relazioni con la comunità locale. I risultati della Call for Ideas rappresentano una stratificazione di voci da cui estrarre… l’equilibrio.” 

Immagine in apertura: Chiiiesi di CMJC
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Quando il design si fa pieghevole

Quando nel 1984 Renato Pozzetto ne “Il Ragazzo di Campagna” filma l’iconica scena del monolocale in cui tutti gli elementi domestici sono pieghevoli in un’ironica riflessione sulla vita di città, non avrebbe forse immaginato che in futuro la nostra quotidianità sarebbe stata profondamente popolata da questa idea progettuale.

Oggi, d’altronde, ci svegliamo in letti che spesso si richiudono in divani, viaggiamo verso il lavoro su mezzi di locomozione elettrica pieghevoli, come bici o monopattini. Chi usufruisce dei mezzi pubblici, poi, lo fa estraendo abbonamento o carte contactless da portafogli pieghevoli, prima di sedersi davanti a laptop anch’essi foldable. Se il tempo libero è scandito dalla lettura, ci troviamo di fronte ad alcuni dei primi e più classici esempi di design pieghevole, mentre la fetta di pizza piegata a metà consumata nella pausa pranzo ci ricorda che l’uomo si orienta quasi istintivamente verso questa soluzione. Per non parlare dello strumento essenziale alle nostre attività giornaliere, dal lavoro all’intrattenimento, ovvero lo smartphone anch’esso oggi diventato pieghevole, come il nuovissimo Honor Magic VS.

Eppure, la storia del design pieghevole affonda radici in un passato anche molto remoto. Ecco perchè, alla luce delle nostre pratiche contemporanee, merita di essere riscoperta.

Quando nel 1971 Brionvega lancia la sua campagna pubblicitaria “Dimensioni Brionvega”, che presenta in ordine di grandezza tutti i suoi prodotti, a catturare l’attenzione del pubblico è – per assurdo – il più piccolo e apparentemente celato dei suoi design: la radio TS207. 

È colorata, compatta, maneggevole, ma soprattutto pieghevole. Una soluzione progettuale che la rende un instant classic, che oggi serve a ricordarci come la storia del design sia attraversata da piccole grandi rivoluzioni pieghevoli.

È come se ogni generazione avesse la sua icona di design pieghevole entrata a fare parte della quotidianità, plasmando memorie e legandosi inevitabilmente all’evoluzione del nostro costume. Si pensi, per esempio, ai paraventi che hanno segnato, per decenni, una società in cui la nudità era tabù, anche nella vita coniugale, diventando oggetto di arredo spesso esotico ma anche custode di intimità e miccia, di fantasie e seduzione.

Honor Magic VS

Se chi è cresciuto a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 associano la radio TS 207 alla giovinezza trascorsa a cercare la giusta frequenza, per scoprire il risultato di una partita o ascoltare la propria canzone del cuore, per un altro paio di generazioni il design pieghevole diventa la madeleine proustiana che riporta istantaneamente a galla i pomeriggi passati a giocare con le console portatili Nintendo, come il Gameboy Advance SP (2003), DS (2004) e 3DS (2011). 

Analogamente, il telefono Grillo del 1967 di Zanuso e Sapper per Siemens racconta di tempi in cui si aspettava per ore attaccati alla cornetta per la telefonata di una cotta giovanile, mentre i flip phone a fine anni Novanta e metà Duemila, ci ricordano dei primi disattesi SMS romantici, agli albori della telefonia mobile. 

D’altronde la pieghevolezza è un attributo che porta necessariamente con sé il concetto di trasportabilità, quello che oggi chiameremmo “on the go”. Una vocazione che risponde alle necessità dell’uomo, nomadico sin dall’alba dei tempi. Ecco che la mobilità urbana è oggi costellata di monopattini elettrici e biciclette pieghevoli, come quelle di Brompton e Tenways.

Cambiano le tecnologie impiegate, i gusti e i device, ma l’attitudine progettuale rimane immutata. Un gioco, antico e semplice, come quello degli origami diventa così ispirazione per l’omonimo termo-paravento di Alberto Meda, prodotto da Tubes.

Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione, tanto funzionale quanto iconografica. 

Il nuovo Honor Magic Vs, nella miglior tradizione del design pieghevole, accoglie infatti una duplice sfida, ovvero quella di offrire una superficie estesa tanto di lavoro quanto di intrattenimento, pur rispondendo alla necessità del pubblico d’oggi di fare ritorno a device compatti e maneggevoli, dopo anni di iperboliche escalation di dimensioni. 

Con uno schermo ampio, sia aperto che chiuso, si qualifica come lo smartphone che va incontro alle esigenze dello scrittore o del lavoratore in viaggio, ma anche di chi desidera un telefono che sia compagno di intrattenimento, per la lettura e la visione di video. 

Honor Magic VS
Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità.

Lo sviluppo progettuale è infatti tra gli elementi più sorprendenti del telefono che, riducendo le componenti strutturali a 4 dalle 92 della precedente generazione, può fare affidamento su una cerniera superleggera che assicura fino a 400.000 chiusure, ovvero una media di 100 al giorno per più di dieci anni. 

D’altronde non è difficile pensare a quello che può essere considerato un suo antenato, cioè il libro, con la relativa evoluzione delle tecniche di rilegatura. Ma anche il quotidiano, pensato per essere letto, piegato, trasportato in mano, sotto il braccio o nella tasca della giacca. Eppure il telefono è oggi anche un juke-box sempre a portata di mano, evoluzione – si potrebbe sostenere – delle fonovaligie, come quelle Phillips o Lesa, che per prime consentirono di ascoltare i supporti in vinile anche fuori dalle mura domestiche attraverso un sistema di custodie, maniglie e cerniere. 

Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità. Si pensi alla sedia, un must dell’interior design diventato poi icona pop quando sottratta alla scrivania dei giudici e utilizzata, per esempio, negli incontri di wrestling. 

La sedia, cambiando nella forma e nei materiali, ha infatti continuato a incarnare un classico oggetto di design pieghevole, capace di armonizzare funzionalità e ricerca estetica attraverso i secoli. Ci sono quelle lignee del XVI secolo, come quella che Lina Bo Bardi portò con sé in Sudamerica per arredare la Casa de Vidro a San Paolo del Brasile, ma anche quelle da campo nate per scopi bellici e diventate icone del design, come la Tripolina di Joseph B. Fenby, a sua volta ispiratrice della Kenya di Vico Magistretti, seppur non foldable.

La Multichair di Joe Colombo per B Line
Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione tanto funzionale quanto iconografica.

E, ancora, la tradizionale sedia da regista, fonte di un’iconografia intramontabile che associamo – tra gli altri – a Federico Fellini, la Multichair di Joe Colombo per B Line, o la Plia di Giancarlo Piretti, forse la più versatile e riconoscibile tra queste sedute. 

Corsi e ricorsi del nostro costume, come le porte pieghevoli che distinguevano molte reggie e ville nobiliari tra ‘500 e ‘800, poi rilette e stravolte da Klemens Torggler con la sua Flip Panel Door.

Gli interni, si sa, sono anche una questione di moda. La fashion industry non poteva, infatti, esimersi dal rendere la tecnologia pieghevole un suo cardine. Dalla borsa Bao Bao di Issey Miyake e dalla storica Pliage di Longchamp, alle calzature Furoshiki di Vibram. Non è certo un caso, d’altronde, se i pantaloni migliori sono quelli con la piega.

Come dimenticarsi, poi, di occhiali da sole come i Persol 714, nati come accessorio pieghevole e strettamente funzionale per i tranvieri di Torino negli anni ‘50 e poi elevati a icona atemporale di stile da Steve McQueen ne “Il Caso Thomas Crown”.

Pieghevole potrebbe essere anche la società del futuro, come suggerisce la visione distopica dell’autrice Hao Jingfang, che con il suo “Pechino Pieghevole” (2012) immagina una metropoli piegata in tre parti divise per classe sociale, al fine di gestire al meglio le ormai scarse risorse del pianeta. 

Oggi, in una società che ha così tanto assimilato le tecnologie pieghevoli quasi da non rendersene più conto, ripartire dallo smartphone – estensione tecnologica della nostra coscienza – è importante per riaccendere un discorso su questa filosofia progettuale, e anche di vita. E Honor ha appena posto un importante nuovo tassello per la sua evoluzione. 

Scopri di più su Honor.com

Illustrazioni di Davide Abbati


I robot aerei che costruiranno oasi utopiche sui nostri pianeti gemelli

Quando il Professor Fabio Gramazio ha cominciato a costruire un modello in scala della sua torre nel cielo con l’aiuto di una flotta di droni quadrirotori intelligenti e interconnessi, il suo sogno era quello di creare un avamposto utopico che si librasse nel cielo, racconta.

Cofondatore di Gramazio Kohler Research, uno dei più importanti laboratori di robotica per l’architettura presso il Politecnico federale di Zurigo (in tedesco Eidgenössische Technische Hochschule, o ETH), Gramazio ricorda di aver avuto un’epifania non appena la NASA ha dato il via alle prove di volo del drone-elicottero Ingenuity sulle dune arancioni di Marte: un giorno, i suoi robot aerei potrebbero contribuire alla creazione dei primi insediamenti umani sul Pianeta Rosso.

La struttura celeste costruita dai droni quadrirotori di Gramazio e le scoperte fatte dal drone-elicottero durante i voli su Marte rappresentano dei grandi passi in avanti in termine di “radicali speculazioni tecnologiche”, dice, e in futuro potrebbero interagire tra di loro.

Droni quadrirotori dotati di intelligenza artificiale lavorano alla costruzione della futuristica Sky Tower durante la mostra Flight Assembled Architecture al FRAC Centre di Orléans, allestita da Gramazio & Kohler e Raffaello D’Andrea, in collaborazione con ETH Zurich© François Lauginie
Marte orbita lungo il limite esterno della zona abitabile del sistema Solare, ma potrebbe essere terraformato da squadroni di robot grazie alla costruzione di cupole protettive.

L’architetto, programmatore informatico ed esperto di robotica Gramazio ha incantato il mondo dell’architettura durante l’undicesima Biennale di Venezia, quando il suo robot-artigiano R-O-B ha costruito un ondulato labirinto di mattoni, la cui geometria surreale e sinuosa ricorda i grafici di Einstein sulla curvatura dello spazio-tempo determinata dalla forza di gravità. Quest’anno, il suo team del laboratorio svizzero torna a Venezia per presentare DFAB House, un’eterea e luminosa struttura a tre piani interamente costruita da robot.

Gramazio aggiunge inoltre che i droni aerei offrono ancora più possibilità nel campo dell’architettura rispetto ai loro cugini di terra. Quando si tratta di cantieri all’avanguardia, dei droni volanti che possono volare e atterrare con la precisione di un colibrì potrebbero surclassare non solo i robot terrestri, ma anche i più abili costruttori umani, i quali necessitano di impalcature e reti di sicurezza durante la costruzione di grattacieli.

Il Professor Gramazio ha recentemente presentato la sua torre celeste in Giappone, durante la mostra “Future and the Arts: AI, Robotics, Cities, Life – How Humanity Will Live Tomorrow” al Mori Art Museum. Il museo, una vetrina globale per l’arte sperimentale, l’architettura, l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e la cibernetica, puntava a mettere in luce le ipertecnologie che stanno trasformando il pianeta in vista delle Olimpiadi di Tokyo. Ancora prima di questo, Gramazio ha schierato la sua flotta alata per costruire un prototipo di torre tra le nuvole per l’installazione “Flight Assembled Architecture” presso il FRAC Centre in Francia.

Un sofisticato modello della struttura è stato creato digitalmente dal team di Gramazio grazie al software Rhino, che è poi stato perfezionato affinché potesse inviare “cianografie” e intricate istruzioni per la costruzione agli elicotteri che collaboravano alla realizzazione del progetto.

Il professor Raffaello D’Andrea, l’ingegnere e inventore italo-svizzero dell’ETH che ha collaborato con Gramazio per perfezionare l’esperimento di costruzione aerea, ha ideato un ingegnoso sistema di controllo del traffico aereo in un “aerodromo” costruito all’interno del suo laboratorio.

Durante la stessa mostra in Francia, un sistema di controllo del traffico aereo in miniatura impedisce che i droni quadrirotori che collaborano alla costruzione di una città utopica collidano tra di loro.
© François Lauginie

Un sistema di motion capture – costituito da una grande quantità di telecamere Vicon che sorvegliavano l’eliporto in miniatura, i droni e la torre in espansione – inviava aggiornamenti al modello in costruzione. Ogni drone quadrirotore, mentre trasportava avanti e indietro moduli di 30 centimetri secondo gli ordini del caposquadra digitale, registrava la scena con la propria videocamera, trasmettendo flussi di immagini che avrebbero poi accolto i visitatori all’entrata della mostra.

I robot volanti hanno assemblato la torre – la cui forma ricorda una tromba d’aria sospesa nel tempo – in maniera quasi impeccabile, e Gramazio dice che punta, un giorno, a costruire una versione gigantesca dello stesso progetto che si stagli nel cielo per più di mezzo chilometro.

L’idilliaca Sky Tower di Gramazio, costruita da aviatori robotici, si librerebbe nel cielo. Immagine per gentile concessione di Gramazio & Kohler e Raffaello D'Andrea in collaborazione con ETH Zurich

La conquista dell’aerospazio da parte degli architetti, riflette Gramazio, è un sogno che risale almeno ai tempi di Leonardo da Vinci, i cui progetti di futuristiche macchine volanti, automi cavalieri e città sull’acqua hanno ispirato i visionari di tutti i tempi.

Questa schiera di progettisti sognatori è cresciuta esponenzialmente nell’ultimo secolo, dice Gramazio, con inventori come Buckminster Fuller e le sue cupole geodetiche che hanno ispirato numerosi adepti a proporre la costruzione su altri pianeti di città protette da grandi cupole.

Gli scienziati della NASA e dell’Università di Harvard hanno condotto numerosi esperimenti sulla progettazione di rifugi sicuri per l’essere umano su Marte, e hanno scoperto che, utilizzando materiali schermanti simili a serre e strati di aerogel di silice, sarebbe possibile costruire delle oasi sicure per la vita umana nei deserti congelati della zona equatoriale del Pianeta Rosso.

Robin Wordsworth, lo studioso di Harvard che ha guidato la ricerca, ha detto durante un’intervista che la creazione di cupole a doppio strato in aerogel di silice e Kevlar ad elevata resistenza sopra le basi di Marte porterebbe la temperatura all’interno di queste oasi a più di 55 gradi Celsius – quindi ben oltre il punto di fusione del ghiaccio -, lascerebbe passare abbastanza luce da provocare la fotosintesi e bloccherebbe le pericolose radiazioni ultraviolette.

Robot aerei e rover autonomi potrebbero costruire le prime cupole protettive e i primi insediamenti umani sul Pianeta Rosso attualmente congelato. Immagine per gentile concessione della NASA

Nel suo libro “The Robotic Touch: How Robots Change Architecture”, il Professor Gramazio delinea i suoi progressi nell’addestramento di agili squadre aeree che, a mezz’aria, riescano a fondere leggere barre in moduli triangolari super resistenti che potrebbero essere usati per costruire cupole geodetiche.

Le dimostrazioni tecnologiche di volo condotte tra i fantasmi dei laghi e dei canali che un tempo animavano Marte, prevede Gramazio, potrebbero spianare la strada a una nuova era di architettura interplanetaria.

Mentre elicotteri e rover sempre più autonomi vengono potenziati con intelligenza e visione artificiali, Gramazio e i suoi colleghi degli altri laboratori e centri di ricerca all’avanguardia, tra cui Foster + Partners e Hassell, immaginano sciami di robot-artigiani intelligenti che collaborano alla costruzione di cupole e abitazioni su Marte, il tutto prima dell’arrivo dei primi astronauti.

Tuttavia, le prime fasi di questa corsa ai robot-razzo capaci di costruire architetture su altri pianeti si svolgeranno in un luogo più vicino: la Luna.

Con l’Agenzia Spaziale Europea, la NASA, SpaceX, Roscosmos e la Cina che si affrettano a perfezionare i piani per inviare veicoli spaziali sulla Luna prima di spingersi verso Marte, i crateri della sfera argentea potrebbero presto essere trasformati in laboratori per testare le migliori tecniche di creazione di colonie.

L’ESA ha persino proposto di fondare un idilliaco Villaggio Lunare aperto ad astronauti e architetti, programmatori e artisti di tutto il mondo, e sta finanziando una serie di ricerche su questa prima fase del viaggio lunare. Un team dell’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo, Svizzera – uno dei più importanti istituti universitari politecnici del mondo – sta portando avanti lo studio dell’ESA per costruire, tramite i robot, delle cupole e piattaforme di atterraggio per veicoli spaziali usando rocce lunari e regolite accumulatesi ai bordi dei crateri in seguito all’impatto di grossi meteoriti.

Ma è solo su Marte che i robot alati si uniranno ai loro colleghi terrestri per creare rifugi per la vita umana su un nuovo mondo. Mentre gli elicotteri non riuscirebbero a volare su una luna priva di aria, “gli esperimenti di volo in elicottero su Marte dimostrano che c’è davvero abbastanza atmosfera per volare su Marte”, dice Gramazio.

Sciami di droni, collegati con i loro gemelli digitali sulla Terra tramite una piattaforma cloud, potrebbero trasformare le dune di Marte in piste di atterraggio dello spazioporto ancora prima dell’arrivo degli astronauti. Immagine per gentile concessione della NASA

Havard Grip, capo pilota di questo primo velivolo marziano e tecnologo di robotica del Jet Propulsion Lab della NASA in California, dice in un’intervista che le future generazioni di elicotteri contribuiranno a creare le condizioni per la colonizzazione di Marte.

Dotati di visione e mobilità sovrumane, i droni più avanzati andranno in avanscoperta per i primi esploratori che sbarcheranno sul nostro pianeta gemello. Questi compagni alati, aggiunge, aiuteranno anche gli astronauti nel trasporto aereo di attrezzature “dal campo base alle spedizioni sul campo”.

Fabio Gramazio afferma che i voli estremamente “cool” del drone della NASA inaugurano una nuova era per l’architettura in cui progettisti edili, esperti di robotica, ingegneri aerospaziali e inventori-sognatori uniscono le forze per creare le strutture di base per una nuova civiltà che fluttua lungo il limite esterno della zona abitabile del sistema Solare.

Marte orbita lungo il limite esterno della zona abitabile del sistema Solare, ma potrebbe essere terraformato da squadroni di robot grazie alla costruzione di cupole protettive. Immagine per gentile concessione della NASA

Gli scienziati e gli ingegneri della NASA hanno registrato i progressi e gli adattamenti apportati al velivolo extraterrestre Ingenuity, in linea con la fisica marziana, in un susseguirsi di studi – come l’affascinante “Mars Helicopter Technology Demonstrator” di cui Havard Grip è coautore.

Queste scoperte potrebbero a loro volta innescare un fiume di nuove invenzioni da tutto il mondo mirate a raggiungere Marte. Dopo aver esaminato le cronache dei voli di prova della NASA, il Professor Gramazio è certo che i suoi robot aerei e la loro IA in continua evoluzione potranno essere messi a punto per arrivare a volare e costruire sulle dune di Marte.

Sicuramente, aggiunge, i fondamenti utopici dell’architettura assemblata in volo accompagneranno questi droidi nella loro odissea orbitale verso Marte.

Influencer virtuali: come le pop star digitali hanno conquistato le masse

Nell’acclamatissimo romanzo di fantascienza La Materia del Cosmo (2008), vincitore del Premio Hugo, lo scrittore cinese Liu Cixin immagina il protagonista, l’astronomo Luo Ji, immaginare a sua volta la sua anima gemella. Luo Ji inizia costruendo il suo volto, “i suoi cibi preferiti, il colore e lo stile di ogni vestito nel suo armadio, le decorazioni sul cellulare”. Si ritrova a spiarla mentre bambina insegue un palloncino che vola via, cammina sotto la pioggia, guarda il soffitto nella sua prima notte al college. Finché un giorno all’improvviso, mentre sono in biblioteca, lei alza lo sguardo e gli sorride. È stato Luo Ji a “chiederle” di farlo? O come gli domanderà la sua partner umana prima di andarsene, «lei è viva, non è così?»

La storia d’amore tra noi esseri umani e gli esseri inesistenti, assenti e perfetti creati dalla nostra mente, è una storia antica, fatta di sospiri, che acquista nuovi toni se dalla scrittura si passa alla modellazione 3d e dai libri stampati ci si sposta sui social media. Proprio negli stessi mesi in cui Liu Cixin scriveva La Materia del Cosmo, in Giappone nasceva un’altra ragazza ideale, che avrebbe rivoluzionato la storia del transmedia marketing, surclassando le aspettative dei suoi stessi ideatori, e diventando una sorta di sogno collettivo o progettazione partecipata di idol virtuale: Hatsune Miku.

Foto da un’esibizione live di Hatsune Miku. Per una migliore visibilità l’ologramma di Miku è gigante rispetto alla statura umana.

Hatsune Miku nacque come il primo della serie di Vocaloid di Crypton Future Media: personaggi fantastici ideati per incarnare il prodotto vero e proprio, un sintetizzatore vocale.

Come succede per l’AI nella trama del film Her (2013), altra anima gemella immaginata, la storia perturbante di Hatsune Miku è la storia di una mascotte che prende vita, compiendo un enorme salto evolutivo nel momento in cui entra in contatto con l’internet.

Miku era stata pensata per pubblicizzare il sintetizzatore tra gli addetti ai lavori, ma il software, che permetteva a qualsiasi utente di creare un brano musicale con la voce della loro eroina, fece sì che Miku diventasse presto un meme. A pochi mesi dal lancio era già possibile trovare online ogni sorta di remix, cover, e fan art, generati da utenti provenienti da tutto il mondo.

Crypton si ritrova per le mani i diritti d’immagine di una dea, che nel 2009 si esibisce nel suo primo concerto sotto forma di ologramma. Da allora Miku ha cantato con Lady Gaga e Pharrell Williams, è stata ospite di David Letterman, e qualcuno è pure riuscito a lanciarla nello spazio. La figura ubiqua, eterna, instancabile di Miku è stata utilizzata da Crypton per pubblicizzare una miriade di prodotti commerciali: dall’automotive e alla telefonia, dal food all’industria dei cosmetici, Miku si è provata capace di vendere a Otaku provenienti dal Giappone e oltre, non solo la sua voce, ma qualsiasi cosa.

Prima che altre media company si accorgessero del potenziale di Miku sono trascorsi alcuni anni. O più esattamente, sono trascorsi alcuni anni prima che i sogni e immaginari del resto del mondo che ha accesso a internet si trasferissero sui social, e che l’utente medio occidentale arrivasse a un grado di intimità con il digitale che si avvicinasse anche lontanamente a quello degli Otaku, dando vita a una nuova fetta di marketing, quella degli influencers virtuali.

Uno dei primi salti evolutivi è quello di Lu do Magalu, e ha luogo dall’altra parte del Pacifico, in Brasile. Lu nasce nel 2013 come anchorman virtuale per il canale YouTube di Magazine Luiza, una delle più grandi catene di vendita al dettaglio brasiliane, mentre la sua prima apparizione sul canale Instagram (IG) dell’azienda risale al 2015.

La personalità di Lu, sepolta da una sequela di post che alternano il cibo per cani, frullatori per lo zucchero filato, deodoranti, lucidalabbra e TV a schermo piatto, è un mostruoso ibrido tra vecchio e nuovo, un CGI allo stato brado, ripescato da una sigla pubblicitaria televisiva e buttato alla meno peggio sui social, condannato dai suoi padroni, come tanti dei suoi antenati illustrati o umani, dal Marlboro Man, a Betty Crocker, o al bambino della Kinder, a una vita di marchette. Ma nonostante tutto questo, anzi forse proprio per questo, Lu è ad oggi la virtual influencer più seguita al mondo.

Lu nel suo primo post emozionale, in occasione dell’eliminazione del Brasile dai gironi di selezione dei mondiali di calcio del 2018. Dal 2018, seguendo forse l’esempio di Lil Miquela, Lu mostrerà di più la sua personalità, soprattutto sul suo canale TikTok.

Per quanto agli antipodi, Hatsune Miku e Lu conservano un tratto comune e fondamentale. I fan le amano perché sono dichiaratamente finte.

I fan adorano Lu perché la considerano la versione semplificata di sé stessi, un essere subumano che lentamente acquisisce una struttura, seguendo il loro ritmo di apprendimento. È così che negli anni Lu è riuscita a prendere per mano migliaia di utenti, per lo più brasiliani, e a portarli al di là della sponda, convertendoli loro malgrado all’amore interspecie.

I fan adorano Miku perché è al di sopra dei limiti umani. Amare Miku significa fondersi con lei e il resto del fandom in un eden dove tutto è possibile: quando Miku canta di avere le ali, due ali stupende compaiono dietro la sua schiena. Ai concerti appare come un ologramma gigante che ricorda l’ultimo Blade Runner, una dea sognata capace di orbitare fino ai bordi dell’atmosfera del pianeta Venere.

Al contrario, gli utenti hanno dimostrato di odiare i 3d influencer troppo umani. Un rifiuto quasi fisico, che si alterna tra la rabbia di essere stati ingannati, la paura di essere un giorno sostituiti da qualcosa di simile ma migliore, e forse ancor più la delusione di vedere «la luce cruda della realtà», come scriverebbe Liu Cixin, stagliarsi impietosa su qualcosa che dovrebbe essere fantastico, un’alba indesiderata.

Il primo caso di shitstorm per eccesso di realtà è piovuto su un povero composto CGI di nome Aimi Eguchi, e risale al 2011. Uno scandalo tutt’ora ricordato nel mondo delle idol, perché coincide con il sommo tradimento, il tradimento dei fan.

Eguchi viene presentata, in foto, come nuovo membro del gruppo J-pop delle AKB48. La numerosissima girl band è l’attrazione principale di Akihabara, la Città Elettrica, un quartiere di Tokyo, composto quasi esclusivamente di negozi di action figure, carte collezionabili, anime, hentai, manga, il paradiso degli Otaku. Nel teatro delle AKB48 i fan hanno la possibilità non solo di seguire, come si faceva nei reality show e oggi sulle IG e TikTok story, ma anche di «incontrare vere idol ogni giorno».

Dalla rivista Weekly Playboy, il Playboy giapponese, una delle foto del servizio che presenta Eguchi Aimi, come nuovo membro umano del gruppo AKB48 ai fan.

Dopo essere apparsa sulla rivista Weekly Playboy, presentata come “Ultimate Love Bomb”, e in uno spot televisivo per l’azienda dolciaria Glico, Aimi inizia a destare sospetti sugli attentissimi fan, desiderosi di incontrarla dal vivo. Glico è infine costretta a rivelare la brutale verità: l’arma letale progettata per abbattere definitivamente il tenero cuore di Otaku, è in realtà un Frankenstein, composto in CGI utilizzando le caratteristiche di sette AKB48 umane. Un puzzle realizzato con i pezzi migliori, una storia macabra che ci riporta alla mente le frasi del filosofo e psicanalista Lacan: «Ti amo, ma poiché inspiegabilmente amo in te qualcosa più di te, l’oggetto piccolo (a), ti mutilo».

Immagine dalla campagna di smentita della ditta dolciaria giapponese Glico. L’identità fittizia di Eguchi Aimi è stata composta usando le “parti migliori” di altre sei componenti umane del gruppo AKB48.

L’elefante che finora era rimasto nascosto tra le righe, i glitter e i cuoricini, inizia a incombere su questo breve articolo così come sul giovane fenomeno dei 3d influencer. Che le idol siano umane o virtuali, in questa storia d’amore tra idol e fan, tra avatar e utente, esisterà sempre uno Iago, un Don Rodrigo, un terzo incomodo: la media company.

Si dice che le media company schiavizzano le idol virtuali. Si dice anche che le idol virtuali sono create dalle media company perché schiavizzare un idol virtuale è più facile che schiavizzare un idol umana. Si dice che le media company abbiano creato le idol virtuali al fine di custodire ad eternum la chiave ultimativa del marketing: la seduzione. Si dice ma dove si dice? Sul web. E se pensavate che questa storia d’amore fosse “complicated”, eccoci ora fare un passo dentro a un livello ulteriore di complessità dello storytelling transmediale: si è detto sul web e le media company hanno ascoltato, e reagito di conseguenza. Si potrebbe descrivere così la nascita di Lil Miquela.

Lil Miquela e Blako, altro prodotto di Brud, posano insieme ai loro due creatori, Trevor McFedries e Sara DeCou, in una foto dall’account personale di Lil Miquela, @lilmiquela. Nel post, che risale al luglio 2018, Miquela dichiara di averli perdonati.

Mentre in Giappone Kizuna AI (2016), la prima e più popolare virtual YouTuber di tutti i tempi, inaugurava il suo canale e Louis Vuitton faceva indossare i suoi capi a Lightning, l’avatar di Final Fantasy, consacrando così i testimonial virtuali al mainstream, su IG veniva postata, da mani allora ignote, la prima timida immagine di Lil Miquela.

Una delle billboard della campagna “Series 4” di Louis Vuitton, per il lancio della sua collezione primavera/estate 2016, che vede come protagonista e unica testimonial Lightning, il personaggio femminile del role playing videogame Final Fantasy XIII.

I post sull’account IG di Lil Miquela, presentata come una diciannovenne statunitense di origini Brasiliane, sono rari nel primo anno, ma a fine Giugno 2017 succede qualcosa. Miquela inizia a farsi sentire quasi tutti i giorni e dopo solo due mesi cambia look, tramutandosi in una versione più elaborata e costosa di sé stessa. Quella settimana esce il suo primo singolo, che inaugura la sua presenza su YouTube e Spotify, e che porta Billboard a compararla ai Gorillaz e a Hatsune Miku.

 

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Da questo momento è evidente che dietro di lei ha preso forma una squadra di professionisti, da 3d artists, copywriters e producers musicali, a esperti di marketing e social media managing. Miquela sembra lanciata verso una carriera di musicista e testimonial, si impegna in campagne di crowdfunding, compaiono i primi product placements, e una collaborazione con Paper Magazine che «rompe l’internet». Ma sarà un “IG drama” a farla entrare finalmente nel rango del milione di followers e a tracciare la netta differenza tra lei e le idol virtuali giapponesi.

 

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Il 17 Aprile 2018 Miquela saluta i suoi fan dicendo che «molto prima di quanto pensano» uscirà un suo nuovo brano. Un’anticipazione usata spesso per attirare l’attenzione dei followers e tenerli incollati ai post successivi. Il giorno dopo però, colpo di scena, il suo account viene hackerato da un’altra 3d Influencer: Bermuda. Le 48 ore che seguiranno sono un capolavoro del transmedia storytelling, e racchiudono tutti gli insegnamenti derivati dalle esperienze finora raccontate, tra post-truth, whitewashing e finzione nella finzione.

Bermuda è la perfetta antagonista di Miquela, sostenitrice di Donald Trump, bianca, bionda e amante dei mall. L’account di Miquela viene invaso dai post di Bermuda. Bermuda accusa Miquela di aver ingannato i fan, fingendosi una persona reale. Nel frattempo la culture war che sta dividendo il social web, e che vede schierati i trumpisti e suprematisti bianchi da un lato e i liberali sostenitori del rispetto per le minoranze dall’altro, si ripete nei commenti ai post e nei blog che diffondono la notizia, in un misto tra performance e realtà, facendo salire alle stelle i followers di Lil Miquela.

 

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Dopo 48 ore Miquela riesce a riprendere possesso del suo account, e confessa: non è umana, i suoi padroni le hanno mentito. Rivela anche chi sono: una piccola agenzia di nome Brud, fondata dal DJ e producer Trevor McFedries e Sara DeCou, la cui vita prima di Brud è del tutto avvolta nel mistero. Più tardi si scoprirà che anche Bermuda è una creazione di Brud.

Questa operazione, che di fatto corrisponde al lancio di Brud, è un vero e proprio deus ex machina, studiato per sollevare il personaggio di Miquela dalle colpe della media company che l’ha creata. La critica più frequente a cui Miquela era stata esposta, ovvero quella di trarre in inganno molti utenti, soprattutto teenagers, che la credevano una persona vera, viene risolta con una confessione toccante. Lei non sapeva. Il biasimo è scaricato sui suoi creatori, compreso quello di essere stata costruita come uno stereotipo di wokeness, al fine di lucrare sull’immagine delle donne di colore. Mostrandosi in disaccordo con le scelte di Brud, Miquela raggiunge la falsa autonomia e purezza necessarie per riconquistare il cuore dei suoi fan.

 

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Nell’era della post verità anche le finzioni hanno un doppio fondo. Gli stessi Trevor e Sara sembrano essere dei testimonial, dei personaggi schermo studiati per nascondere chi muove i fili di questo pupazzo virtuale. Come sarà rivelato da Techcrunch: Brud è supportato da vari fondi di venture capital californiani e newyorkesi, tra cui spicca l’Amazon Alexa Fund.

Miquela emancipa sé stessa dalle marchette, mostrando un nuovo modo di fare marketing. Dall’Aprile 2018 gli influencer virtuali, compresa Lu, compiranno un ulteriore salto evolutivo, che ricorda il tentativo di Glico con Aimi Eguchi. Cos’è il disruptive advertising se non una più elaborata forma di tradimento?

 

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Caduta l’esigenza di fomentare il bait da culture war, oggi Bermuda si racconta come una business woman #GirlBoss #MondayMotivation, mentre il suo aspetto da preset renderizzato, rivestito da canotte basic bitch si è tramutato nel look più sofisticato e cutting edge possibile, uno schiaffo agli standard di bellezza umani che Bermuda non ha paura di nascondere. Dopo mesi di simulata indipendenza Miquela ha fatto pace con Brud, mentre la sua fama cresceva, tra collaborazioni con Prada, Calvin Klein e Samsung, a interviste su Vogue, Buzzfeed e Highsnobiety.

 

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L’influenza di Miquela si estende al di là del suo essere una influencer 3d. Seguendo il suo esempio, dal 2017 in poi, l’Olimpo è diventato sempre più affollato, includendo tra gli altri la modella dalle sembianze africane Shudu, figura dibattuta che è costata ai suoi creatori, uomini e bianchi, l’accusa di blackface, o il più riuscito esperimento di Noonoouri, vegana e attenta alla moda sostenibile, oggi testimonial esclusiva di Vogue China e Vogue Me, fino a Imma, la prima versione Made in Japan di IG influencer virtuale, con cui il nostro cerchio si chiude.

Una foto dal profilo personale di Shudu, @shudu.gram. La 3d influencer si presenta come la prima fotomodella digitale al mondo. Il suo creatore, l’inglese Cameron-James Wilson ha fondato Diigitals Agency, la prima agenzia di modelle digitali. Sul sito dell’agenzia è possibile trovare ogni sorta di farfugli sulla valorizzazione della donna africana, ma il fatto che Shudu avesse un padrone, per giunta umano e bianco non è piaciuto a molti.

Il business dei virtual influencers, che per ovvie ragioni ha avuto una forte crescita durante la pandemia, è stimato da Bloomberg a 8 miliardi di dollari per il 2021. Qualcuno ha fondato pure un blog, chiamato Virtual Humans, dove è possibile trovare interviste, classifiche e gossip sui nuovi umani virtuali, presenti e passati. Al di là delle proiezioni di Bloomberg, è ancora difficile prevedere se l’era dei 3d influencer sia destinata a durare a lungo o sia soltanto l’ennesima buzzword spinta dal marketing per generare hype.

Probabilmente un giorno ci guarderemo indietro e figure come Miquela, Shudu, Bermuda, ci sembreranno degli esseri ancora più rudimentali e stereotipati, o forse ci ritroveremo a seguire Lu – che da pochi mesi si è lanciata in opere di sensibilizzazione su temi politici quali le fake news e le teorie della cospirazione – in un’avvincente campagna elettorale per la presidenza del Brasile, un po’ come succedeva nella puntata di Black Mirror, “The Waldo Moment”.

Rimane il dubbio di come sarebbe andata questa storia d’amore se il terzo incomodo, il padrone e carceriere, la media company, non avesse rapito la principessa o avvelenato il principe, o accecato la dea, mutilato l’angelo e via dicendo. Per trovare una risposta, non ci resta che tornare a fantasticare.

Immagine di apertura: Lil Miquela, la influencer digitale creata da Trevor McFedries e Sara Decou, fondatori di Brud.

Silvia dal Dosso è ricercatrice in nuove tecnologie e subculture di Internet. È co-fondatrice del collettivo Clusterduck. Dal 2016 ha avuto modo di entrare in contatto con varie comunità di 3d artist, coloro che hanno il potere di dare una forma digitale ai loro sogni, popolati da corpi e figure asessuate, polisessuate, colorate, bestiali, assurde, brutte, bellissime, prive di senso. Per la stesura di questo articolo si ringraziano in particolare Doreen A. Rios e Mara Oscar Cassiani per i suggerimenti, Francesca Del Bono che ha scovato le prime creature, e Pietro Ariel Parisi aka Superinternet generatore di mondi stupendi.

Basement vs. garage, l’illuminismo del sottosuolo

Was soll ich machen, zum lachen in den Keller gehen…

Cosa dovrei fare, andare a ridere nel seminterrato…

Tobsucht, 1998, band tedesca

In Europa, specialmente in Austria, il Seminterrato è un luogo di ossessioni, da quelle private e sospette a quelle più innocue e utilitaristiche. Alcune persone passano la maggior parte del loro tempo libero (Freizeit) nel seminterrato anziché nei loro salotti in superficie, preferendo al sogno di un conformismo socio-culturale la cruda realtà dell’ossessione e dell’oscurità.

Mentre in Europa si punta a creare costruzioni in legno sostenibili che si innalzano fino alle nuvole, in California ci si affida al cemento per costruire sempre più in profondità. Oggi, la scarsità di beni immobili sta finalmente facendo i conti con i tantissimi edifici a un piano di Los Angeles, portando a una sempre maggiore costruzione di parcheggi sotterranei e di edifici residenziali e adibiti a uffici in cemento a più piani. Inoltre, la California è alle prese con l’incredibile impennata dei prezzi del legno a causa della pandemia. E proprio questo recente cambiamento nei metodi di costruzione, e più in generale le circostanze della vita pandemica, mi spingono a riflettere sul valore delle costruzioni “sotto la terra”. È nella natura di un edificio costruito sotto terra che il materiale da costruzione debba essere adeguato alle condizioni che lo circondano – per esempio si usano materiali più permanenti affinché possano resistere all’umidità, ai terremoti, ai saccheggiatori e agli animali.

Il lato più oscuro del sottosuolo e dei suoi segreti emerge nell’opera di Ulrich Seidl, il cineasta e documentarista austriaco che ci svela le dimensioni umane della cantina come spazio ossessivo. Il suo film, In Cantina (Im Keller) è un documentario del 2014 sulle vite sotterranee degli escapisti del seminterrato. (Il film è stato presentato in anteprima Fuori Concorso durante la 71a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia).

Il lato estremo dell’ossessione delle cantine è ben rappresentato da Josef Fritzl. Negli anni ’70, ad Amstetten, una città della Bassa Austria, Fritzl cominciò ad ampliare la cantina sotto la sua casa di periferia per schiavizzare una delle sue figlie, cosa che fece per più di 24 anni. Fingendo e convincendo tutti che fosse scappata, la violentò più di mille volte, facendole avere sette figli. Uno di loro morì, tre rimasero in cantina, e tre furono ammessi in superficie: per spiegare la loro esistenza alla moglie, Fritzl le raccontò che la figlia li aveva lasciati sulla soglia di casa sua come “trovatelli” affinché lei se ne prendesse cura. Durante il processo, Fritzl sostenne di essere stato un padre premuroso, e di aver portato giocattoli e videocassette in cantina.

A un osservatore esterno, che un tale crimine potesse consumarsi nella sana normalità della periferia austriaca sembrava quasi inconcepibile, ma ci sono prove documentali di altri casi di comportamenti simili avvenuti nei seminterrati di tutta Europa. Un’eccezione a questo stereotipo per me è sempre stato The Pit di Peter Noever a Breitenbrunn, Austria, costruito nel 1970. In questo progetto, l’oscurità di una cantina sotterranea viene annullata portando alla luce lo spazio sotterraneo, uno spazio che adesso è raggiunto dai raggi del sole e si apre al paesaggio circostante. Il sottosuolo inondato di luce può ora ricevere l’interazione umana, creando un finale aperto e luminoso al posto di una conclusione altrimenti oscura. Questo progetto, che comprende anche i Conversation Pits di Walter Pichler, è diventato nel tempo un esempio positivo di come si possa sfuggire alla tirannia della convenzione donando all’intenzionalità di un uso programmato un nuovo ottimistico inizio.

Diversamente dalla più cupa realtà austriaca, nella soleggiata West Coast e in America centrale i garage sono luoghi di ossessione ed evasione, dalle garage band (Nirvana), all’invenzione di computer di largo consumo (Apple), ai frequenti suicidi per asfissia da monossido di carbonio. Nei garage si è liberi di abbandonare i comportamenti convenzionali e lasciare che quelli estremi prendano il sopravvento. Tuttavia, essendo in superficie, gli edifici americani sono più esposti a sguardi indiscreti, e dunque non raggiungono mai lo stesso livello di clandestinità degli scantinati più bui. Anche le soffitte, altro potenziale luogo oscuro, sono spesso compromesse perché rese nella maggior parte dei casi spazi superflui usati solo per l’installazione di canali e condotti per impianti di climatizzazione piuttosto che per custodire segreti. Oggi i californiani possono celare i loro segreti nel vasto universo dei magazzini, ma questo è un altro discorso – che i reality show non hanno ancora del tutto sfruttato.

The Underground Gardens di Baldassare Forestiere, Fresno CA

Agli inizi del novecento, il sole della California e il suo clima secco ispirarono l’immigrato siciliano Baldassare Forestiere a creare un agrumeto dietro la sua modesta casa nei pressi di Fresno, ma ben presto scoprì che le frequenti annaffiature rendevano le radici dei suoi alberi così pesanti da farli sprofondare sei metri più in basso, in uno strato di argilla già infossato. Dopo che la maggior parte degli altri alberi furono sprofondati, Forestiere iniziò a collegare tra di loro le profonde buche, creando una rete di tunnel e stanze sotterranee. Gli alberi prosperarono, ma il suo matrimonio andò in pezzi perché passava troppo tempo sottoterra. Un imprenditore edile lo convinse a scavare un vialetto per trasformare questo paradiso sotterraneo in un fresco motel. Oggi è considerato un monumento storico, e una targa commemorativa celebra lo “spirito creativo e individualista non vincolato dalla convenzionalità” dei Forestiere Underground Gardens. Io ho visitato questi giardini alla fine degli anni ’70, e sono rimasto colpito dall’ottimismo e dalla vitalità degli alberi d’arancio che sbucano dall’oscurità per abbracciare la luce.

Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani

Il mio primo progetto architettonico è stato un edificio sotterraneo sulle colline della Napa Valley nel 1978, in seguito ai miei studi concettuali per un’architettura per una nuova California. Il progetto, 10 Californian Houses, esplorava condizioni di vita estreme prive di caratteristiche rappresentative come piante o facciate convenzionali. Qui le case, per lo più costruite nel terreno, offrono una chiave di lettura di diverse ossessioni californiane. E così c’è una casa per un corridore, condomini per sommozzatori e surfisti, una casa per due fratelli lottatori, e un hotel per alpinisti scolpito in una mitica formazione rocciosa. Questa esplorazione mi ha portato al mio primo cliente, il quale voleva costruire un fienile in cui vivere e un deposito sotterraneo in cui custodire tutti i vestiti indossati dalla famiglia. Questa estrema contraddizione programmatica mi ha spinto a suggerire un edificio costruito dentro al pendio di una collina – la collezione di vestiti completamente sommersa nel terreno, mentre l’abitazione emerge dal suolo e raggiunge i raggi del sole. (Goldman/Ashford Residence, St Helena, 1978/Batey&Mack)

Mentre le ossessioni più oscure possono prosperare in un mondo senza luce naturale, vorrei ora guardare il lato più positivo e ottimista del sottosuolo. Le attuali tendenze edilizie della West Coast riflettono le preoccupazioni culturali e globali del cambiamento climatico, ed è semplicemente prudente vedere la terra calda come una compagna in questo viaggio verso un minore impiego di energia per il riscaldamento e il raffreddamento delle temperature. In un recente viaggio all’insegna del surf nella penisola di Bassa California ho visto diversi edifici che usano la forza bruta del cemento come nuova espressione formale e di comfort.

Goldman /Ashforth Residence, Batey& Mack, 1980,St. Helena, Napa Valley CA

A Todos Santos, in Bassa California del Sud, Taller Terreno, Kevin Wickham e Mark Cruz hanno costruito una casa sotterranea completa di laboratorio di ceramica su un terreno leggermente in pendenza che si affaccia sull’Oceano Pacifico. La struttura di cemento a vista fa un timido capolino fuori dal suo abbraccio terrestre, restando fresca d’estate e calda d’inverno. Entrando dall’alto attraverso un tetto spoglio, le scale conducono in un ventre protettivo fatto di camere da letto e zone living. La piscina soleggiata e la facciata di vetro esposta a sud creano un interno minimalista e sofisticato, dove le dure pareti di cemento vengono addolcite da mobili eccentrici e surreali opere d’arte in ceramica.

Goldman /Ashforth Residence, Batey& Mack, 1980,St. Helena, Napa Valley CA

Allo stesso modo, il vicino Paradero Hotel, completamente costruito in calcestruzzo, forma un’oasi protetta in un paesaggio altrimenti arido. Progettato da Yashar Yektajo e Ruben Valdez, il complesso abilmente organizzato colloca tutti i servizi per gli ospiti (come la reception, il ristorante, la cucina e la spa) in diverse strutture in calcestruzzo completamente all’aperto. Lo spazio aperto, simile a un’oasi, è circondato da un anello di stanze di calcestruzzo a due piani a cui si accede da scale individuali. L’architettura brutalista e quasi nostalgica del resort è ammorbidita da un concept restaurant Farm to Table, e costringe a passare più tempo possibile all’esterno. L’hotel di lusso fornisce ai clienti poncho e coperte lavorate a mano per le fresche serate nel deserto, e si rivolge agli appassionati di design e di cibo con la sua estetica naturale e grezza. Nei progetti di RIMA, la terra battuta torna ad essere un materiale perfetto per la costruzione residenziale e commerciale. Il complesso artistico Casa Ballena a San Jose del Cabo, progettato da Gerardo Rivero, celebra il prolungamento naturale della terra come materiale da costruzione naturale, come era già successo negli anni 60′ e 70′, quando era il materiale da costruzione fai da te preferito dagli Hippie.

House for two fighting brothers - 10 Californian houses, Mark Mack, 1977, Pamphlet Architecture #2/1980
Peter Noever , The pit 1970-presente / Breitenbrun, Austria

Con questa nuova tendenza ad apprezzare materiali da costruzione naturali ci stiamo avvicinando a un modo più sostanziale di costruire, vicino o dentro al terreno, oppure è solo una nuova visione alla moda del materialismo architettonico? Costruire con materiali più reali e solidi e ricongiungersi con il rigore della prima architettura modernista, creando un’architettura nel suo stato puro e naturale di permanenza aptica è sempre stato un sogno proibito per la maggior parte degli architetti. Il fatto che si stia investendo nel sotterraneo suggerisce non solo una nuova realtà della tecnologia edilizia, ma anche un utilizzo più ottimistico delle dimensioni solitamente nascoste degli edifici. Senza paura dell’oscurità e del sottosuolo, oggi possiamo finalmente abbracciare l’opportunità che questo vecchio materiale ci offre, senza nascondere la testa nella sabbia, ma piuttosto lasciando che la terra calda ci riscaldi, avvicinandoci al suolo, facendoci abbracciare e circondare dal nostro pianeta.

Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani
Paradero Hotel, Yashar Yektajo e Ruben Valdez, 2018-20, Todos Santos, Bassa California del Sud; Foto: Yoshiro Koitani

Architettura Maledetta

Sebbene l’Ansonia e il Cecil condividano le stesse ambizioni di partenza e simili incidenti di percorso, le diverse zone in cui sorgono e l’estrazione sociale degli abitanti li hanno portati a due risultati completamente opposti.

Il Cecil Hotel nel downtown di Los Angeles

La terribile storia del Cecil Hotel, situato nel downtown di Los Angeles, è stata narrata da numerosi documentari “true crime”, tra i quali anche la serie originale Netflix sulla scomparsa di una studentessa universitaria canadese nel 2013. Insomma, la storia di questo hotel è ormai di dominio pubblico, ma possiamo davvero affermare che questo edificio sia maledetto?

Può un’opera architettonica essere talmente “maledetta” da campeggiare sulle prime pagine di tutti i giornali scandalistici? La popolare serie American Horror Story ha realizzato una stagione ispirata ad una recente sparizione avvenuta nell’hotel, e quando si cercano notizie e leggende metropolitane sul Cecil Hotel, ci si imbatte soprattutto nell’elenco delle morti accadute all’interno e nei dintorni dell’hotel, così come in alcuni inquietanti identikit degli ospiti. Forse non è tanto l’hotel in sé ad essere un personaggio in questa sciagurata storia, quanto la zona in cui è situato: la “montagna russa finanziaria” che ha caratterizzato la sua storia, così come la sua trasformazione da hotel a luogo di residenza per gente di passaggio e persone senza fissa dimora basterebbero a giustificarne la cattiva reputazione.

Cecil Hotel, L.A. - Courtesy of Netflix © 2021

Come tante altre strutture alberghiere nel centro di Los Angeles, il Cecil Hotel fu costruito nel pieno del boom economico, precisamente nel 1924, per soddisfare le esigenze legate a un vertiginoso aumento degli abitanti. L’emigrazione verso la California del Sud all’inizio degli anni ’20 è stata la più grande migrazione interna del popolo americano, e così Los Angeles divenne la più grande città della West Coast, scalzando San Francisco. Il tutto avvenne in un periodo in cui la città di Los Angeles stava facendo i conti con una configurazione socio-politica travagliata, che contrapponeva l’emergente classe operaia alla brutalità del capitalismo, e favoriva qualsiasi forma di libera imprenditorialità rispetto alla sindacalizzazione e ai diritti del lavoro.

Con i suoi quindici piani e quasi settecento stanze, il Cecil era uno dei più grandi alberghi della zona, e si poneva come obiettivo quello di competere sul mercato offrendo lusso e comodità mai viste prima. Tuttavia, queste aspettative vennero presto disattese a causa della grave crisi economico-finanziaria del 1929: l’hotel fu costretto a fare scelte più economiche e flessibili, ponendo fine alla sua opulenta ascesa, e anzi trasformandosi in un residence a basso costo. Riducendo il numero di camere e suite e creando bagni e cucine al piano, il Cecil Hotel divenne una casa per i poveri, vista anche la sua vicinanza al distretto di Skid Row, un sottoprodotto della Grande Depressione dove la maggior parte della gente viveva per strada. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che la clientela dell’albergo non fosse più composta da aspiranti imprenditori e star di Hollywood ma da disoccupati, veterani di guerra trascurati e persone in difficoltà che sopravvivevano solo grazie agli aiuti del governo.

Cecil Hotel, L.A. - Courtesy of Netflix © 2021

La situazione fu ulteriormente aggravata dalla chiusura degli ospedali psichiatrici statali in California per decisione del Governatore Reagan, che aveva legami commerciali con gli operatori degli istituti psichiatrici privati, in occasione dell’abolizione del Mental Health Systems Act istituito dal precedente presidente Jimmy Carter. Così, moltissimi californiani mentalmente instabili si aggiunsero al già pericoloso mix di persone che battevano le strade di Los Angeles, nonché nella lista dei potenziali ospiti di un hotel già sulla via del declino. In questo nuovo scenario, la maggior parte dei clienti dell’hotel erano persone senza fissa dimora, bizzarri personaggi in cerca di fortuna e studenti in viaggio con un budget limitato. Per questo, il fatto che due famigerati serial killer alla ricerca di nuove vittime abbiano soggiornato nell’hotel non sembra poi così inverosimile. Si dice che anche il “Night Stalker” Richard Ramirez abbia soggiornato nell’hotel per alcune settimane, quando ancora non viveva per le strade di Skid Row.

Il più noto assassino seriale austriaco di prositute, Jack Unterweger, dormiva nel Cecil Hotel mentre fingeva di essere un giornalista di cronaca nera intento a svolgere ricerche sull’atmosfera letteraria di Charles Bukowski. Nessuno sapeva però che intanto stava uccidendo delle donne. Ma ciò che trovo particolarmente terrificante riguardo a Jack Unterweger è il suo background – ho scoperto che è nato a Judenburg, in Austria, proprio come me. Sua madre era una cameriera austriaca e suo padre un soldato americano, e aveva appena un anno in meno di me. Frequentava la stessa scuola elementare mia e del mio caro amico d’infanzia Fritz, la cui madre era la nostra insegnante di tedesco. Non lo conosco personalmente perché non faceva parte del mio gruppo di amici, ma mi fa rabbrividire pensare che potremmo essere stati nella stessa squadra sportiva o in un gruppo di aiuto della chiesa.

...ho cominciato a dubitare sempre più del mito dell'architettura come strumento di crimine o a vedere un edificio ''maledetto'' come colpevole...

Quando nel 1976 arrivai in California per realizzare il mio sogno nel cassetto, ovvero diventare architetto per Musicisti Rock and Roll (ve ne parlerò in un’altra occasione), il signor Unterweger stava già scontando l’ergastolo per aver ucciso una prostituta in Austria. In prigione scrisse racconti, poesie e un’autobiografia che lo fecero diventare il beniamino della stampa e dell’élite letteraria, la quale presentò una petizione al governo per la sua libertà condizionata, citandolo come caso esemplare di riabilitazione e redenzione. Dopo che il suo avvocato si innamorò di lui, Unterweger scontò un periodo obbligatorio di quindici anni di prigione, al termine del quale gli fu offerto di condurre il proprio show televisivo nazionale. Diventò una celebrità tra l’intellighenzia del suo paese e aiutò la polizia a risolvere crimini in pubblico, il tutto mentre procedeva a uccidere altre undici prostitute – una ceca, sette austriache e tre americane, tutte strangolate durante il suo soggiorno al Cecil Hotel nei primi anni ’80. Si trovava a Los Angeles per indagare su vari crimini, e fu persino invitato a girare in un’auto di pattuglia della polizia come investigatore-ospite, aiutando a risolvere crimini commessi probabilmente proprio da lui.

Per quanto fossi scioccato e al tempo stesso elettrizzato da questa coincidenza personale, ho cominciato a dubitare sempre più del mito dell’architettura come strumento di crimine o a vedere un edificio “maledetto” come colpevole. Nonostante i dettagli raccapriccianti che hanno reso questo hotel una meta del turismo dell’orrore, sono piuttosto le circostanze socio economiche del tempo, nonché la malaugurata riprogrammazione e discutibile gestione della struttura, costellata di incomprensibili passaggi di proprietà, ad aver reso il Cecil un hotel dell’orrore. In altre parole, ho preso in considerazione l’influenza dei fattori sociali nel design, argomento vastamente trattato tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 nelle scuole di architettura progressiste come Berkley e Princeton, e la Teoria dello Spazio Difendibile, che vede i cattivi design responsabili dei mali sociali. Ciò nondimeno, si deve considerare che quello era un periodo caratterizzato da un grandissimo sfruttamento economico e dalla riduzione della rete di sicurezza governativa per una classe di individui già in difficoltà. La società era dominata dal capitalismo, che sta alla base di tutti i valori repubblicani conservatori americani, dove solo i più forti, che vivono in comunità residenziali chiuse, si arricchiscono, mentre i deboli, costretti a vivere per strada, stentano a sopravvivere.

Cecil Hotel - L.A.
Ansonia Hotel - NYC
L'Ansonia Hotel nell'Upper West Side di Manhattan

Prima ancora di trasferirmi nella West Coast, avevo lavorato a una proposta per un hotel della stessa categoria del Cecil a New York, dopo esserci arrivato da Vienna nel 1974. Ero stato assunto da Haus Rucker Co, un gruppo austriaco di architettura sperimentale che aveva portato a termine con successo una mostra di architettura al prestigioso Museum of Modern Art e, in quanto vincitore ai National Endowment Awards, aveva ottenuto il permesso di condurre uno studio sull’uso dei tetti a Manhattan. Così, ho trascorso i miei primi sei mesi a New York sui suoi magnifici tetti: era fantastico pensare alla possibilità di poter utilizzare per usi pubblici, commerciali e privati questi spazi altrimenti inutilizzati. Uno dei nostri “case study” riguardava l’Ansonia Hotel, costruito a Broadway da un grande industriale del rame. Il nostro obiettivo era quello di far riscoprire a tutti la magnificenza del più grande hotel della città, che un tempo copriva cinquecentocinquantamila metri quadrati e contava milleduecento camere e trecento suite.

Sebbene in passato l’hotel sia stato la cornice di svariati scandali, suicidi, efferati crimini e incidenti, era anche uno stravagante esercizio di progettazione architettonica. Oltre alle sue dimensioni ispirate agli hotel di Parigi, la fantasiosa struttura turrita di diciassette piani in pietra calcarea era la versione sontuosa di un hotel residenziale, e offriva servizi che nessun’altra struttura poteva permettersi. Nel 1904, la scelta di costruirlo proprio in quel punto della città si rivelò estremamente lungimirante, poiché di lì a poco la metropolitana che si estendeva verso nord divenne un comodo mezzo di trasporto, e l’hotel poté attrarre clienti anche grazie alla propria posizione strategica per spostarsi in città.

New York upscale real estate promo materials of 1910s - @New York Public Library's

L’Ansonia vantava la presenza di diverse sale da ballo, ristoranti in stile Luigi XIV, una maestosa sala ricevimenti, sale da tè e caffè, una banca, un barbiere, un sarto, sale di scrittura, bagni turchi e, non meno importante, la più grande piscina coperta del mondo. In pochi anni, però, l’hotel si guadagnò una cattiva reputazione: al suo interno, noti criminali e celebrità sportive finirono per incrociarsi lungo i corridoi. Il famigerato scandalo dei Black Sox, in cui otto giocatori di Chicago si accordarono con dei giocatori d’azzardo per perdere intenzionalmente la Finale della World Series del 1919, venne organizzato proprio lì. Jack Dempsey e Babe Ruth soggiornarono nell’hotel assieme al tenore Enrico Caruso, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini e i compositori Igor Stravinsky e Sergei Rachmaninoff. Per facilitare la comunicazione da una parte all’altra della struttura, furono installati all’interno delle pareti dei tubi particolari che permettevano di inviare messaggi all’interno di capsule tra i clienti e il personale dell’albergo.

Nella grande hall, oltre alla maestosa scala e all’enorme lucernario a cupola, si trovava anche una fontana in cui sguazzavano vere foche. Il proprietario aveva addirittura creato una fattoria sul tetto, con quattro oche, un maiale, circa cinquecento polli, moltissime anatre, sei capre e persino un piccolo orso; questo permise all’hotel di offrire ogni giorno uova fresche agli inquilini, almeno fino a che il Dipartimento della Salute non ordinò la chiusura della fattoria. Quando lo visitai per la prima volta, l’hotel aveva perso gran parte del suo fascino, ma c’erano ancora i Continental Baths, un famoso ritrovo gay che ricordava la gloria dell’antica Roma, e che aveva una piscina con cascata, una discoteca e, in un cubicolo, spacciatori di droga. L’elemento più noto era il cabaret di Bette Midler e del suo pianista accompagnatore Barry Manilow.

Ansonia Hotel NYC

Un decennio più tardi, lo stesso spazio divenne il Plato’s Retreat, il famigerato club di scambisti eterosessuali che attraeva talmente tanti personaggi indesiderati e atti sconsiderati da aver fortemente contribuito al declino dell’Ansonia. Ispirati da questo passato esuberante, abbiamo progettato una grande casa di vetro sul tetto ispirata ai palazzi di cristallo Art Deco per ospitare grandi eventi inclusivi, oltre ad aree in cui consumare pasti all’aperto caratterizzate da tralicci topiari per imitare le torrette di rame originali che vennero fuse durante lo sforzo bellico per creare carri armati.

Sebbene l’Ansonia e il Cecil condividano le stesse ambizioni di partenza e simili incidenti di percorso, le diverse zone in cui sorgono e l’estrazione sociale degli abitanti li hanno portati a due risultati completamente opposti.
L’Ansonia di New York è diventato un esclusivo edificio residenziale per i ricchi abitanti dell’Upper Westside vicino a Central Park. Il valore immobiliare è tra uno dei più alti del mondo. Il Cecil hHtel, invece, si è sempre più adattato allo stile di vita squallido e decadente di Skid Row. Los Angeles è una città in cui funzionari e promotori urbani hanno a cuore unicamente gli interessi degli imprenditori capitalisti, i quali sfruttano i vari benefici fiscali a loro offerti in un futile tentativo di rendere Los Angeles Downtown un simbolo di urbanità e grandezza metropolitana, senza tuttavia considerare la popolazione socialmente sfruttata e trascurata che vaga per le strade di questo deserto sociale ed economico. Il Cecil è ora chiuso per ristrutturazione in attesa di una ripresa economica o di uno sviluppo urbano che gentrifichi il quartiere. Ma se questo non dovesse succedere, sarà costretto ad accettare la sua reputazione di hotel dell’orrore.

Nizza, la nuova città giardino del Mediterraneo

Fino al 2008, Nizza è stata una media città del Mediterraneo. Il colore dominante era il blu – del mare e di Yves Klein, che qui è nato –, l’aeroporto internazionale si classificava come secondo scalo di Francia e le opere di una serie di nomi celebri della storia dell’arte erano utili soprattutto ad attrarre il turismo. La svolta verde, che sta riposizionando la città tra i luoghi non solo da visitare, ma anche da vivere, è arrivata con una strategia di lungo termine che ha portato a inaugurare parchi, impiantare alberi, tracciare nuove linee dei tram per collegare l’aeroporto e riscoprire le periferie. Se oggi guardiamo dall’alto la mappa di questa trasformazione, è evidente che l’opera non è terminata: nei prossimi cinque anni sono programmate altre demolizioni di edifici, più obsoleti che storici e, al loro posto, ancora nuovi spazi verdi. 

“Negli ultimi dodici anni la direzione è cambiata, la città di Nizza si è sviluppata fino a diventare la città verde del Mediterraneo” spiega Anne Ramos, attuale vicesindaco della città con delega all’urbanistica “l’economia turistica è importante nel nostro territorio, ma lasciare che una città dipendesse da un solo settore economico non era responsabile. Per questo motivo, nel 2008, abbiamo avviato una radicale diversificazione economica”.  
Una rivoluzione che è passata attraverso una politica innovativa  sul fronte dello sviluppo sostenibile. Pur mantenendo un attaccamento storico al blu, l’attenzione della città è stata rivolta verso un altro colore: il verde, il green 

Plantation Olivier parc de l'Ouest
Grand Parc Plaine du Var
Una rivoluzione programmata

La tabella di marcia di questo cambiamento si è mossa per tappe serrate: due macro-fasi, la prima terminata nel 2020, e la seconda che arriverà al 2025. All’interno di questa pianificazione,  una lunga serie di step semestrali hanno interessato i singoli quartieri. Un progetto di questo portata, che coinvolge aree così vaste di una città in intervallo di tempo così lungo, con quindici anni di cantieri, si trova per forza ad affrontare il problema dell’equilibrio tra le esigenze dei cittadini residenti e l’obiettivo di raggiungere un nuovo posizionamento nei confronti dei turisti che vivono la città solo per pochi giorni. “La sfida è stata quella di anticipare le possibili criticità, dal traffico all’utilizzo degli spazi pubblici durante i cantieri” spiega Anne Ramos. “Uno degli strumenti che abbiamo usato è stato istituire periodicamente una consultazione pubblica sui principali progetti di sviluppo. Tutta la fase di costruzione è stata realizzata tenendo conto della qualità delle funzioni urbane, della vita quotidiana in città”.

La sfida è stata quella di anticipare le possibili criticità, dal traffico all’utilizzo degli spazi pubblici durante i cantieri.
- Anne Ramos

Punto di inizio della rivoluzione verde di Nizza è stata la Promenade du Paillon, inaugurata nel 2013. 12 ettari di verde in pieno centro, al posto di una obsoleta stazione degli autobus e di un enorme parcheggio in superficie. La Promenade du Paillon, oggi, è uno dei parchi più frequentati di Francia dove convivono architettura e biodiversità, e si è ricavata il suo spazio diventando la corrispondente urbana della Promenade des Anglais, la lunga e storica passeggiata sul mare concepita con un piano regolatore di metà ‘800. 

Il nuovo modello di trasporto pubblico

In parallelo, nuovi cantieri sono stati aperti nelle vie del centro, dove lo spazio tra i palazzi residenziali era destinato alle automobili e agli autobus. Oggi, nella maggior parte di queste vie è stata conservata una sola carreggiata per le auto, mentre il resto della superficie è occupata da piste ciclabili e verde pubblico. La quasi completa abolizione degli autobus, e la sostituzione delle corsie-bus con piste ciclabili protette, è stata resa possibile dall’introduzione delle nuove linee dei tram: tre linee, con una quarta in costruzione. La Linea 1 è tradizionale e di superficie, mentre la Linea 2, inaugurata nel 2019, ha creato un collegamento diretto tra il porto turistico e l’aeroporto, ai poli opposti della città. I tram della Linea 2, di un colore ocra scelto con consultazione pubblica, sono autoalimentati da batterie. In questo modo si è evitato che le infrastrutture elettriche condizionassero il paesaggio urbano.  
Le nuove linee del tram hanno portato 77.000 metri quadrati di manto erboso sistemato lungo i binari e 2400 nuovi alberi. Inoltre, hanno avvicinato le periferie, spesso difficili, al centro cittadino e fatto volare il mercato immobiliare. Un rialzo medio del 20%, inizialmente sulla sola base delle mappe del tracciato, e si dovranno attendere i prossimi anni per capire se le promesse erano abbastanza solide da giustificare la crescita. 
Senz’altro, a beneficiare nell’immediato di questo piano sintetizzato nello slogan “1 albero ogni 5 abitanti” è stata la qualità dell’aria: dopo l’arrivo della Linea 2 del tram, sulla Promenade des Anglais il traffico si è ridotto del 10%, del 22% lungo l’Avenue de la Californie, con una diminuzione dell’emissione di CO2 e di polveri sottili che ha raggiunto il 65%.  

Inaugurazione del tram di Ora Ito

Oltre al designer Ora Ito, cresciuto tra Nizza e Marsiglia, in questi dodici anni sono stati coinvolti paesaggisti ed urbanisti da ogni parte del mondo: Michel Pena che ha immaginato la Promenade du Paillon, lo spagnolo Joseph Lluis Mateo, il giapponese Sou Fujimoto, oltre ai francesi Jean Nouvel e Jean-Michel Wilmotte che sono intervenuti nella costruzione del Grand Parc della Piana del Var 
Un’area di periferia, quest’ultima, dove hanno lavorato in sinergia il sistema imprenditoriale e la politica sociale, con una visione che non ha mai messo in antitesi ecologia ed economia. Con il progetto della Piana del Var e lo sviluppo della Eco-Valley ad ovest di Nizza, ad oggi sono stati creati 6500 posti di lavoro e se ne stimano altri 30.000 per i prossimi anni: dall’industria al commercio, dai servizi ai settori della ricerca e dell’ambiente. 

Il ruolo della tecnologia
Porto turistico di Nizza

Un importante ruolo è stato dato alla tecnologia, fattore che, più che strizzare l’occhio all’idea di smart city, qui è visto come una buona ragione per attrarre imprese . La Costa Azzurra è sempre stata attenta a questo aspetto, a partire dagli anni ’60, con la creazione del distretto di Sophia-Antipolis, la Silicon Valley francese. La tecnologia può essere una forte alleata dell’ambiente. Oggi tutta la città di Nizza è dotata di sensori che misurano la qualità dell’aria in tempo reale, per fornire uno strumento oggettivo a chi decide le misure da adottare. Inoltre, il Porto di Nizza, uno dei porti mediterranei più impegnati nella lotta contro l’inquinamento atmosferico, è considerato il primo porto intelligente d’Europa. Uno scalo prevalentemente turistico che è stato dotato di linee elettriche per permettere agli yacht di spegnere i motori ed abbattere le emissioni.

Spazio alle biciclette
Vélobleu
Piste ciclabili di Nizza

Se al posto degli autobus sono sorte le piste ciclabili protette, dove c’erano i parcheggi  quasi del tutto interrati  oggi sono presenti le stazioni delle biciclette. Il Vélo Bleu, il sevizio pubblico di biciclette a noleggio, conta più di 1500 mezzi e 2000 punti di prelievo, di cui una buona parte è stata convertita in elettrica: i mezzi e-Vélobleu. Anche in questo caso, l’occhio è stato rivolto al trasporto sostenibile come motore di sviluppo delle imprese. “Il nostro Plan Vélo” spiega Anne Ramos “non solo vuole incoraggiare i cittadini a lasciare l’automobile in garage per prendere la bicicletta, ma l’obiettivo è creare una vera e propria economia delle due ruote, con imprese che operino e si sviluppino in questo ambito. In questo senso, organizziamo spesso eventi e momenti di partnership tra le imprese, le associazioni ed il sistema scolastico.” Il risultato è che, la mattina presto, è ormai un’abitudine vedere gli studenti raggiungere i licei della città con un Vélo Bleu preso a noleggio. 

La sfida dell’inquinamento acustico

Ma quale è il colore del suono, anzi del rumore? Perché se costruire parchi urbani e nuove linee del tram significa rendere più green una città, l’inquinamento acustico non si vede ma c’è, soprattutto in Francia, terzo Paese dopo Stati Uniti e Italia per livelli di rumore nei centri urbani. Nei prossimi mesi, a Nizza verranno installati una serie di radar acustici chiamati “meduse” per la loro forma. Apparecchi dotati di microfoni che catturano il livello di rumore emesso da auto e motorini e, in caso di sforamento dei parametri, fotografano e multano i mezzi non in regola. “Stiamo combattendo contro ogni forma di inquinamento” spiega Anne Ramos “e questo include anche ridurre sensibilmente il numero di persone esposte a quello acusticoIl piano dei prossimi cinque anni è eliminare oltre 68 decibel dall’ambiente urbano. I servizi metropolitani stanno collaborando con il Ministero per portare avanti questa sperimentazione”. 

Stiamo combattendo contro ogni forma di inquinamento e questo include anche ridurre sensibilmente il numero di persone esposte a quello acustico.
- Anne Ramos

Una collaborazione, quella tra governo centrale e municipio, fatta di alti e bassi. Il periodo del Covid ha fatto crescere il desiderio di decentramento ed autonomia del sindaco Christian Estrosi. Avere le mani libere non riguarderebbe solo il tema di una maggiore vicinanza alle richieste dei propri cittadini, ma anche la possibilità di sperimentare questo genere di nuove frontiere – ecologia, economia, tecnologia – con maggiore flessibilità.

Un riposizionamento necessario

Le ragioni che hanno portato alla trasformazione di Nizza nella città verde del Mediterraneo sono di diverso tipo. Ci sono, naturalmente, le ragioni legate al benessere, che avranno una ricaduta sui costi sanitari: l’obiettivo è ridurre le emissioni del 55% su tutto il territorio urbano entro il 2030, ed abolire l’utilizzo dei combustibili fossili entro il 2050. Poi c’è una ragione che riguarda, nel bilancio, il fronte delle entrate: per una città in competizione globale con le principali mete del turismo e del lussoche significa elevata qualità della vita, un riposizionamento era necessario. Uscire dal passato e dimostrare a turisti e residenti che qui e ora si può vivere al meglio. “Tuttavia, questo posizionamento non è una novità, osserva Anne Ramos: “In un momento storico nel quale la sfida del clima è all’ordine del giorno per tutte le aree urbane occidentali, la città di Nizza è stata pioniera, negli ultimi 10 anni, di un modello di sviluppo sostenibile che conciliasse la crescita, l’occupazione e il rispetto per il pianeta”. 
In città, la natura è ogni giorno, ogni semestre, secondo la tabella di marcia, sempre più presente. E tutti questi alberi sono destinati a crescere ancora. 

Parc du ray