Il futuro è già qui

La Biennale di Sidney ha offerto una cornice elastica e passibile di trasformazioni continue, segnalando tendenze e dibattiti internazionali in rapporto al tempo e al luogo di cui facevano parte.

Il titolo della 20. Biennale di Sidney (18.3–5.6.2016), “Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito” è una citazione dello scrittore di fantascienza William Gibson, che allude al fatto che le vecchie visioni del futuro sono state superate così rapidamente dal cambiamento tecnologico che non siamo più capaci di immaginare nulla che non stia già accadendo.
20. Biennale of Sydney
In apertura e qui sopra: Lee Bul, Willing To Be Vulnerable, 2015–16. Tessuto tecnico, pellicola metallizzata, pellicola trasparente, inchiostro poliuretanico, macchina della nebbia, luci a LED, cablaggio elettronico; dimensioni variabili. Installazione alla 20. Biennale of Sydney (2016), isola di Cockatoo. Con la cortese autorizzazione dell’artista. Photo Ben Symons
La capacità di esprimere il futuro è più forte in alcuni che in altri, perché il passo del cambiamento è sotto l’influsso di strutture sociali caratterizzate dalla disuguaglianza e dalla differenza. L’accesso a questa civiltà tecnocratica avanzata è continuamente contestato, nelle periferie delle nostre città come sui confini ritenuti inviolabili delle nazioni.
20. Biennale of Sydney
Nilbar Gureş, Open Phone Booth, 2011. Video a tre canali, formato 16:9, durata 33’46”. 20. Biennale of Sydney (2016), isola di Cockatoo. Con la cortese autorizzazione dell’artista e della galleria Rampa, Istanbul. Photo Leïla Joy
Con l’installazione video a tre canali Open Phone Booth (“Cabina telefonica pubblica”) Nilbar Güreş pone la questione del rafforzamento della diseguaglianza nella diffusione della tecnologia e delle infrastrutture a causa dei processi di globalizzazione. Mette in evidenza il caso di un piccolo villaggio conteso tra il Kurdistan e la Repubblica di Turchia, che causa la mancanza di sviluppo e di infrastrutture. In quest’opera la cabina telefonica offre al visitatore vari scenari attraverso i quali conoscere dal vivo la vita degli abitanti del villaggio, mentre si sforzano di entrare in collegamento con la famiglia e con gli altri. Uno sguardo sugli effetti di isolamento della guerra e sulla mancanza di infrastrutture di collegamento, che mette in luce quanto debbano lottare le persone per superare questi ostacoli.
20. Biennale di Sydney
Nyapanyapa Yunupingu, Bathala, 2012, pigmenti di terre naturali su tronco cavo, 257 x 30 x 30 cm. Installazione alla 20. Biennale di Sydney (2016) presso l’Art Gallery of New South Wales. Con la cortese autorizzazione dell’artista e della galleria Roslyn Oxley9, Sydney, collezione Eleonora e Michael Trigubo. Photo Ben Symons.
Nella complicata cornice della 20. Biennale di Sidney la curatrice Stephanie Rosenthal ha delineato una struttura modellata sul programma di lavoro, battezzando con il nome di “ambasciata” vari luoghi espositivi, come “l’Ambasciata del reale”, che si occupa di tecnologia, “l’Ambasciata della scomparsa”, “l’Ambasciata degli spiriti” e così via. Ciò nonostante i temi più importanti vanno oltre la classificazione relativamente casuale delle ambasciate, per diventare concezioni della tecnologia e della presenza, della durata e della sicurezza.
20. Biennale di Sydney
Camille Henrot, Grosse Fatigue. Installazione alla 20. Biennale di Sydney (2016), isola di Cockatoo. Con la cortese autorizzazione dell’artista, di Metro Pictures, New York, e della galleria Kamel Mennour, Parigi. Collezione Lisa e Danny Goldberg. Photo Leïla Joy.
Al centro del porto di Sidney, raggiungibile con un traghetto dal centro cittadino degli affari, c’è l’isola di Cockatoo, un classico cantiere riconvertito in spazio artistico destinato all’analisi della natura del reale e del cambiamento tecnologico. Qui l’artista Camille Henrot ha esposto Grosse Fatigue, video dalle disparate mitologie, basato su una ricerca dell’americano Smithsonian Institute. L’artista, come una scienziata, organizza la creazione di miti delle credenze cristiane, buddhiste, cabaliste, navajo e Inuit in una specie di tavola comparativa letteraria, che le allinea tutte in un’unica struttura dove si collegano le une alle altre a formare un poema. L’opera mescola scene, immagini e idee nel modo oggi canonico della cultura di Internet, giustapponendo oggetti da museo con ricerche casuali sul web e scene quotidiane della vita dell’artista, cercando di costruire un rapporto complessivo. Grosse Fatigue naturalmente è il risultato dello sforzo di mantenere collegato con continuità questo incessante flusso di informazioni, come un analista con un dataset che non si esaurisca mai.
20. Biennale of Sydney
Lee Bul, Willing To Be Vulnerable, 2015–16. Tessuto tecnico, pellicola metallizzata, pellicola trasparente, inchiostro poliuretanico, macchina della nebbia, luci a LED, cablaggio elettronico; dimensioni variabili. Installazione alla 20. Biennale of Sydney (2016), isola di Cockatoo. Con la cortese autorizzazione dell’artista. Photo Ben Symons
Willing to be Vulnerable, futuristica installazione site-specific di Lee Bul, invita il visitatore a entrare in uno spazio fantastico. Combinazione di materiali, collegati ad hoc e in tono quotidiano, con una serie di mobili forme volanti, la guida della Biennale la descrive come un riferimento al dirigibile Hindenburg, il più grande oggetto volante mai costruito; un’innovazione modernista finita nel disastro. Lee Bul mette qui in luce il fascino dell’utopia, l’aspirazione all’irraggiungibile nutrita dall’intensità del desiderio. Anche se il risultato è un fallimento – si domanda l’artista – ciò rende meno spettacolare il tentativo di avvicinarsi a un ideale? All’Art Gallery of New South Wales un’opera a quattro mani dell’artista indigeno Ken Thaiday Snr e di Jason Christopher usa una dance machine per realizzare una scultura che raffigura un pesce martello, completa di suoni minacciosi e ombre cinesi. In quest’opera la tecnologia mostra tanto la presenza quanto l’assenza della tradizione, usando manufatti artigianali tailandesi come falsariga su cui si modellano la forma e gli scatti del movimento di danza dell’opera, ma anche conferendo all’opera un movimento automatico basato sul CAD 3D che appare indipendente dai creatori.
20. Biennale di Sidney
Neha Choksi, in collaborazione con Alice Cummins, In Memory of the Last Sunset, 2016. Performance di danza di Alice Cummins ai Carriageworks, 15-19 marzo, 9-10 aprile e and 28-29 maggio 2016. Con la cortese autorizzazione dell’artista e di Project 88, Mumbai Created, per la 20. Biennale di Sidney. Photo Leïla Joy
Un aspetto del tema della biennale sul quale poche opere sembrano aver lavorato con successo è la durata. Alcune opere rispondono direttamente ai rispettivi siti e al loro trasformarsi nel tempo, visualizzandone il processo e integrandolo nel proprio significato. The Sun’s Rehearsal di Neha Choksi è un’installazione site-specific in forma di cartellone ambientata ai Carriageworks, fatta di impalcature e di murali con le foto di otto tramonti e la riproduzione digitale di un sole calante. Nel corso della mostra i tramonti sono stati grattati via dal pannello, in modo che i brandelli delle foto rimanenti suggerissero il passare del tempo. Nel corso della Biennale la danzatrice e coreografa australiana Alice Cumins ha presentato In Memory of the Last Sunset, opera in collaborazione con Choksi, che si interroga sulla vita del pianeta in costante riscaldamento e su un corpo che invecchia, parlando dell’ultimo tramonto dell’umanità mentre il riscaldamento mondiale cresce inesorabilmente.
20. Biennale of Sydney
Taro Shinoda, Abstraction of Confusion, 2016. Argilla, pigmenti, ocra, tatami; dimensioni variabili. Installazione alla 20. Biennale of Sydney (2016) presso l’Art Gallery of New South Wales. Con la cortese autorizzazione dell’autore. Photo Ben Symons
Al centro dell’“Ambasciata degli spiriti” c’è una stanza tranquilla: uno spazio progettato per la meditazione e la contemplazione. L’opera Abstraction of Confusion di Taro Shinoda è basata sul suo percorso di ricerca nella comunità Yirrkala del territorio di Arhnem. Shinoda ha creato un’installazione a grandezza naturale, una specie di atrio con una piccola piattaforma per sedersi o stare in piedi. Pareti e pavimento sono interamente coperti da uno strato d’argilla color ocra e poi da uno di argilla bianca, materiali che il popolo indigeno usa per i suoi dipinti. Il visitatore che sta sulla piattaforma vede prima l’argilla seccare, diventando bianca da marrone umido che era; poi, con il passare delle settimane, l’argilla si crepa, rivelando lo strato originario color ocra. Per Shinoda l’uso della durata in quest’opera è un modo di far capire al pubblico che nulla rimarrà mai in una condizione stabile, che il desiderio di permanenza non avrà mai la permanenza come risultato.
Yin-Ju Chen, Leiyu Massacre, Taiwan, 1987, 2014, dalla serie Liquidation Maps. Carboncino, matita, 125 x 126 cm. Con la cortese autorizzazione dell’artista. Photo Yin-Ju Chen
In un’altra scena dedicata alla durata, Liquidation Maps, 2014/2016 di Yin-Ju Chen, degli intricati diagrammi tracciano la mappa di particolari trasmutazioni astrologiche corrispondenti a cinque avvenimenti violenti del passato, come il genocidio dei Khmer rossi del 1975 e i Massacri di Timor Est del 1999. Per Chen queste interazioni astrologiche rivelano la consapevolezza dell’universo che governa le azioni umane. Un’opera fatalistica che chiede se non siamo forse coinvolti negli avvenimenti al di là della nostra stessa volontà, in un tempo ciclico che lega l’umanità a inevitabili traiettorie universali.
20. Biennale of Sydney
Ken Thaiday Snr, Beizam, 2001. Bambù nero, compensato, cavo di Nylon, plastica, vernice e piume, 101 x 116 x 65 cm. Con la cortese autorizzazione dell’artista e della Cairns Regional Gallery. Commissionato con il finanziamento del Centenary of Federation Arts Project, Queensland Grant, 2001. Photo Leïla Joy
Le “ambasciate” sono intese come spazi sicuri sparsi per tutta Sidney, luoghi per “pensare”. Tra le pareti dell’“Ambasciata degli spiriti” c’è uno spazio illuminato di luce tenue, circondato da alti pali di legno privati dei rami, delle foglie e della corteccia ma riccamente decorati con motivi particolareggiati. Nata in Yirrkala, nel territorio del Nord Est di Arnhem, l’artista Nyapanyapa Yunupingu ha creato una foresta che esiste nel suo ricordo, un luogo spirituale di grande significato personale, che fa riferimento a un incontro che fu quasi fatale con un bufalo d’acqua, negli anni Settanta. A quel tempo l’artista iniziava a dipingere una serie di opere d’arte sul tema del mayilimiriw, ovvero della “mancanza di senso”. L’opera offre ai visitatori l’occasione di riflettere non solo sull’incidente violento che rischiò di causare la morte dell’artista, ma anche sul senso di quieta speranza che l’animava mentre veniva riportata in famiglia tra le piante di eucalipto.
Il potenziale maggiore delle biennali sta nella loro plasticità e nella loro adattabilità. La Biennale offre una cornice elastica e passibile di trasformazioni continue. Che siano site-specific oppure lavorino sulla durata, le opere d’arte segnalano tendenze, sensibilità e dibattiti internazionali e li rendono significativi in rapporto al tempo e al luogo di cui fanno parte.

Su questa edizione della Biennale di Sydney vedi anche Arte negli interstizi urbani
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