Una casa in Canada, a cavallo fra archeologia e paesaggio

Abbiamo visitato la residenza 75.9 a Vancouver, ultimo progetto di Omer Arbel. Il direttore creativo di Bocci torna all’architettura dopo anni di design e sperimentazioni sui materiali.

“Nel complesso, credo che la residenza 75.9 sia il risultato della presa di coscienza della missione del mio studio, ovvero la ricerca della forma nella modalità di manipolazione dei materiali”. Omer Arbel commenta così il suo ultimo lavoro: una costruzione che si fa paesaggio, immersa in un campo di fieno nel Canada nord-occidentale, non distante da Vancouver.

Per capire come si è concretizzata 75.9 va introdotto il percorso di Arbel, un viaggio sinuoso che parte dall’architettura, prima da Enric Miralles a Barcellona e in diversi studi di Vancouver. Passa poi al design. Nel 2005 fonda Bocci assieme all’imprenditore Randy Bishop. L’azienda di illuminazione, di cui è direttore creativo, è la piattaforma ideale per condurre una ricerca sui materiali che si svolge parallelamente alla produzione: una commistione ben evidente negli spazi della sede di Bocci a Vancouver. Arbel è interessato al processo e alla modulazione del controllo della reazione della materia sottoposta a sollecitazioni chimiche, fisiche o meccaniche. Quasi fossero esperimenti di laboratorio, Arbel numera i suoi tentativi e i suoi progetti: prima viene l’esplorazione e poi, forse, prende forma un oggetto o un prodotto. Si potrebbe dire che il design è stato un’importante palestra per Arbel, che oggi è tornato all’architettura con un approccio che sente proprio.

Ancora prima dell’arrivo dell’incarico da parte dei committenti, il suo studio aveva sperimentato metodi alternativi di formatura del calcestruzzo, nella convinzione che le forme che l’uomo ne ricava abbiano spesso poco o nulla a che fare con le sue proprietà. “Questo è il primo edificio che realizziamo utilizzando una cassaforma di tessuto, un sistema che ci ha permesso di ottenere diversi risultati: forme che hanno una relazione diretta con la dinamica del materiale allo stato fluido e che tendono naturalmente verso linee strutturali efficienti, riducendo la quantità di calcestruzzo necessaria” afferma Arbel. Il tessuto utilizzato è un geotessile, spesso impiegato per applicazioni infrastrutturali o paesaggistiche. Si tratta di teli poco costosi e molto resistenti, che permettono all’umidità e all’aria di fuoriuscire durante l'indurimento del fluido, “un motivo essenziale per cui il sistema funziona”.

Questo processo ha permesso la realizzazione dei “pilastri a foglie di ninfea”, dalla superficie segnata da coste, interpretate come rovine nel paesaggio e attorno alle quali è stata realizzato un involucro abitato diviso in quattro volumi a doppia altezza, di vetro e legno di cedro. Per raccordare l’edificio al sito, la topografia è stata estesa talvolta sino alle coperture, mentre le aperture sono segnate da partizioni curve di cemento armato, sempre a coste. Presso le sommità cave dei pilastri sono stati alloggiati degli alberi di magnolia, per accentuare la continuità con il paesaggio.

I pilastri, visibili anche dall’esterno, diventano protagonisti degli interni a doppia altezza: sfalsandosi, creano viste incrociate fra gli ambienti e verso il sito. La matericità grezza di queste strutture è in contrasto con la forte presenza del legno e del cemento lucidato della pavimentazione, interrotta da aree piantumate.

Quali sono, però, le riflessioni dello studio in merito alla sostenibilità del sistema? “La costruzione comporta il consumo di molte risorse, per questo è necessario progettare per assicurare agli edifici una durata che vada oltre ai 30-50 anni, che oggi sono lo standard”. Questo, secondo l’architetto, accade soprattutto a causa delle pressioni del mercato. “Se un edificio viene demolito dopo un lasso di tempo così breve, non saranno i cosiddetti materiali sostenibili a cambiarne l’impatto” continua Arbel. Un approccio che l’architetto ritiene essere non solo dispendioso da un punto di vista ambientale, ma anche dannoso verso i legami spirituali che legano l’umanità a ciò che costruisce, rendendoli generici e privi di longevità generazionale. Di ciò che l’uomo realizza in questo modo “non c'è nulla che meriti di essere restaurato, né culturalmente né materialmente”. Se, invece, “progettiamo strutture destinate ad esistere per 200 o 300 anni e le immaginiamo continuamente restaurate e rinnovate nel tempo, piuttosto che demolite e ricostruite, i costi ambientali possono essere ammortizzati su un periodo di tempo molto più lungo, al punto da almeno eguagliare l’impatto ambientale dei cosiddetti metodi di costruzione sostenibili”.

Tutte le foto © Fahim Kassam, courtesy of Bocci

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