Anna Heringer: l’etica prima dell’estetica

Implementare il know-how a livello locale, stimolare il progetto partecipato e lavorare sulla piccola scala. Sono le chiavi del lavoro dell’architetta tedesca

“Penso che sia i clienti che gli architetti dovrebbero partecipare di più al processo costruttivo. Avere a cuore la costruzione, assumersi responsabilità e rischi, saper riparare le cose: è un approccio emancipatorio di cui dovremmo fare uso”, afferma Anna Heringer. Nel corso degli anni, il lavoro di architetta e d’insegnante le hanno permesso di sviluppare una visione olistica che rispetta popolazioni e ambienti naturali. Vedendo la pratica architettonica come uno strumento “per costruire conoscenza invece di spreco”, i suoi progetti agiscono come una sorta di agopuntura a livello socio-economico. 

Come può l'architettura partecipata aiutarci a raggiungere i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU?
Credo che il cambiamento debba partire dal basso. Quando progetto, cerco sempre di calcolare il mio impatto moltiplicandolo per 7,7 miliardi. Ogni nostra azione può fare la differenza, migliorare la società e il nostro futuro. Come architetto, lavorare su piccola scala mi consente di stimolare maggiormente la comunità. Prima di costruire in contesti come il Bangladesh, ero abituata a fare scelte estetiche, ma ora capisco l’effetto positivo che la selezione di un determinato materiale può avere sulla vita delle persone e il loro habitat.

Riunione durante la costruzione del progetto Anandaloy - foto © Benjamin Stähli

La produzione di know-how architettonico può contrastare l'esodo rurale e creare le basi di un futuro più sostenibile?
Ottenere cambiamenti nelle grandi città è difficile. Non si può, infatti, contare su reti sociali forti come in campagna. Architetti e decision-maker devono impegnarsi nelle zone rurali, valutando il lavoro umano come una fonte di energia positiva. In definitiva, tutti vogliono rendersi utili e, in tal senso, l’architettura in terra è una buona opzione. Offre molte opportunità di lavoro ed è equa in termini ambientali e sociali. La terra è gratuita; i lavoratori la raccolgono e la trasportano nei cantieri a piedi; si può costruire con le mani; si evitano emissioni di CO2; inoltre, alla fine, l’edificio può essere dismesso senza che la qualità del materiale sia alterata. Scegliendo la terra, aiutiamo le comunità: non arricchiamo le lobby – vedi l'industria del cemento – e sosteniamo l'artigianato locale. Questo non significa che tutti debbano usare la terra, ma dovremmo sicuramente valorizzare di più le risorse autoctone. Personalmente, mi chiedo sempre: il mio approccio sta danneggiando il pianeta? Chi ne trae profitto? Causa disuguaglianza? Le competenze esistenti vengono arricchite o impoverite?

Schizzo del progetto Anandaloy - © Studio Anna Heringer

Quali le possibilità di applicazione dell’architettura compostabile nei contesti di emergenza umanitaria?
Ritengo la durabilità delle competenze più importante di quella dei materiali; attualmente la seconda è infatti causa di molti problemi sul pianeta. È il motivo per cui credo che dobbiamo investire sulla conoscenza e adottare materiali compostabili. In Bangladesh, per esempio, abbiamo lavorato con abitanti locali che avevano già costruito case in terra ma non avevano mai usato una livella. Formandoli, siamo riusciti a stabilire un sistema virtuoso che ha permesso al nostro studio di non tornare sul cantiere per tempi molto lunghi; la comunità sapeva esattamente come procedere e ha persino sviluppato nuove idee su come migliorare le strutture. Il tutto con un forte spirito di volontà di apprendimento. Come architetta, è entusiasmante sapere che non sei più necessaria e che la conoscenza è stata davvero assimilata. Quindi sì, credo che un simile approccio potrebbe essere applicato anche a situazioni di emergenza umanitaria. Pensiamo a un episodio recente: Haiti. Dopo il terremoto, il cemento e l'acciaio sono arrivati dagli Stati Uniti. Dev’essere stato un immenso business, lo stesso grande flusso di denaro che, in ognuna di queste occasioni, usa fondi umanitari e sfrutta le persone. Mentre in realtà potremmo adottare un processo più emancipatorio, implementando il know-how a livello locale.

Cantiere del progetto Anandaloy - foto © Stefano Mori

Quali le tue responsabilità alla UNESCO Chair for Earthen Architecture, Constructive Building Cultures and Sustainable Design?
Ci poniamo l’obiettivo di dimostrare come si può costruire con la terra in zone climatiche e contesti diversi. Lo facciamo attraverso conferenze e progetti pilota. Tipicamente, nel mondo dell’architettura, le lobby sono le forze trainanti nel dare visibilità a una determinata pratica/tecnologia e il problema con la terra è proprio che non è spinta da alcuna lobby. Inoltre, in determinati Paesi l'architettura in terra è semplicemente proibita per legge. Anche nelle regioni dove tradizionalmente veniva impiegata l'architettura in terra – in Colombia e molti paesi africani, per esempio –, ora essa è stata sostituita dal cemento. Ma mentre proibire le costruzioni in cemento ne allerterebbe i lobbisti, nel caso dell'architettura in terra, nessuno dice nulla. Tutto ciò ha un impatto sulle comunità locali e l'ONU e l'UNESCO comprendono che è essenziale preservare il know-how e le tecniche tradizionali, trasformandoli in strumenti utili per le generazioni attuali e future. È esattamente quello che stiamo cercando di fare.

Il progetto Anandaloy in costruzione - foto © Stefano Mori

I premi architettonici possono/dovrebbero essere usati per indirizzare le decisioni politiche verso pratiche più inclusive e sostenibili?
Nel caso del progetto della METI School, i premi sono stati molto utili per aumentare la consapevolezza attorno al nostro operato. All'improvviso, la gente ha visto che stava accadendo qualcosa e che era possibile cambiare lo status quo. In Bangladesh, abbiamo ricevuto il sostegno del Bangladeshi Institute of Architects che ci ha chiesto di organizzare un seminario e il governo ha deciso di sostenerci. È essenziale che i politici prendano posizione a favore delle comunità e degli artigiani locali, assumendosi responsabilità per le generazioni future. Su una scala più ampia, credo che se vogliamo garantire processi costruttivi più sostenibili sia urgente aumentare la carbon tax, riducendo le tasse sul lavoro manuale. È assurdo non poter assumere artigiani perché costa troppo caro. Costruire con la terra è una delle tecniche architettoniche più semplici, eppure in molti contesti rimane una pratica più costosa perfino della stampa del cemento in 3D. Questo dimostra che c'è qualcosa di sbagliato nel sistema e che le cose devono cambiare. Però, per questo, i movimenti di base non sono sufficienti, abbiamo bisogno di reazioni dall'alto.

Da un punto di vista accademico, percepisci un rinnovato interesse dei giovani professionisti verso pratiche architettoniche sostenibili e socialmente impegnate? Se sì, come possono i programmi educativi accompagnare questa curiosità?
Puoi comprendere il potere di un processo solo provandolo in prima persona. Non è qualcosa che puoi imparare con la teoria; hai davvero bisogno di affrontarlo fisicamente ed empaticamente. È fondamentale trovare il modo di soddisfare il desiderio di stima e dignità del cliente durante il processo costruttivo, dimostrando che è possibile ottenere risultati soddisfacenti anche utilizzando materiali tradizionali. Le università dovrebbero offrire agli studenti l'opportunità di sperimentare processi costruttivi in tale direzione e includere più corsi pratici nei loro programmi.

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