Paolo Soleri esce direttamente dalla pittura di Grant Wood. Come uno dei contadini di American Gothic – l'uomo che tiene saldamente il forcone, lo strumento del suo lavoro – Soleri ha grandi occhiali tondi, rughe incise sul volto, poi allungate sul collo, la camicia senza colletto. Ha mani distese sul tavolo di lavoro. La matita tra le dita. Mani da homo faber che stanno modellando un che di immaginario (invisibile solo a noi, è ovvio) come un getto di silt cast (cemento gettato su una montagnola di terra, che viene successivamente rimossa. Cupole insomma, come i gonfiori della terra che lui ha costruito. O suscitato). Ogni tratto della sua sagoma segaligna, solida e attraversata da un labirinto di linee come i solchi antichi della prateria, ha la forza evocativa di raccontare una lunga personalissima storia. Soleri impersona uno spirito. Si è messo lì come un montarozzo nella grande pianura, dove l'architettura si impasta di luce del deserto. Da sempre a fronteggiare il disastro.
Gli spazi domestici di Paolo Soleri
Domus visita il privato americano dell'architetto torinese, alla periferia di Scottsdale, dove si è stabilito nel 1955.
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- Davide Vargas
- 01 gennaio 2011
- Scottsdale
"L'"homo faber" ha la facoltà del fare,
una facoltà che è direttamente dipendente
dall'abilità di manipolare e di trasformare
le cose, e quindi noi siamo trasformatori
per natura" – dice.
Intorno c'è la sua casa di Cosanti.
Tende bianche tirate. Una poltroncina
azzurra. Tavoli di lavoro ordinati.
Piccoli spazi. Pacchi di cereali
e barattoli allineati sul frigorifero.
Come in un'altra grande pittura.
Tom Wesselmann. Ma qui ci sono
meno colori. Con l'effetto opposto.
Immagini di vita quotidiana sobria
e distante dalle icone del consumismo
vorace. Dall'opulenza accattivante
e inutile (perché mi vengono
in mente le cattedrali outlet delle
nostre città?). A guardare intorno
non c'è nulla di inutile. Questo è un
tema che attraversa gli spazi e i modi
dell'esistenza dell'architetto pioniere.
Invece c'è tutta una gamma di
inutilità che rendono la vita degna.
Il rispetto della natura. La solidarietà
tra uomini e animali. Le fragilità
finanche. A cosa serve la poesia e la
musica e l'amore per l'architettura
se non ad avere un lungo sguardo
pulito? È tutto scritto in questo lembo
di terra tra Phoenix e Flagstaff
(nelle storie di Tex Willer c'è sempre
il fischio di un treno che passa per
Flagstaff).
"Per quanto mi riguarda, ritengo che
l'unica alternativa possibile, quella che
ho definito come Lean Alternative, vada
rintracciata in una frugalità elegante e
diffusa".
Il letto con la coperta ripiegata.
Gesto abitudinario di ordine. Lo fa
chi provvede da sé a se stesso. Una
sedia di legno scuro per comodino
con una fotografia poggiata allo
schienale. È un volto scolpito da
uomo romano. Antico come il comò
con lo specchio. Roba da casa della
nonna. Qua e là solo oggetti indispensabili.
Una lampada ripiegata.
È povertà questa? Una dedizione,
diresti. Una fedeltà al compito che
non lascia spazio ad altro. Una difesa
persino, contro la volgarità del
troppo. Come nei monasteri. Dallo
specchio si riflettono le solite tende
bianche tirate.
"Eppure io sono convinto che nella creatività
o, per meglio dire, nell'estetica noi
possiamo trovare le risorse necessarie per
sottrarci all'ottuso potere di questo «impero
tecnocratico». L'immensa riserva di
buona volontà ed eccellenza immagazzinata
nelle persone non deve essere gettata
via in un'ovattata trivialità".
Tra ulivi e cactus la casa porta i segni
di una continua stratificazione. Assi
di legno inchiodate e rappezzate.
Mattoni. Vetri. È l'America questa
delle fattorie. Dei pick up e delle
camicie di flanella a quadroni. Si può
dormire all'aperto sul limitare dei
grandi pascoli e impregnarsi degli
odori del deserto vicino. Lavarsi
all'abbeveratoio di pietra. Roba dolce.
Da giovane Soleri abbandonò
Taliesin West in contrasto con il suo
maestro Wright – gran coraggio, non
c'è che dire – per vivere nel deserto,
dormire all'aria aperta, progettare
con la natura. È l'America dei sogni.
Che qui possono diventare realtà.
Che altro è se no Arcosanti?
La stanza dell'architetto ad Arcosanti
ha un letto ricoperto da un tessuto a
scacchi e finestre circolari aperte sul
paesaggio. Come uno sguardo verso
l'altrove. Tavoli di lavoro ordinati e
un bollitore del caffè sulla cucina.
Poltroncine, grandi cassetti porta
disegni e quattro piatti allineati sull'acquaio
lindo.
Piante spinose e grasse in una terrina
sospesa come cupola capovolta
e l'acqua striata di riflessi di giada
in una grande piscina. C'è un cielo
solcato da nuvole bianche schierate come gli stormi di anatre selvatiche
nei racconti di Richard Ford.
È ancora America. Ma Paolo Soleri
è nato in Italia. Allora vado a vedere
la sua unica opera italiana, la fabbrica
di ceramiche Solimene a Vietri.
Per entrare nello spirito. Cercare un
contatto. Sentire.
"La sperimentazione è stata la mia ragione
principale. Il punto di partenza è stato
la colatura di oggetti ceramici in cui gli
stampi erano tagliati nel terreno: partendo
da frazioni di un piede quadrato fino a
molti piedi quadrati e dall'argilla liquida
al cemento l'estrapolazione è semplice. Ciò
che era un vaso è diventato un tetto. In
entrambi i casi, il suolo era molto utile
non solo come materiale di modellazione,
uno stampo negativo, ma anche nel caratterizzare
la tessitura, il colore, e l'effetto del
prodotto finale".
È una giornata di autunno distratto.
C'è il sole. La fabbrica è lì dopo una
curva da cui appare il mare come una
chiazza di acciaio dai riflessi accecanti.
È un magma di coni rovesci che
riveste il costone lacerato da altri
uomini. Un completamento. Anzi
no. Una trasformazione. Qualcosa
che si materializza. Come il magma
ha fessure e spaccature colmate da
vetri e infissi di ferro. Per entrare
occorre salire una stradina puntata
verso il sole. I dischi di ceramica, infiniti,
si accendono come una miriade
di specchietti. All'interno i pilastri
si divaricano come fanno gli alberi
quando vogliono accogliere qualcosa.
Un nido o che. Qui la grande
spirale dei percorsi. C'è un colore di
sabbia granulosa e liscia. Se ti concentri
ne senti l'odore nelle narici.
La luce cola dall'alto e si frantuma
in mille riquadri come una caduta di
coriandoli.
Qua e là visibili i ferri delle armature,
macchie di umidità. Ma non c'è
trascuratezza nelle persone che vi
lavorano. Sembra uno spazio amato.
Poggiate sul pavimento cataste di
piatti bricchi vasi piastrelle medaglioni
di mille colori accesi. Blu.
Verde. Giallo. I colori del mare.
Delle praterie e del deserto. Tutto
qui. A portata di mano. Si possono
toccare. Davide Vargas