Bruce Chatwin nasce a Sheffield nel 1940. Nel 1982, quando incarica John Pawson della ristrutturazione dell’appartamento che ha appena acquistato a Londra, ha 42 anni ed è ormai uno scrittore affermato. Il progetto dell’appartamento Chatwin è, cronologicamente, il secondo lavoro d’interni di John Pawson che lo affronta a 33 anni poco dopo aver lasciato la AA School. Nel breve racconto “Un posto per appendere il cappello” scritto da Chatwin nel 1986 Pawson è esplicitamente citato come l’autore della ristrutturazione del monolocale che lo scrittore ha comperato per sé al 77 di Eaton Place nel quartiere di Belgravia. Secondo lo scrittore i lavori eseguiti nella propria casa Londra in sua assenza lo soddisfano pienamente: “qualche mese dopo, tornando dall’Africa, trovai una stanza ariosa, ben proporzionata, un po’ simile a quelle di certi quadri del primo Rinascimento, piccole ma con una veduta che dà l’illusione di spazi illimitati”. E’ in questo testo che Chatwin, pur ammettendo di non essere mai stato in Giappone, descrive il significato del termine “Wabi” che diventerà il titolo del saggio postumo che costituisce l’introduzione della prima monografia sull’opera di John Pawson edita da Gustavo Gili di Bercellona. Nel saggio l’autore non svela di essere stato cliente di Pawson ma ricorda l’emozione della sua prima visita ad uno spazio progettato da lui. Entrambi sono degli autodidatti la cui educazione artistica esula alquanto dai canoni del consueto. Entrambi hanno scoperto la propria vocazione occupandosi d’altro, viaggiando e facendo incontri cruciali per il proprio futuro professionale. Nella stessa maniera in cui Chatwin non esita a manipolare la realtà per trasformarla in qualcosa di più esteticamente gratificante, così Pawson ci illude sulla genuina semplicità dei suoi spazi celando ogni (inevitabile) marchingegno dietro alle pareti. Eppure non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. Bruce Chatwin, zaino in spalla, era in grado davvero di viaggiare a piedi pur di tornare a casa con gli occhi pieni di immagini suggestive, allo stesso modo John Pawson ha caparbiamente remato controcorrente rispetto al gusto imperante al momento della sua consacrazione (basta ripensare per un momento alla ridondante iconografia architettonica della metà degli anni ottanta) fino a diventare il maestro riconosciuto del cosidetto minimalismo (uso improprio di termine nato per indicare un movimento artistico e solo successivamente divenuto sinonimo di architettura volutamente priva di decorazione, essenziale). Nel saggio introduttivo di cui sopra Chatwin scrive a proposito di Pawson: “vivere in uno dei suoi interni non è per i pigri di spirito o di fatto; anzi, richiede una certa forza di volontà. Non è invece necessario indossare il saio. Questo tipo di “riduzione” (all’essenziale) non nega il piacere ma è piuttosto rinvigorente e godibile”. Non siamo molto lontani da quanto sostiene Pawson in un breve saggio intitolato Minimalismo pubblicato per la prima volta sul quotidiano inglese The Guardian nell’Aprile del 2004 e quindi riproposto nella recente monografia edita da El Croquis: “Penso che sia importante capire che il minimalismo non è il manifesto del vivere spartano. Questo è un equivoco ricorrente che proviene in parte dalla sua associazione con movimenti per i quali l’idea della rinuncia è in qualche modo un tema centrale. Il minimalismo non è l’architettura della privazione o dell’assenza, non è neppure architettura definita da ciò che manca ma piuttosto dall’esattezza di ciò che esiste e dalla ricchezza con la quale ciò è apprezzato. Che Pawson sia un progettista ben più complesso di quello che può apparire ad una prima lettura è un fatto acquisito anche se, paradossalmente, è stato proprio il successo dell’estetica minimalista che ne ha forse ridotto l’apprezzamento da parte degli addetti ai lavori. Chatwin trovò in Pawson un interlocutore in grado di costruire uno spazio dove il suo occhio assoluto potesse riposare. Ben di più dunque di “un posto per appendere il cappello”. Gli accenni che Chatwin fa alla forma o alla distribuzione dello spazio non sono tuttavia sufficienti per restituircene un’immagine precisa. Chatwin si compiace piuttosto nel raccontare come l’appartamento si presentava al momento dell’acquisto. Lo descrive come il tipico covo di una spia: una monostanza spoglia, moquette macchiata per terra, un bagno, un letto a ribalta. Pawson ricavò dal bagno un’alcova per dormire, i servizi igienici ed un cucinino. Il resto del (poco) spazio era dedicato ai libri ed agli oggetti che Chatwin amava: -un tavolino pieghevole da giocoa
-una sedia in tubolare metallico
-un sofà francese proveniente dalla reggia di Versailles
-una poltrona francese del periodo della Reggenza
-un tavolo e uno sgabello finlandesi (Alvar Aalto per Artek) che per errore chiama “svedesi”
-un paramento peruviano di piume di pappagallo blu e gialle risalente al V secolo d.c.
-un foglio di calligrafia sufica da un Corano del VIII secolo
-un dipinto indiano rappresentante un albero di banane
-una croce senese del Quattrocento
-una rosetta di bronzo dorato proveniente da un tempio buddista giapponese
-una raccolta di lacche negoro giapponesi
-una scultura in vetroresina di John Duff