di Massimiliano Di Bartolomeo

Between Earth and Heaven. The architecture of John Lautner
Edited by Nicholas Olsberg Rizzoli International, New Yor k 2008 (pp. 234, $ 60.00)

Ci sono architetture che superano i progettisti che le hanno inventate. Luoghi che appartengono all'humus culturale collettivo, perché veicolati attraverso sistemi mediatici popolari, senza i filtri dello status accademico o della critica più impegnata: perché semplicemente sono sfondo di un film di successo, o del video di una star della musica, oppure perché l'ultimo servizio fotografico di moda è stato realizzato proprio lì. Ci sono architetture che sono un po' come quelle canzoni di cui tutti conoscono il refrain, senza però avere idea del nome e del volto di chi le canti. Le architetture di John Lautner sono un po' tutto questo, e forse non per caso.

Lautner parlava di un'architettura che fosse invenzione strutturale, dove fossero proprio le componenti della struttura a convergere nell'articolazione dello spazio. L'abitante è una silhouette da lasciare sfocata sullo sfondo, magari di Acapulco: tra le linee continue che confondono cielo, mare e terrazza del Mar Brisas Residence, progetto del 1973. Lautner era sempre alla ricerca della spettacolarizzazione, tanto da far riconoscere un certo fil rouge tra la sua e l'opera più recente di Gehry.

Normale quindi che le sue architetture, come Chemosphere, da sogno, potessero rapidamente diventare incubo, magari stravagante: ma l'estremismo di una casa disegnata come una navicella UFO, e sospesa nell'aria da un unico pilastro centrale a fungo, testimonia come l'essenza wrightiana, nell'architettura organica, non vada certo ricercata nelle forme bensì nello spirito. Zevi lo affermava proprio nell'osservare l'architettura di Lautner, già allievo di Frank Lloyd Wright e interprete, del tutto autonomo, del progettare organico. Insomma la sostanza è forse altrove, lontana dalle istantanee di queste architetture scenografiche, che piacevano ai divi di Hollywood, e che, ancora oggi, sono location ideali e preferite per produzioni cinematografiche e musicali.

Between Earth and Heaven, la monografia curata da Nicholas Olsberg, muove proprio sul confine tra forma e sostanza, progetto e intuizione, artificio e natura, dell'architettura di Lautner: la cui ambiguità è esplicita nell'involontaria confusione in cui si cade nell'osservare le fotografie delle maquette piuttosto che quelle dei progetti veramente realizzati. Non è sempre chiaro cosa sia vero e cosa finto, tra muri in cemento che svoltano improvvisamente come lembi di cartoncino e travi in legno che si allungano come stecchini di balsa. Gli stessi abitanti, talvolta paiono sagome in cartone. E proprio nel capitolo Structuring Space, sono raccontati progetti che testimoniano come l'organicità non sia nella forma in quanto tale bensì nella normalità con cui, anche il più raffinato calcolo strutturale, e la più ingegnosa applicazione tecnologica, siano addomesticati alla brutalità della natura: basti vedere la Pearlman Mountain Cabin, dove le colonne di tronco sono foresta nella foresta e trattengono a fatica l'aggetto della terrazza, oppure pensare alla Walstrom House, dove i pieni e i vuoti sono il vetro e il legno, e la casa sembra ritagliare i suoi spazi direttamente tra gli arbusti e le foglie che la circondano e trapassano. Non a caso, i progetti di Lautner muovono da raffinate invenzioni ingegneristiche: tali da far sembrare Hope House un guscio che sorge dalla sabbia di Palm Springs, senza svelarne la natura della struttura.

Eppure in queste istantanee, quasi metafisiche, anche se per altri ordini geometrici, si apprezza come la spettacolarizzazione dell'architettura avvenga comunque attraverso dimensioni appartenenti alla scala umana. Non sono necessari salti improvvisi per promuovere la monumentalità di una pensilina o di una palafitta: il confronto stesso con il paesaggio è manifestato in un rapporto simbiotico tra progetto e natura comunque testimoniato nello sguardo esclusivo di chi osserva. In tal senso, è forse possibile affermare che l'abitante è proprio dietro l'obbiettivo, autore involontario di inquadrature continue che non ammettono altre presenze.

Quasi a significare un rapporto privilegiato tra architettura, paesaggio e, finalmente, abitante: incredibile se non vissuto personalmente, come silhouette sfocata sullo sfondo del mare di Acapulco.