Chi è Romain Gavras, il regista dell’architettura che genera rabbia

Per arrivare a muovere le masse all’interno di una Parigi fasulla che mescola la zona centrale, la torre Eiffel e la peggior edilizia di massa cinese (Sky City), lavorando a metà tra l’assalto ai simboli archetipici, le ragazze del nuoto sincronizzato dei musical con Esther Williams e le geometrie umane dei videoclip di elettronica di Michel Gondry, ci vogliono anni di lavoro e cesello su un immaginario preciso. Per avere uno sguardo chiaro come quello che Romain Gavras sfoggia nel video musicale di Gosh di Jamie XX, bisogna padroneggiare perfettamente quell’universo visivo, quei riferimenti e saper filmare gli spazi aperti al pari di quelli chiusi. Che poi sono esattamente le doti, guarda caso, che servono per realizzare un’epica shakespeariana della metropoli moderna, un Signore Degli Anelli che contrappone periferia arrabbiata con bandana sulla bocca e tute, a poliziotti in assetto antisommossa, ovvero il prossimo film di Romain Gavras: Athena, che sarà su Netflix dal 23 Settembre. L’apoteosi della sua carriera, pura rabbia messa su film.

Athena, Romain Gavras, 2022

Un conflitto su scala mai vista, girato come fosse un video musicale, tutto piani sequenza e uso creativo dei droni all’interno di un quartiere periferico (per l’appunto Athena, a Parigi). Perché se c’è una cosa che Gavras ha affermato tramite le immagini per tutta la sua carriera è che l’aggressività e brutalità architettonica di quei luoghi lì, quei palazzi e quelle aree, imposta dalla società a chi ha meno, ha finito per trasferirsi addosso alle persone che li abitano. Tramite l’edilizia è stata creata una giovane generazione arrabbiata che adesso si stringe attorno a quei palazzi e trae da loro la propria forza ribelle.

Quindi se c’è un oggetto che più di tutti rappresenta lo stile di Romain Gavras è la molotov. Un feticcio che ricorreva nei suoi video musicali e poi è entrato di diritto nei film. Il simbolo perfetto di un artista che ha fondato un’estetica contemporanea intorno alla rabbia dei marginali, le periferie, l’edilizia popolare e uno stile d’abbigliamento che non imita mai la moda ufficiale ma è composto da elementi aggressivi, tute, catene, giubbotti bomber e bandane. Kombat Banlieue contemporaneo che anima gli spazi urbani in modi al tempo stesso familiari e nuovi. Gavras non fonda una mitologia nuova intorno alla periferia, ma eleva quella che già esiste, la realtà dello streetwear, delle movenze e degli atteggiamenti da strada, fondendolo con i palazzi, le aree verdi tenute male, i graffiti sui muri, le aree vuote senza un perché e le baracche. Tutto contribuisce a creare la rabbia.

Gosh, Jamie XX, 2015

Nel suo primo video musicale c’era già tutto, I Believe dei Simian Mobile Disco, in cui un gruppo di ragazzi con volti, corpi e abbigliamento da periferia fa sfoggio di sé, del proprio swag e dei luoghi che abita come fossero proprietari di chissà quali ambienti raffinati e desiderabili. Quel mondo è loro, li rappresenta e loro lo rappresentano. Sarà però qualche anno dopo con Stress dei Justice che si affaccia con chiarezza la capacità di Gavras di incastrare i personaggi in un paesaggio. In quel video musicale fatto di gang, case popolari, giubbotti tutti uguali con logo sulla schiena, cattiveria, vandalismo, botte, palazzoni e ragazzetti arroganti, fa fare un salto in avanti a L’odio di Kassovitz, perché chi viene dalla banlieue non ha più bisogno di sembrare vittima ma contrattacca senza un vero perché. E già lì, 14 anni fa, c’è un’inquadratura che ritorna in Athena, pazzesca, delle auto in corsa viste dal lato, con un drone ad alta velocità.

Gosh, Jamie XX, 2015

I corpi, la rabbia e l’ingenuità dei ragazzi tra i 13 e i 18 anni sono la vera passione di Gavras. Nel suo immaginario sono sempre persone già formate (spesso vestiti tutti alla stessa maniera, come con una divisa), dotate di desideri e volontà di ferro, un’organizzazione quasi militare e nessun limite in quel che sono disposti a fare. Forse perché anche lui non era diverso. Ce ne vuole infatti per fondare a 13 anni un collettivo, Kourtrajmé (verlan francese gergale per courtmetrage), con un paio di amici e mantenerlo così attivo fino ai 40 anni. Ancora Athena infatti è realizzato con altri membri di Kourtrajmé (Lady Lj alla sceneggiatura) e I miserabili, film di due anni fa tutto banlieue e resistenza, era un altro esempio del collettivo (diretto da Lady Lj, prodotto da Gavras).

Con una conoscenza simile i ragazzi li puoi anche far esplodere, come nel controverso video musicale Born Free di M.I.A., in cui alle angherie della polizia in tenuta antisommossa nei confronti di persone inermi sono i ragazzini a rispondere, scatenando una guerra nel deserto sanguinosa e senza sconti per chi guarda, pensata e girata per disturbare con le sue parti umane che esplodono a favore di obiettivo. Manca la città, quindi manca un pezzo, e si sente. Born Free ha grande cattiveria politica ma pochissimo stile.

Bad Girls, M.I.A., 2012

Sarà lo stesso in un altro video per M.I.A., quello di Bad Girls, girato anch’esso lontano dalle metropoli, che gioca con il mondo arabo con ironia, posizionando auto impolverate degli anni ‘90 nel deserto su strisce di asfalto, e donne che si atteggiano come fanno di solito gli uomini, possiedono gli oggetti tipici del potere fallico ed esibiscono un’ironica posa di dominio su auto che si muovono su due ruote. Puro showcase di abilità da quartierino, sgommate ed esibizione. Gente che il mondo se lo vuole prendere. Ma che montaggio e che inquadrature, di nuovo, di drone! Così cruciale è per i suoi riferimenti visivi il mondo dei ragazzini arrabbiati delle periferie che Gavras riesce ad infilarli anche nei suoi spot pubblicitari, come in quello per la campagna Adidas Is All In, in cui alle grandi figure dello sport affianca l’ardore dei suoi ragazzi, o quello di Powerade in cui la grinta di un pugile ci viene mostrata tutta radicata in un’infanzia di periferia e botte.

No Church In The Wild, Kanye West, Jay-Z, 2012

Madre produttrice cinematografica e padre idolo del cinema arrabbiato anni ‘70 e ‘80 (Costa Gavras, pseudonimo di Kostantinos Gavras), Romain Gavras è cresciuto in una famiglia con tutti i riferimenti giusti, in cui la lotta era argomento di discussione a tavola. Tradurla in una chiave estetica chiara e completa è stata quindi una conquista arrivata per davvero con No Church In The Wild. È il 2012 e quel video del brano di Jay-Z e Kanye West con Frank Ocean è la prova generale per Athena. Uno scontro tra polizia e ragazzi arrabbiati lungo quasi 5 minuti, montato scegliendo le parti essenziali e ambientato non più nei deserti ma finalmente per le strade. Architettura da centro Parigi, strade pulite da infangare con i lacrimogeni, auto costose da ribaltare, vetrine di negozi di livello distrutte mentre dietro passa la polizia a cavallo che carica come in una lotta medievale. Dopo l’esperimento di Stress nasce qui davvero il Kombat Banlieue, quell’idea per la quale il movimento della protesta e della lotta, le scelte dell’abbigliamento dei ribelli sia tutto stile, sia l’estetica cruciale dei nostri anni e che lo stile sia una forma di potere. I suoi ribelli non sono dei disperati perché non lo sembrano e quell’abbigliamento da poco diventa una divisa.

Stress, Justice, 2007

Intanto Our Day Will Come era già uscito, debutto nel lungometraggio, storia folle di ribellioni assurde. Un ragazzo e un adulto rossi di capelli sì ribellano ad un mondo che li emargina per questo. Non ha nessun senso (e non è indimenticabile) ma non a caso si accende quando la follia combattiva si impadronisce delle immagini e qualcuno dà fuoco ad un’auto. Non andrà molto meglio The World Is Yours, secondo film, un po’ più compiuto, una commedia con gangster che però non fa davvero ridere né è davvero cinema criminale Lì però, di nuovo, c’è un’inquadratura di quelle che in pochi possono vantare, la prima, in cui un gruppo di uomini è immobile in uno scenario di periferia, fermi in tensione con un martellone pronti a sfondare qualcosa e in attesa del passaggio di un treno della metropolitana sopraelevata per farlo senza essere sentiti. Streetwear, desolazione, volti maghrebini, cattiveria e un’impennata di suono per l’arrivo del vagone che corrisponde esattamente con l’innesco dell’azione furiosa: un assalto per liberare un cane (!).

Our Day Will Come, Romain Gavras, 2010

Questo è il percorso che porta a Gosh, prima di Athena, la sua opera più compiuta, un musical elettronico dentro la più finta delle città e al tempo stesso la più popolare e aggressiva delle periferie del mondo. Masse con abiti uguali ma anche volti truccati uguali e una maniera pazzesca di incastrare le persone nelle architetture. Ci sono almeno un paio di sequenze perfette (che non a caso prevedono un drone), quella dal volto del protagonista del video, all’indietro fino a renderlo un puntino bianco in una selva di finestre da palazzone, e poi l’altra, quella che da sola definisce un’intera carriera, in cui un gruppo di persone si muove disegnando un una spirale alla perfezione e il movimento di drone ci mostra che sono dentro la torre Eiffel (o meglio la sua replica). Le persone che assaltano i luoghi cardine delle città e li fanno loro attraverso il movimento, occupandoli con la grazia del ballo coordinato e lo stile dell’abbigliamento ma un fare che risulta sempre aggressivo.

In Gosh il Kombat Banlieue non ha molotov e scontri ma la coreografia come arma di appropriazione degli spazi, in Athena invece i palazzi diventano torri, i ponti diventano mura di una città medievale, i vari livelli delle zone verdi sono caverne e vie di fuga. In una regressione brutale la periferia diventa uno spazio pre-civiltà, roccaforte per difendersi e contrattaccare. Quando al termine del primo furioso piano sequenza di 10 minuti, nel quale i ribelli assaltano una caserma della polizia, rubano le armi e tornano al quartiere per asseragliarsi, il drone li riprende con un movimento all’indietro che allarga la prospettiva e li incastra come signori feudatari a guardia del loro impero (e compare il titolo ATHENA), lì è evidente come Romain Gavras abbia capito, e sappia mostrare senza parole, l’essenza più pura dell’audiovisivo: comprimere un concetto politico in una allegoria visiva fondata sullo stile.

Gosh, Jamie XX, 2015

Hayy Jameel, l’edificio della nuova primavera di Jeddah

È l’ora del tramonto a Jeddah, da secoli cancello d’accesso alla Mecca dal Mar Rosso. Nell’area settentrionale della città, non distante dal sontuoso nuovo terminal dell’aeroporto inaugurato nel 2019, accanto a un lotto di terra per ora abbandonato – un rettangolo di deserto dove si affollano i piccioni e da cui si scorge il consolato americano – sorge un nuovo edificio: un algido parallelepipedo che segna un elemento di discontinuità in questo quartiere soprattutto residenziale. È Hayy Jameel, il nuovo hub per le arti della città.

La facciata bianco perla a quest’ora cambia colore. I riflessi oro e blu, come sottolinea l’architetto libanese Wael Al Awar, che questo edificio l’ha progettato, sono unici, “una cosa del genere a Singapore o nel Regno Unito non potrebbe succedere”. È la luce di Jeddah, “una luce speciale, che non si trova altrove”, quella di un sole caldissimo, che di giorno sbianca ogni cosa. Calando sul Mar Rosso rilascia sfumature soffuse, preziose.

Questo essere in perpetua mutazione è profondamente simbolico. Corrisponde all’essenza di una architettura pensata per cambiare nel tempo, rimodulandosi negli spazi a seconda delle esigenze. Fino all’estrema possibilità che le parti in acciaio — tutti pezzi standard — vengano smantellate e riutilizzate. “Questa architettura non è statica”, sintetizza Al Awar, fondatore dello studio waiwai e curatore del padiglione degli Emirati Arabi all’ultima Biennale di Venezia, premiato con il Leone d’Oro.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Che cos’è Hayy Jameel

Jameel è la famiglia di filantropi originaria proprio di Jeddah che ha finanziato l’edificio, fratello minore – per età, non per ambizione – dell’Art Jameel di Dubai. Hayy in arabo significa quartiere. È il nome scelto per uno spazio che vuole essere “accessibile, comune e collaborativo”, come si legge sul sito ufficiale.

Tuttavia, Hayy Jameel non si apre esplicitamente alla strada e al vicinato. “Questa è una zona residenziale, non potevamo fare altrimenti”, dice Al Awar, spiegando che l’edificio, già più alto delle case circostanti, è stato progettato in modo da non invadere la privacy altrui. Non si offre allo sguardo e al tempo stesso non dà la possibilità di guardare. È uno scrigno ricco di sorprese, ma opaco, disegnato per essere scoperto dall’interno.

L’unica ideale trasparenza con ciò che Hayy Jameel contiene è la facciata, una superficie lunga 25 metri che ogni anno ospiterà l’opera di un artista diverso, un programma in collaborazione con Lexus. Apre le danze, dalla capitale Ryhad, Nasser Almulhim, con un disegno ispirato a una favola locale che racconta di uccelli e carestia.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Hayy Jameel: oasi, arena, spazio pubblico

Ai due lati della facciata si trovano le scalinate che portano al cortile interno, Sana. Se Hayy Jameel è un quartiere, per Al Awar questo spazio ne rappresenta la piazza. Anzi, l’agorà. La sfida, spiega, è stata riportarne le dimensioni a una scala umana laddove la progettazione nei paesi Golfo è tutta a dimensione di automobile — il suo riferimento sono stati i cortili di Damasco, dove l’architetto è nato, o quelli del Marocco. “Ma anche a Jeddah abbiamo un esempio di questa scala, nella città vecchia”. Fa riferimento ad Al-Balad, nucleo storico di questa metropoli da 5 milioni di abitanti che risale al settimo secolo. Una ragnatela di vicoli e stradine che serpeggiano tra palazzi e moschee e bazaar, dove da sempre cittadini e pellegrini si muovono a piedi o sul dorso di un cammello.

Nel cortile di Hayy Jameel intanto crescono le piante. Zamie, alberi del viaggiatore e palme a coda di volpe, trapiantate nei giorni dell’inaugurazione, offrono ombra e riparo dal caldo di questa città strappata al deserto, creando “una piccola oasi”, come la definisce Al Awar.

Sana è un luogo multifunzione che si può trasformare in una piccola arena multilivello per concerti, nello spazio che ospita un mercato, nel giardino dove leggere un libro o bere un caffè con gli amici, ma è prima di tutto concepito come luogo d’incontro e vicinanza. Un’oasi a misura d’uomo, per gli abitanti di una città che si è sviluppata a misura d’auto.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Il cinema qui non è la stessa cosa

Nei 17mila metri quadri di superficie di Hayy Jameel c’è posto per residenze d’artista e spazi per esposizioni, luoghi per eventi, performance e laboratori, negozi e piattaforme educative, un comedy club. E il cinema: quando il progetto è stato concepito, sette anni fa, era un black box. Il motivo è semplice. Per trent’anni il cinema è stato proibito in Arabia Saudita.

Il suo design ha la firma di Bricklab, uno studio fondato nel 2015 dai fratelli Abdulrahman e Turki Hisham Gazzaz. “In città non esistono biblioteche di cinema, non ci sono archivi, questo spazio nasce per essere sia educativo, sia un riferimento per la sperimentazione”, spiegano i fratelli. Nati a Jeddah, sono tornati recentemente qui dopo gli studi all’estero. Anticipato da una installazione, lo spazio cinematografico di Hayy Jameel aprirà in primavera.

Ritorno a Jeddah

Nel corso della nostra conversazione, i fondatori di Bricklab mi danno una informazione che è fondamentale per orientare qualsiasi pensiero sulla loro città natale, sottolineando che le keyword della città – organizzate a chiasmo –sono “arte e cultura, cultura e arte”.

Al-Balad,Jeddah, Arabia Saudita

Quella dei Gazzaz è una storia molto comune qui tra i millennial, almeno tra quelli che mi capita di incontrare nei pochi giorni che spendo nella città saudita: quasi tutti under 40 che hanno studiato all’estero — in Canada, a Londra, a Bristol, qualcuno negli Stati Uniti — e da poco sono tornati, portando un importante contributo di conoscenze, creatività ed energie.

È anche il caso della giovane imprenditrice Tamara Abukhadra, dopo 18 anni passati a Londra. Nel 2014 ha fondato Homegrown Market, un concept store che raccoglie il meglio che il mondo arabo possa offrire in fatto di fashion design, cibo e beauty. Ora è anche un pop-up all’interno di Hayy Jameel. “Sono onorata di fare parte di una comunità così creativa”, dice con sincero entusiasmo Abukhadra durante una chiacchierata a pranzo. A differenza di molte donne qui, intabarrate nel tradizionale abaya nero, non porta hijab e indossa un vestito colorato, palesemente locale ma globalmente arabo. Mi racconta la vita dei ragazzi di Jeddah, come l’area centrale della città sia abitata soprattutto dalle generazioni più vecchie, mentre i giovani si concentrano verso nord, dove ci sono i nuovi quartieri di tendenza – e dove c’è il suo negozio.

Qui la vita sociale, spiega, corre principalmente attraverso inviti tra amici su whatsapp o via mail. “Non ci sono club, solo caffè. Le feste sono tutte private, organizzate in casa”. Che siano per soli uomini o sole donne è assolutamente normale. Alle volte c’è anche dell’alcol. Accenna poi ai party nel deserto, più liberi, ma sono tutti fuori da Riyadh, dall’altro lato di questo paese vastissimo.

Al-Balad, Jeddah, Arabia Saudita
Luci e ombre di un paese in trasformazione

Il funzionario riassume per grandi punti le riforme del giovane principe Mohammed bin Salman al-Saud — abbreviato MBS, per semplicità — grazie alle quali l’Arabia Saudita sta cambiando volto. Riguardano soprattutto le regole che relegavano le donne a una posizione che molto sommariamente noi europei amiamo definire “medievale”, dalle imposizioni sul vestiario (sollevate) al lavoro (ora le donne possono fare qualsiasi lavoro). Racconta dell’ottimismo di un paese che cambia, che si apre al turismo internazionale. Ma anche di quel che succede in piazza Deera, la cosiddetta “chop chop square” di Riyadh, dove vengono spiccate le teste di criminali, oppositori e omosessuali; di tutte le volte che è entrato in un locale e chi c’era dentro, vedendo entrare un europeo, ha reagito uscendo. Dell’attentato del 2007 contro un gruppo di turisti francesi, e di episodi più recenti.

Durante uno dei tanti transfer in questa città dove non esiste la metropolitana e in generale i mezzi pubblici, complice anche una scarsa dimestichezza con l’arabo, sono rimasti per me una sorta di leggenda urbana, finisco seduto accanto a un funzionario del governo francese, che da anni si occupa di collaborazioni importanti tra gli enti museali cisalpini e i paesi del Golfo, come il Louvre ad Abu Dhabi, o il Pompidou di AlUla.

Qualche settimana dopo la mia visita, Mayeul Barbet, pilota francese della Paris-Dakar, è stato vittima di un attentato proprio qui a Jeddah. Il dubbio morale, secondo il funzionario francese, è se disinteressarsi di quello che succede da queste parti, o restare qui “per rendere le cose migliori”. D’altra parte, i petroldollari della famiglia saudita, i più ricchi regnanti del mondo, sono una attrattiva fortissima per paesi come la Francia (o l’Italia), dove la cultura è tra gli ultimi asset economici rilevanti spendibili su scala globale.

Podio F1, Jeddah, Arabia Saudita
Jeddah Corniche, Jeddah, Arabia Saudita

Di sicuro a Jeddah, multiculturale per storia e vocazione, si respira un grande ottimismo sull’onda delle riforme di MBS. I locals mostrano un entusiasmo verso il futuro quasi spiazzante. Ma fuori dal regno questo resta il paese di Kashoggi, il giornalista dissidente trucidato in Turchia probabilmente da agenti sauditi, e dove al primo gran premio di Formula 1, corso proprio a Jeddah, Lewis Hamilton trionfa indossando come uno schiaffone al sistema saudita un casco con la bandiera del Pride. “Se mi sento a mio agio a correre qui? Non posso dire di esserlo”, aveva commentato il pilota Mercedes prima della gara.

A distanza di qualche giorno dal gran premio, si poteva ancora scorgere il podio passeggiando sulla Jeddah Corniche, tra il lungomare recentemente rinnovato e uno Starbucks. Senza conoscere il contesto, lo si sarebbe potuto confondere per una delle statue che punteggiano la città, molte bizzarre, altre apprezzabili, qualcuna un capolavoro. Quasi tutte sono collocate al centro delle tantissime rotatorie che scandiscono la viabilità di questa metropoli-autostrada, o lungo gli svincoli dove per qualche istante solitari esseri umani si avvicinano l’uno all’altro, chiusi in abitacoli climatizzati, prima di lanciarsi sui rettilinei.

Le statue sono l’eredità dell’ambiziosa operazione di arte pubblica lanciata da Mohammed Said Farsi, il sindaco che invitando negli anni Settanta nomi stellari come Joan Mirò, Arnaldo Pomodoro, Alexander Calder ed Henry Moore fu il primo a introdurre arte e scultura occidentali in una città araba. “Ha trasformato Jeddah in un panorama di monumenti del deserto che sarebbero piaciuti a JG Ballard”, scriveva nel 2015 Jonathan Jones sul Guardian.

Jeddah, Arabia Saudita
Dal boom del petrolio a Hayy Jameel

Per capire come sia cresciuta Jeddah dal boom del petrolio e in che modo, visito Saudi Modern, l’iniziativa di Bricklab che documenta l’imprevista evoluzione urbanistica e architettonica dell’Arabia Saudita nei decenni che sono seguiti al 1938. Una data che nel regno conta come un anno zero. La sede è in una villetta a due piani, dall’altra parte di una strada dove sulla parte esterna di un muro di cinta, dettaglio quasi surreale, è montato un lavandino. In una sala, una mappa e un grande plastico dettagliano l’espansione di Jedda, una metropoli stretta tra mare e deserto, e si può vedere chiaramente come dall’intricato reticolo di strade della città vecchia, per proporzioni oramai un francobollo, si dipani un sistema divergente di griglie ortogonali, del tutto simili a quelle delle città americane, che con le loro larghe maglie caratterizzano il tessuto urbano odierno.

La mostra si concentra su un periodo che arriva fino ai primi anni Sessanta, quello del primo grande boom, ma è evidente che oggi questa città stia nuovamente vivendo un momento di forte trasformazione. Durante la conversazione con Al Awar, l’architetto sottolinea che quando il progetto Hayy Jameel è nato, Jeddah contava 4 milioni di abitanti, sette anni fa. Nel 2024, saranno 7 milioni. Ma non è solo una questione di numeri. Qui verrà costruita la torre più alta del mondo, qui sono stati spesi più di 200 milioni di dollari per creare un lungomare che diventasse lo sfondo da favola per le instagrammate dei turisti. E nei giorni seguenti alla inaugurazione di Hayy Jameel, il nuovo festival del Mar Rosso ha riposizionato d’emblée Jeddah sulla scacchiera internazionale del cinema. Senza contare gli eventi dedicati all’arte contemporanea, la Bienal Sur per esempio, le tante fiere come Shara o 21,39 Jeddah Arts, più tutto quello che accade nel già vivace circuito di gallerie sparse nella città.

Di questo fermento e della trasformazione in atto, l’hub culturale Hayy Jameel e la sua architettura sono al tempo stesso riflesso e parte integrante. “Un luogo dove coesistere”, l’ha definito Antonia Carver, direttrice di Art Jameel. L’edificio di rappresenta quello che Jeddah è in atto e in potenza. La riflette simbolicamente, e rappresenta quello che vorrebbe sembrare sempre di più. Lo fa senza fronzoli, senza presentarsi vanitosamente con l’ambizione di essere un landmark da copertina, ma con una modestia genuinamente islamica. E un ottimismo che non può che risultare esotico ai miei occhi di europeo.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu

Con l’apertura di Hayy Jameel hanno inaugurato la mostra “Illuminate”, con 11 grandi installazioni di artisti sauditi dedicate alla luce, “Staple: What’s on your plate”, in cui l’esplorazione del cibo diventa l’occasione per conoscere culture e pratiche artistiche diverse, e “Paused Mirror”, con i ritratti di artisti sauditi scattati dal fotografo siriano Osama Esid che si rincorrono in diversi punti dell’edificio. E c’è anche “Red Sea: immersive”, la sezione in realtà virtuale del festival cinematografico del Mar Rosso.