Hayy Jameel, l’edificio della nuova primavera di Jeddah

Nella città più cosmopolita dell’Arabia Saudita, in un clima di rinnovato fervore culturale, apre l’hub culturale che fa il paio con l’Art Jameel di Dubai. Una inaugurazione tra i chiaroscuri di un paese in veloce trasformazione.

Hayy Jameel, l’edificio della nuova primavera di Jeddah

Nella città più cosmopolita dell’Arabia Saudita, in un clima di rinnovato fervore culturale, apre l’hub culturale che fa il paio con l’Art Jameel di Dubai. Una inaugurazione tra i chiaroscuri di un paese in veloce trasformazione.

È l’ora del tramonto a Jeddah, da secoli cancello d’accesso alla Mecca dal Mar Rosso. Nell’area settentrionale della città, non distante dal sontuoso nuovo terminal dell’aeroporto inaugurato nel 2019, accanto a un lotto di terra per ora abbandonato – un rettangolo di deserto dove si affollano i piccioni e da cui si scorge il consolato americano – sorge un nuovo edificio: un algido parallelepipedo che segna un elemento di discontinuità in questo quartiere soprattutto residenziale. È Hayy Jameel, il nuovo hub per le arti della città.

La facciata bianco perla a quest’ora cambia colore. I riflessi oro e blu, come sottolinea l’architetto libanese Wael Al Awar, che questo edificio l’ha progettato, sono unici, “una cosa del genere a Singapore o nel Regno Unito non potrebbe succedere”. È la luce di Jeddah, “una luce speciale, che non si trova altrove”, quella di un sole caldissimo, che di giorno sbianca ogni cosa. Calando sul Mar Rosso rilascia sfumature soffuse, preziose.

Questo essere in perpetua mutazione è profondamente simbolico. Corrisponde all’essenza di una architettura pensata per cambiare nel tempo, rimodulandosi negli spazi a seconda delle esigenze. Fino all’estrema possibilità che le parti in acciaio — tutti pezzi standard — vengano smantellate e riutilizzate. “Questa architettura non è statica”, sintetizza Al Awar, fondatore dello studio waiwai e curatore del padiglione degli Emirati Arabi all’ultima Biennale di Venezia, premiato con il Leone d’Oro.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Che cos’è Hayy Jameel

Jameel è la famiglia di filantropi originaria proprio di Jeddah che ha finanziato l’edificio, fratello minore – per età, non per ambizione – dell’Art Jameel di Dubai. Hayy in arabo significa quartiere. È il nome scelto per uno spazio che vuole essere “accessibile, comune e collaborativo”, come si legge sul sito ufficiale.

Tuttavia, Hayy Jameel non si apre esplicitamente alla strada e al vicinato. “Questa è una zona residenziale, non potevamo fare altrimenti”, dice Al Awar, spiegando che l’edificio, già più alto delle case circostanti, è stato progettato in modo da non invadere la privacy altrui. Non si offre allo sguardo e al tempo stesso non dà la possibilità di guardare. È uno scrigno ricco di sorprese, ma opaco, disegnato per essere scoperto dall’interno.

L’unica ideale trasparenza con ciò che Hayy Jameel contiene è la facciata, una superficie lunga 25 metri che ogni anno ospiterà l’opera di un artista diverso, un programma in collaborazione con Lexus. Apre le danze, dalla capitale Ryhad, Nasser Almulhim, con un disegno ispirato a una favola locale che racconta di uccelli e carestia.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Hayy Jameel: oasi, arena, spazio pubblico

Ai due lati della facciata si trovano le scalinate che portano al cortile interno, Sana. Se Hayy Jameel è un quartiere, per Al Awar questo spazio ne rappresenta la piazza. Anzi, l’agorà. La sfida, spiega, è stata riportarne le dimensioni a una scala umana laddove la progettazione nei paesi Golfo è tutta a dimensione di automobile — il suo riferimento sono stati i cortili di Damasco, dove l’architetto è nato, o quelli del Marocco. “Ma anche a Jeddah abbiamo un esempio di questa scala, nella città vecchia”. Fa riferimento ad Al-Balad, nucleo storico di questa metropoli da 5 milioni di abitanti che risale al settimo secolo. Una ragnatela di vicoli e stradine che serpeggiano tra palazzi e moschee e bazaar, dove da sempre cittadini e pellegrini si muovono a piedi o sul dorso di un cammello.

Nel cortile di Hayy Jameel intanto crescono le piante. Zamie, alberi del viaggiatore e palme a coda di volpe, trapiantate nei giorni dell’inaugurazione, offrono ombra e riparo dal caldo di questa città strappata al deserto, creando “una piccola oasi”, come la definisce Al Awar.

Sana è un luogo multifunzione che si può trasformare in una piccola arena multilivello per concerti, nello spazio che ospita un mercato, nel giardino dove leggere un libro o bere un caffè con gli amici, ma è prima di tutto concepito come luogo d’incontro e vicinanza. Un’oasi a misura d’uomo, per gli abitanti di una città che si è sviluppata a misura d’auto.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu
Il cinema qui non è la stessa cosa

Nei 17mila metri quadri di superficie di Hayy Jameel c’è posto per residenze d’artista e spazi per esposizioni, luoghi per eventi, performance e laboratori, negozi e piattaforme educative, un comedy club. E il cinema: quando il progetto è stato concepito, sette anni fa, era un black box. Il motivo è semplice. Per trent’anni il cinema è stato proibito in Arabia Saudita.

Il suo design ha la firma di Bricklab, uno studio fondato nel 2015 dai fratelli Abdulrahman e Turki Hisham Gazzaz. “In città non esistono biblioteche di cinema, non ci sono archivi, questo spazio nasce per essere sia educativo, sia un riferimento per la sperimentazione”, spiegano i fratelli. Nati a Jeddah, sono tornati recentemente qui dopo gli studi all’estero. Anticipato da una installazione, lo spazio cinematografico di Hayy Jameel aprirà in primavera.

Ritorno a Jeddah

Nel corso della nostra conversazione, i fondatori di Bricklab mi danno una informazione che è fondamentale per orientare qualsiasi pensiero sulla loro città natale, sottolineando che le keyword della città – organizzate a chiasmo –sono “arte e cultura, cultura e arte”.

Al-Balad,Jeddah, Arabia Saudita

Quella dei Gazzaz è una storia molto comune qui tra i millennial, almeno tra quelli che mi capita di incontrare nei pochi giorni che spendo nella città saudita: quasi tutti under 40 che hanno studiato all’estero — in Canada, a Londra, a Bristol, qualcuno negli Stati Uniti — e da poco sono tornati, portando un importante contributo di conoscenze, creatività ed energie.

È anche il caso della giovane imprenditrice Tamara Abukhadra, dopo 18 anni passati a Londra. Nel 2014 ha fondato Homegrown Market, un concept store che raccoglie il meglio che il mondo arabo possa offrire in fatto di fashion design, cibo e beauty. Ora è anche un pop-up all’interno di Hayy Jameel. “Sono onorata di fare parte di una comunità così creativa”, dice con sincero entusiasmo Abukhadra durante una chiacchierata a pranzo. A differenza di molte donne qui, intabarrate nel tradizionale abaya nero, non porta hijab e indossa un vestito colorato, palesemente locale ma globalmente arabo. Mi racconta la vita dei ragazzi di Jeddah, come l’area centrale della città sia abitata soprattutto dalle generazioni più vecchie, mentre i giovani si concentrano verso nord, dove ci sono i nuovi quartieri di tendenza – e dove c’è il suo negozio.

Qui la vita sociale, spiega, corre principalmente attraverso inviti tra amici su whatsapp o via mail. “Non ci sono club, solo caffè. Le feste sono tutte private, organizzate in casa”. Che siano per soli uomini o sole donne è assolutamente normale. Alle volte c’è anche dell’alcol. Accenna poi ai party nel deserto, più liberi, ma sono tutti fuori da Riyadh, dall’altro lato di questo paese vastissimo.

Al-Balad, Jeddah, Arabia Saudita
Luci e ombre di un paese in trasformazione

Il funzionario riassume per grandi punti le riforme del giovane principe Mohammed bin Salman al-Saud — abbreviato MBS, per semplicità — grazie alle quali l’Arabia Saudita sta cambiando volto. Riguardano soprattutto le regole che relegavano le donne a una posizione che molto sommariamente noi europei amiamo definire “medievale”, dalle imposizioni sul vestiario (sollevate) al lavoro (ora le donne possono fare qualsiasi lavoro). Racconta dell’ottimismo di un paese che cambia, che si apre al turismo internazionale. Ma anche di quel che succede in piazza Deera, la cosiddetta “chop chop square” di Riyadh, dove vengono spiccate le teste di criminali, oppositori e omosessuali; di tutte le volte che è entrato in un locale e chi c’era dentro, vedendo entrare un europeo, ha reagito uscendo. Dell’attentato del 2007 contro un gruppo di turisti francesi, e di episodi più recenti.

Durante uno dei tanti transfer in questa città dove non esiste la metropolitana e in generale i mezzi pubblici, complice anche una scarsa dimestichezza con l’arabo, sono rimasti per me una sorta di leggenda urbana, finisco seduto accanto a un funzionario del governo francese, che da anni si occupa di collaborazioni importanti tra gli enti museali cisalpini e i paesi del Golfo, come il Louvre ad Abu Dhabi, o il Pompidou di AlUla.

Qualche settimana dopo la mia visita, Mayeul Barbet, pilota francese della Paris-Dakar, è stato vittima di un attentato proprio qui a Jeddah. Il dubbio morale, secondo il funzionario francese, è se disinteressarsi di quello che succede da queste parti, o restare qui “per rendere le cose migliori”. D’altra parte, i petroldollari della famiglia saudita, i più ricchi regnanti del mondo, sono una attrattiva fortissima per paesi come la Francia (o l’Italia), dove la cultura è tra gli ultimi asset economici rilevanti spendibili su scala globale.

Podio F1, Jeddah, Arabia Saudita
Jeddah Corniche, Jeddah, Arabia Saudita

Di sicuro a Jeddah, multiculturale per storia e vocazione, si respira un grande ottimismo sull’onda delle riforme di MBS. I locals mostrano un entusiasmo verso il futuro quasi spiazzante. Ma fuori dal regno questo resta il paese di Kashoggi, il giornalista dissidente trucidato in Turchia probabilmente da agenti sauditi, e dove al primo gran premio di Formula 1, corso proprio a Jeddah, Lewis Hamilton trionfa indossando come uno schiaffone al sistema saudita un casco con la bandiera del Pride. “Se mi sento a mio agio a correre qui? Non posso dire di esserlo”, aveva commentato il pilota Mercedes prima della gara.

A distanza di qualche giorno dal gran premio, si poteva ancora scorgere il podio passeggiando sulla Jeddah Corniche, tra il lungomare recentemente rinnovato e uno Starbucks. Senza conoscere il contesto, lo si sarebbe potuto confondere per una delle statue che punteggiano la città, molte bizzarre, altre apprezzabili, qualcuna un capolavoro. Quasi tutte sono collocate al centro delle tantissime rotatorie che scandiscono la viabilità di questa metropoli-autostrada, o lungo gli svincoli dove per qualche istante solitari esseri umani si avvicinano l’uno all’altro, chiusi in abitacoli climatizzati, prima di lanciarsi sui rettilinei.

Le statue sono l’eredità dell’ambiziosa operazione di arte pubblica lanciata da Mohammed Said Farsi, il sindaco che invitando negli anni Settanta nomi stellari come Joan Mirò, Arnaldo Pomodoro, Alexander Calder ed Henry Moore fu il primo a introdurre arte e scultura occidentali in una città araba. “Ha trasformato Jeddah in un panorama di monumenti del deserto che sarebbero piaciuti a JG Ballard”, scriveva nel 2015 Jonathan Jones sul Guardian.

Jeddah, Arabia Saudita
Dal boom del petrolio a Hayy Jameel

Per capire come sia cresciuta Jeddah dal boom del petrolio e in che modo, visito Saudi Modern, l’iniziativa di Bricklab che documenta l’imprevista evoluzione urbanistica e architettonica dell’Arabia Saudita nei decenni che sono seguiti al 1938. Una data che nel regno conta come un anno zero. La sede è in una villetta a due piani, dall’altra parte di una strada dove sulla parte esterna di un muro di cinta, dettaglio quasi surreale, è montato un lavandino. In una sala, una mappa e un grande plastico dettagliano l’espansione di Jedda, una metropoli stretta tra mare e deserto, e si può vedere chiaramente come dall’intricato reticolo di strade della città vecchia, per proporzioni oramai un francobollo, si dipani un sistema divergente di griglie ortogonali, del tutto simili a quelle delle città americane, che con le loro larghe maglie caratterizzano il tessuto urbano odierno.

La mostra si concentra su un periodo che arriva fino ai primi anni Sessanta, quello del primo grande boom, ma è evidente che oggi questa città stia nuovamente vivendo un momento di forte trasformazione. Durante la conversazione con Al Awar, l’architetto sottolinea che quando il progetto Hayy Jameel è nato, Jeddah contava 4 milioni di abitanti, sette anni fa. Nel 2024, saranno 7 milioni. Ma non è solo una questione di numeri. Qui verrà costruita la torre più alta del mondo, qui sono stati spesi più di 200 milioni di dollari per creare un lungomare che diventasse lo sfondo da favola per le instagrammate dei turisti. E nei giorni seguenti alla inaugurazione di Hayy Jameel, il nuovo festival del Mar Rosso ha riposizionato d’emblée Jeddah sulla scacchiera internazionale del cinema. Senza contare gli eventi dedicati all’arte contemporanea, la Bienal Sur per esempio, le tante fiere come Shara o 21,39 Jeddah Arts, più tutto quello che accade nel già vivace circuito di gallerie sparse nella città.

Di questo fermento e della trasformazione in atto, l’hub culturale Hayy Jameel e la sua architettura sono al tempo stesso riflesso e parte integrante. “Un luogo dove coesistere”, l’ha definito Antonia Carver, direttrice di Art Jameel. L’edificio di rappresenta quello che Jeddah è in atto e in potenza. La riflette simbolicamente, e rappresenta quello che vorrebbe sembrare sempre di più. Lo fa senza fronzoli, senza presentarsi vanitosamente con l’ambizione di essere un landmark da copertina, ma con una modestia genuinamente islamica. E un ottimismo che non può che risultare esotico ai miei occhi di europeo.

Hayy Jameel, Jeddah. Building designed by waiwai. Courtesy of Art Jameel. Photography by Laurian Ghinitoiu

Con l’apertura di Hayy Jameel hanno inaugurato la mostra “Illuminate”, con 11 grandi installazioni di artisti sauditi dedicate alla luce, “Staple: What’s on your plate”, in cui l’esplorazione del cibo diventa l’occasione per conoscere culture e pratiche artistiche diverse, e “Paused Mirror”, con i ritratti di artisti sauditi scattati dal fotografo siriano Osama Esid che si rincorrono in diversi punti dell’edificio. E c’è anche “Red Sea: immersive”, la sezione in realtà virtuale del festival cinematografico del Mar Rosso.