Il futuro di Alfa Romeo è costruito su una lunga storia di design

Centotredici anni di storia: più di un secolo di innovazioni, concept e design che hanno ridefinito più volte la storia della progettazione automobilistica in Italia e nel mondo. È l’eredità illustre e unica del design Alfa Romeo. Un metaforico gigante sulle cui spalle oggi siedono i designer del marchio con un compito impegnativo quanto esaltante: tradurre quell’esperienza e traghettarla nel futuro elettrico della mobilità.

Il percorso è iniziato ufficialmente con il lancio della Tonale Plug-in Hybrid Q4, l’auto che completa la gamma Tonale e con cui il brand si è data un obiettivo chiaro: offrire una “risposta Alfa” alla transizione elettrica senza snaturare il DNA Alfa Romeo. L’approccio scelto dai designer è un’evoluzione e un tributo a quei 113 anni di storia, che qui vogliamo ripercorrere ricordandone le tappe più importanti.

La nascita di una leggenda: 1910

La storia di Alfa Romeo ha inizio nel 1910, quando il Cavalier Ugo Stella acquisisce la Società Italiana Automobili Darracq, succursale italiana di un produttore francese. Nel 1915 la società diventa A.L.F.A. (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), e fin da subito si concentra sulla progettazione e il design delle vetture. Alla guida c’è Giuseppe Merosi, uno dei più rispettati ingegneri dell’epoca. Il primo veicolo prodotto è la 24HP, un’auto che oggi definiremmo una sport sedan e capace di raggiungere una velocità di punta di circa 100km/h. Il richiamo della velocità porta l’azienda a lavorare su un prototipo che sembra uscito da un film di fantascienza: la 40/60HP “Aerodinamica”. Costruito su commissione dalla Carrozzeria Castagna, il veicolo è la prima vera monovolume della storia. Realizzato interamente in metallo, ha oblò circolari e un’insolita forma bombata da sottomarino grazie alla quale può fendere l’aria raggiungendo velocità di punta di 139km/h.

Alfa Romeo 40/60HP Aerodinamica
Tra le due Guerre: Alfa incontra Romeo

A seguito del primo conflitto mondiale, si apre il secondo capitolo della storia Alfa, siglato dall’unione con il nome dell’imprenditore Nicola Romeo, che aveva rilevato la società prima della Grande Guerra. Gli anni tra i due conflitti mondiali vedono susseguirsi idee sempre nuove e grandi innovazioni, sia dal punto di vista ingegneristico e tecnologico, sia sotto il profilo del design.

Nel 1922 inizia la produzione dell’Alfa Romeo RL. È il primo grande successo internazionale dell’azienda, nonché un’auto vincente come poche altre prima di allora.Negli anni 20 Alfa Romeo si aggiudica tutto quello che si poteva vincere nelle competizioni automobilistiche.

Assieme alla vocazione sportiva cresceva però anche la ricerca del marchio nel design: un percorso che alla fine del decennio culmina nel modello 6C, che permette ad Alfa Romeo di vincere tanto nelle competizioni quando nelle gare di eleganza grazie a una linea innovativa e unica nel suo genere.

Ogni volta che vedo passare un’Alfa Romeo, mi levo il cappello

Dal 1931 al 1939 il settore delle corse sarà invece dominato dalla 8C, la prima vera hypercar della storia. La otto cilindri è un concentrato di tecnologia e design senza precedenti. Leggenda vuole che sia stata proprio una 8C 2900 a far dire a Henry Ford: “ogni volta che vedo passare un’Alfa Romeo, mi levo il cappello”.

Dall’addio alle corse al boom del marchio

Nel 1947 Alfa Romeo lancia le 6C 2500 “Freccia D’oro”, “Villa D’Este” e “Supersport”, divenute subito un’icona di stile. Sul nuovo modello debuttano elementi di design che ancora oggi distinguono il marchio, come la griglia centrale triangolare a mo’ di scudo, con il logo al centro, e le prese d’aria laterali, che ritroviamo oggi sulla Tonale in una rielaborazione contemporanea. Negli anni ‘50 riprendono anche le vittorie nelle corse, con la Tipo 158, la prima vera “Alfetta”: un capolavoro di ingegneria e aerodinamica. Grazie alla progettazione e al motore 1500 più potente mai costruito, poteva raggiungere i 306km/h.

Nei primi anni ’50 l’azienda decide però di ritirarsi, pressoché imbattuta, dalle competizioni automobilistiche per concentrarsi invece sulla produzione commerciale. Con l’introduzione delle catene di montaggio e il passaggio a una produzione industriale di massa, l’azienda si trasforma in un produttore su larga scala di importanza globale: il risultato saranno decenni di grandi successi, capaci di cementare il ruolo di Alfa Romeo come simbolo indiscusso della qualità del design automobilistico italiano.

Alfa Romeo Giulietta Sprint

Nel 1954 nasce la Giulietta, presentata nel modello Sprint disegnato da Bertone al Salone dell’Auto di Torino: è un vero e proprio spartiacque, non solo per quel design che farà la storia, ma anche per gli avanzamenti tecnologici di cui è ambasciatrice, come il motore bialbero 1300cc con testata in lega d’alluminio, il famoso Twin Cam che Alfa Romeo produrrà per decenni. Giulietta Sprint è un successo senza precedenti: Alfa Romeo è costretta a sospendere gli ordini pochi giorni dopo la presentazione per riuscire a soddisfare tutte le richieste.

Dalla Giulietta alla Giulia

Sulle ali del successo della Giulietta, Alfa Romeo introdurrà otto anni più tardi un altro modello destinato a fare la storia: la Giulia, presentata all’Autodromo di Monza nel 1962. Il nuovo modello è un concentrato di innovazione, a partire da un design testato in galleria del vento che le garantiva un coefficiente d’attrito aerodinamico di 0.34. Pesa solo 1000Kg e monta — nella versione TI – un motore 1570cc che garantisce facilità di guida e uno sprint eccellente.

Alfa Romeo Giulia TI

Le vendite vanno così bene che Alfa Romeo decide di affiancare allo stabilimento di Portello un nuovo polo di produzione ad Arese, vicino Milano: qui l’azienda sposterà la sua sede ufficiale fino al 1986. Dalla Giulia derivano poi altri modelli di successo che ancora oggi trovano spazio negli annali Alfa Romeo, dalla Sprint GT, alla Spider Duetto (1966) che Dustin Hoffman guida nel film “Il Laureato” del 1967.

Alfa Romeo Spider Duetto
Le due supercar degli anni Sessanta: Alfa Romeo 33 Stradale e la 33 Carabo

In quegli anni di irrefrenabile fermento nasce anche anche la leggendaria Tipo 33, che non solo vincerà tantissimo in varie configurazioni fino alla fine degli anni settanta, ma sarà anche d’ispirazione a una serie di evoluzioni che segnano lo sviluppo del design Alfa Romeo. La versione omologata della 33, la “Stradale”, era una supercar dei sogni: vola a 260 km/h e ne vengono costruite – rigorosamente a mano – solo 18. La 33 stradale sarà anche la metaforica tela su cui i maggiori designer italiani dell’epoca sperimenteranno senza limiti le proprie idee più audaci. Nel 1968 Bertone disegna e realizza il prototipo 33 Carabo, un’auto spaziale che sembra venuta dal futuro, con portiere a forbice che ispireranno i design di celebri modelli di altre case di lusso italiane.

Alfa Romeo 33 Carabo
Dall’Alfa Sud al passaggio a Fiat

Negli anni ’70 Alfa Romeo risponde inoltre ai grandi cambiamenti del mercato con una serie di nuovi modelli di largo successo come l’Alfa Sud e soprattutto l’Alfetta, omonima della monoposto degli anni 50, una sedan sportiva che per molti anni rimarrà campione di vendite nel proprio segmento.

Gli Anni ’80 segneranno per Alfa Romeo un altro fondamentale momento di svolta e, ancora una volta, l’ingresso in una nuova epoca. Nel 1986, dopo un periodo di difficoltà, l’azienda viene venduta da Finmeccanica al Gruppo Fiat. Nell’ottica del rilancio del marchio, l’azienda torinese favorirà gli investimenti sul design con l’apertura di un nuovo centro di design. Alla fine del decennio arriva l’Alfa 164, il primo modello dell’epoca Fiat: disegnata da Pinifarina e prodotta ad Arese, è una sedan spaziosa adatta anche alle famiglie, ma che non rinuncia in alcun modo alla vocazione e al look sportivo.

Nei tre lustri successivi, poi, sotto la guida di Walter de Silva, il centro Design di Arese si occuperà di progetti importantissimi per l’evoluzione del marchio, come i prototipi Nuvola e Proteo, ma anche la 145, le 156 e 147 e più tardi l’Alfa MiTo.

Alfa Romeo 164
Gli anni 90 e 2000: le Auto dell’Anno

Verso la fine del secolo gli investimenti nel design e nell’innovazione del centro di Arese cominceranno a dare i propri frutti più pregiati. Nel 1997 arriva la Alfa Romeo 156, un’auto capace di riscrivere i paradigmi della progettazione automobilistica. Dal punto di vista tecnologico introduce novità senza precedenti, come il sistema di iniezione common rail per i motori diesel che poi verrà adottato praticamente da tutte le case automobilistiche. A suggellare l’innovazione e un altro nuovo capitolo dell’eccellenza di design Alfa Romeo, la vettura nel 1998 vincerà l’ambito premio Auto dell’Anno.

Il team di de Silva si renderà poi protagonista nel 2000 di un’importante doppietta, con la vittoria dello stesso riconoscimento anche con la Alfa Romeo 147. Con questo modello i designer ripensano subito il frontale della 156, nonostante il suo successo, e lo migliorano ancora. Il resto dell’auto è un trionfo di compattezza sportiva che incarna perfettamente lo spirito Alfa Romeo.

Alfa Romeo, oggi

Negli anni successivi il marchio continua a esplorare e creare icone di design. Nel 2003 arriva l’Alfa GT Bertone, una sedan che ricorda la Giulietta Sprint. Poi l’Alfa Romeo Brera, con il ritorno al segmento 2+2, con tetto panoramico e controllo elettronico della trazione su tutti i modelli.

E poi ancora la 8C Competizione e la 8C Spider, supercar per pochi che rievocano i fasti delle sportive degli anni ‘60 e ‘70, fino al grande ritorno della Giulietta nel 2010, celebrazione della grande storia Alfa. Nel 2016 fa il suo ritorno trionfale anche la Giulia, che assieme alla Stelvio del 2017 – un crossover basato sulla stessa piattaforma – pone le basi per il presente del design Alfa Romeo.

Alfa Romeo Giulia

Ed eccoci infine di nuovo ai giorni nostri, con l’introduzione del concept Tonale nel 2019. Disegnato dal Centro Stile di Torino, viene mostrato al Salone di Ginevra già in una versione ibrida che poi diventerà la Tonale Plug-In Hybrid Q4.

Oggi arriva su strada a completare il percorso Tonale: è l’Alfa Romeo più tecnologica di sempre. I designer del Centro Stile sono riusciti a mescolare le novità tecnologiche con quello spirito Alfa che ha da sempre segnato ogni nuovo design e ogni nuovo modello del marchio.

Non serve l’occhio di un alfista per accorgersi di quanto la Tonale sia un tributo contemporaneo alla Storia Alfa. Nel SUV compatto si può scorgere l’evoluzione dello stile recente del marchio, ma si assaporano anche citazioni illustri, come la fiancata che richiama l’eleganza della Giulia GT del 1960, o i triplici fari LED frontali che si ispirano alla sportività dell’Alfa Romeo Sprint Zagato del 1989.

Alfa Romeo Tonale Q4 Hybrid

“L’Alfa Romeo è un modo particolare di vivere, di vivere l’automobile. La vera essenza dell’Alfa sfida ogni descrizione”, diceva negli anni 60 Orazio Satta Puliga, storico designer e direttore della progettazione Alfa dal 1946 fino agli anni 70. “Può essere paragonata a quei movimenti irrazionali dello spirito che a volte si verificano nell’uomo e per i quali non esiste una spiegazione logica. Siamo nel regno delle sensazioni, delle passioni, delle cose che hanno più a che fare con il cuore che con la testa.”

È questa l’eredità di cui Tonale si fa portatrice. Un lungo corso che, oggi più che mai, nell’era nuova dell’intelligenza artificiale generativa, dell’elettrificazione, della mobilità sostenibile, può permettere a un marchio con 110 anni storia di abbracciare il futuro con coraggio. Cambiando ancora, eppure rimanendo sempre lo stesso.

Scopri di più su alfaromeo.it

L’evoluzione architettonica di uno stabilimento industriale a Parma

L’architettura da sempre gioca un ruolo fondamentale nell’identità di Chiesi Farmaceutici, azienda nata a Parma nel 1935 dalle pulsioni imprenditoriali di Giacomo Chiesi, un farmacista con il sogno della ricerca. La prima vera vicenda architettonica” legata allo stabilimento è però tragica: i laboratori vengono infatti quasi completamente distrutti da un bombardamento nel 1944. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività dell’azienda riprende, e così la sua crescita. Giacomo Chiesi valuta la possibilità di acquistare un terreno per costruirvi una “vera fabbrica”: il nuovo stabilimento produttivo viene inaugurato nel 1955, conta 50 dipendenti e una produzione allargata di medicinali di successo.  

Si tratta dell’ormai storico sito industriale di via Palermo, a Parma: un’area caratterizzata da una grande modernità sin dalla sua nascita, con una specifica attenzione alla qualità degli spazi lavorativi e l’adesione ai principi progettuali più all’avanguardia. 

Nel 1966 Giacomo Chiesi passa il timone ai figli Alberto e Paolo. L’azienda è ancora di piccole dimensioni, ma già affacciata sul mercato internazionale. Con loro inizia un processo di espansione e internazionalizzazione, che si concretizza nell’apertura in Brasile della prima sede estera alla fine degli anni Settanta e poi con l’approdo in decine di Paesi in tutto il mondo: dal Pakistan alla Bulgaria, dalla Cina ai paesi Scandinavi. 

Nonostante questo processo di crescita e lo sguardo internazionale, le radici dell’azienda rimangono ben salde nel territorio parmigiano, e in qualche modo lo sviluppo architettonico dell’area rappresenta l’evoluzione dei valori e dell’identità di Chiesi.  

Tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, in momenti e con ruoli diversi, entra in azienda la terza generazione Chiesi, i figli di Alberto e Paolo: Alessandro, Andrea, Giacomo e Maria Paola. Con il loro ingresso si aprono ulteriori nuove linee di ricerca e sviluppo: Chiesi diventa pioniere nel mondo della medicina rigenerativa e nel 2013 entra in quello delle biotecnologie, posizionandosi oggi all’apice dell’innovazione nel settore bio-farmaceutico. 

Anche in questa fase non viene meno l’attenzione verso l’architettura. A tre anni dall’inaugurazione ufficiale della nuova sede, che affianca il già esistente Centro Ricerche, il Gruppo Chiesi vuole continuare il processo di riqualificazione urbana dello storico sito industriale di via Palermo, a Parma, e creare un innovativo “business playground”. Un hub aperto alla comunità aziendale e ai propri partner, un landmark in cui indagare le interconnessioni tra la salute delle persone e la salute del pianeta. 

Per questo, la società biofarmaceutica multinazionale italiana – che oggi è tra le prime 50 aziende farmaceutiche al mondo – ha lanciato qualche mese fa una Call for Ideas internazionale dal titolo “Restore to Impact”, con l’obiettivo di individuare concept innovativi, evolutivi e trasversali che possano servire da linee guida per la rigenerazione del sito industriale di via Palermo. Chiesi si propone quindi come piattaforma culturale e promotore di riflessioni sull’Open Innovation e sull’architettura costruita. 

“I rapidi cambiamenti a cui assistiamo oggi richiedono l’interconnessione di professionisti sempre più specializzati e con competenze in continua evoluzione. Ma richiedono anche luoghi di lavoro allineati alle attuali nozioni di cooperazione, inclusione, benessere, luoghi in cui ricerca e formazione sono supportate da tecnologie all’avanguardia. Spazi innovativi dove le persone sono sempre al centro,” afferma Andrea Chiesi, Head of Special Projects di Chiesi Farmaceutici.  

Flessibilità, adattabilità nel tempo, porosità – intesa come capacità di dialogare con il contesto fisico e sociale e come qualità del paesaggio e degli spazi pubblici in relazione alla connettività – e sostenibilità in termini tecnologici, ambientali, economici, aziendali e innovativi: sono questi i criteri selezionati dalla Commissione Selezionatrice di “Restore to Impact” per valutare le idee pervenute. 

La partecipazione alla Call è stata significativa, con quasi 500 utenti registrati alla piattaforma web del progetto nei due mesi di apertura dal 1 marzo al 30 aprile 2023 – grazie al lavoro di promozione e diffusione dell’iniziativa, che ha raggiunto più di cento Paesi in tutto il mondo. I concept selezionati per la fase finale del concorso sono 31, di cui 26 per la Categoria Professionisti e 5 per la Categoria Under 30. Di questi ne sono stati premiati tre per ogni categoria, per la Categoria Professional prevista anche una Menzione d’Onore. 

Tra i professionisti, i tre premi e la Menzione d’Onore sono stati assegnati a team di progetto, multidisciplinari o composti da soli architetti. Tutti operano in Italia, due nello specifico a Parma, a riprova di quanto la vicinanza e confidenza con un’area urbana, la sua storia e le sue criticità siano elementi fondamentali per lo sviluppo di un concept d’intervento come quello stimolato da “Restore to Impact”, proteso oltre i confini dell’architettura e aperto alla generazione o rigenerazione di un profondo dialogo tra impresa, territorio e comunità. 

Per la Categoria Under 30, i tre premi sono stati assegnati a laureandi o neo laureati di Architettura provenienti da tre diversi Paesi: Italia, Paesi Bassi e Australia. Un’apertura geografica che denota un diverso approccio metodologico dei tre concept, più inclini a proporre soluzioni flessibili nello spazio e nel tempo. 

La Commissione Selezionatrice commenta così i risultati dell’iniziativa: “Cosa viene prima dell’architettura? I bisogni di una società. Restore to Impact è questo: lanciando un concorso pubblico per rinnovare gli edifici esistenti, si vuole pensare collettivamente a come affrontare la rigenerazione di un’ex area industriale, per creare un cuore pulsante di connettività e riflettere sulle sue relazioni con la comunità locale. I risultati della Call for Ideas rappresentano una stratificazione di voci da cui estrarre… l’equilibrio.” 

Immagine in apertura: Chiiiesi di CMJC
Scopri di più su www.restoretoimpact.com 

Quando il design si fa pieghevole

Quando nel 1984 Renato Pozzetto ne “Il Ragazzo di Campagna” filma l’iconica scena del monolocale in cui tutti gli elementi domestici sono pieghevoli in un’ironica riflessione sulla vita di città, non avrebbe forse immaginato che in futuro la nostra quotidianità sarebbe stata profondamente popolata da questa idea progettuale.

Oggi, d’altronde, ci svegliamo in letti che spesso si richiudono in divani, viaggiamo verso il lavoro su mezzi di locomozione elettrica pieghevoli, come bici o monopattini. Chi usufruisce dei mezzi pubblici, poi, lo fa estraendo abbonamento o carte contactless da portafogli pieghevoli, prima di sedersi davanti a laptop anch’essi foldable. Se il tempo libero è scandito dalla lettura, ci troviamo di fronte ad alcuni dei primi e più classici esempi di design pieghevole, mentre la fetta di pizza piegata a metà consumata nella pausa pranzo ci ricorda che l’uomo si orienta quasi istintivamente verso questa soluzione. Per non parlare dello strumento essenziale alle nostre attività giornaliere, dal lavoro all’intrattenimento, ovvero lo smartphone anch’esso oggi diventato pieghevole, come il nuovissimo Honor Magic VS.

Eppure, la storia del design pieghevole affonda radici in un passato anche molto remoto. Ecco perchè, alla luce delle nostre pratiche contemporanee, merita di essere riscoperta.

Quando nel 1971 Brionvega lancia la sua campagna pubblicitaria “Dimensioni Brionvega”, che presenta in ordine di grandezza tutti i suoi prodotti, a catturare l’attenzione del pubblico è – per assurdo – il più piccolo e apparentemente celato dei suoi design: la radio TS207. 

È colorata, compatta, maneggevole, ma soprattutto pieghevole. Una soluzione progettuale che la rende un instant classic, che oggi serve a ricordarci come la storia del design sia attraversata da piccole grandi rivoluzioni pieghevoli.

È come se ogni generazione avesse la sua icona di design pieghevole entrata a fare parte della quotidianità, plasmando memorie e legandosi inevitabilmente all’evoluzione del nostro costume. Si pensi, per esempio, ai paraventi che hanno segnato, per decenni, una società in cui la nudità era tabù, anche nella vita coniugale, diventando oggetto di arredo spesso esotico ma anche custode di intimità e miccia, di fantasie e seduzione.

Honor Magic VS

Se chi è cresciuto a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 associano la radio TS 207 alla giovinezza trascorsa a cercare la giusta frequenza, per scoprire il risultato di una partita o ascoltare la propria canzone del cuore, per un altro paio di generazioni il design pieghevole diventa la madeleine proustiana che riporta istantaneamente a galla i pomeriggi passati a giocare con le console portatili Nintendo, come il Gameboy Advance SP (2003), DS (2004) e 3DS (2011). 

Analogamente, il telefono Grillo del 1967 di Zanuso e Sapper per Siemens racconta di tempi in cui si aspettava per ore attaccati alla cornetta per la telefonata di una cotta giovanile, mentre i flip phone a fine anni Novanta e metà Duemila, ci ricordano dei primi disattesi SMS romantici, agli albori della telefonia mobile. 

D’altronde la pieghevolezza è un attributo che porta necessariamente con sé il concetto di trasportabilità, quello che oggi chiameremmo “on the go”. Una vocazione che risponde alle necessità dell’uomo, nomadico sin dall’alba dei tempi. Ecco che la mobilità urbana è oggi costellata di monopattini elettrici e biciclette pieghevoli, come quelle di Brompton e Tenways.

Cambiano le tecnologie impiegate, i gusti e i device, ma l’attitudine progettuale rimane immutata. Un gioco, antico e semplice, come quello degli origami diventa così ispirazione per l’omonimo termo-paravento di Alberto Meda, prodotto da Tubes.

Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione, tanto funzionale quanto iconografica. 

Il nuovo Honor Magic Vs, nella miglior tradizione del design pieghevole, accoglie infatti una duplice sfida, ovvero quella di offrire una superficie estesa tanto di lavoro quanto di intrattenimento, pur rispondendo alla necessità del pubblico d’oggi di fare ritorno a device compatti e maneggevoli, dopo anni di iperboliche escalation di dimensioni. 

Con uno schermo ampio, sia aperto che chiuso, si qualifica come lo smartphone che va incontro alle esigenze dello scrittore o del lavoratore in viaggio, ma anche di chi desidera un telefono che sia compagno di intrattenimento, per la lettura e la visione di video. 

Honor Magic VS
Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità.

Lo sviluppo progettuale è infatti tra gli elementi più sorprendenti del telefono che, riducendo le componenti strutturali a 4 dalle 92 della precedente generazione, può fare affidamento su una cerniera superleggera che assicura fino a 400.000 chiusure, ovvero una media di 100 al giorno per più di dieci anni. 

D’altronde non è difficile pensare a quello che può essere considerato un suo antenato, cioè il libro, con la relativa evoluzione delle tecniche di rilegatura. Ma anche il quotidiano, pensato per essere letto, piegato, trasportato in mano, sotto il braccio o nella tasca della giacca. Eppure il telefono è oggi anche un juke-box sempre a portata di mano, evoluzione – si potrebbe sostenere – delle fonovaligie, come quelle Phillips o Lesa, che per prime consentirono di ascoltare i supporti in vinile anche fuori dalle mura domestiche attraverso un sistema di custodie, maniglie e cerniere. 

Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità. Si pensi alla sedia, un must dell’interior design diventato poi icona pop quando sottratta alla scrivania dei giudici e utilizzata, per esempio, negli incontri di wrestling. 

La sedia, cambiando nella forma e nei materiali, ha infatti continuato a incarnare un classico oggetto di design pieghevole, capace di armonizzare funzionalità e ricerca estetica attraverso i secoli. Ci sono quelle lignee del XVI secolo, come quella che Lina Bo Bardi portò con sé in Sudamerica per arredare la Casa de Vidro a San Paolo del Brasile, ma anche quelle da campo nate per scopi bellici e diventate icone del design, come la Tripolina di Joseph B. Fenby, a sua volta ispiratrice della Kenya di Vico Magistretti, seppur non foldable.

La Multichair di Joe Colombo per B Line
Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione tanto funzionale quanto iconografica.

E, ancora, la tradizionale sedia da regista, fonte di un’iconografia intramontabile che associamo – tra gli altri – a Federico Fellini, la Multichair di Joe Colombo per B Line, o la Plia di Giancarlo Piretti, forse la più versatile e riconoscibile tra queste sedute. 

Corsi e ricorsi del nostro costume, come le porte pieghevoli che distinguevano molte reggie e ville nobiliari tra ‘500 e ‘800, poi rilette e stravolte da Klemens Torggler con la sua Flip Panel Door.

Gli interni, si sa, sono anche una questione di moda. La fashion industry non poteva, infatti, esimersi dal rendere la tecnologia pieghevole un suo cardine. Dalla borsa Bao Bao di Issey Miyake e dalla storica Pliage di Longchamp, alle calzature Furoshiki di Vibram. Non è certo un caso, d’altronde, se i pantaloni migliori sono quelli con la piega.

Come dimenticarsi, poi, di occhiali da sole come i Persol 714, nati come accessorio pieghevole e strettamente funzionale per i tranvieri di Torino negli anni ‘50 e poi elevati a icona atemporale di stile da Steve McQueen ne “Il Caso Thomas Crown”.

Pieghevole potrebbe essere anche la società del futuro, come suggerisce la visione distopica dell’autrice Hao Jingfang, che con il suo “Pechino Pieghevole” (2012) immagina una metropoli piegata in tre parti divise per classe sociale, al fine di gestire al meglio le ormai scarse risorse del pianeta. 

Oggi, in una società che ha così tanto assimilato le tecnologie pieghevoli quasi da non rendersene più conto, ripartire dallo smartphone – estensione tecnologica della nostra coscienza – è importante per riaccendere un discorso su questa filosofia progettuale, e anche di vita. E Honor ha appena posto un importante nuovo tassello per la sua evoluzione. 

Scopri di più su Honor.com

Illustrazioni di Davide Abbati


Vibram Carrarmato, l’inizio di una storia di design in dialogo costante con la natura

Quella di Vibram è una storia che, partendo da Milano e dal legame profondo che la unisce ai monti che la abbracciano, cresce lungo quasi un secolo di ricerca animata dall’amore per la montagna e il continuo superamento dei propri limiti.

Già negli anni 20 il milanese Vitale Bramani scriveva e si firmava Vibram: questo acronimo del suo nome compare nei suoi articoli redatti per la rivista del Club Alpino Italiano, e dà il nome al negozio che lui e la moglie Maria Fasana aprono nel 1928 a Milano in Via della Spiga 8, riferimento di una vivace comunità cittadina di alpinisti. A 17 anni aveva già scalato il Torrione Magnaghi; ma qualche anno dopo sopraggiunge una tragedia a cambiare il corso della sua vita. Nel 1935, durante un’escursione a Punta Rasica con la SEM — Società Escursionisti Milanesi, di cui è guida — perde sei compagni, morti assiderati a causa di un improvviso cambio di tempo e di una attrezzatura non adeguata, che impediscono loro di tornare al rifugio.

Vibram Store, Via Visconti di Modrone, Milano 1959

Profondamente colpito dalla vicenda, Vitale Bramani inizia un’incessante ricerca per innalzare i livelli di sicurezza in montagna: imputando parte dell’avvenuto alle scarpe inadatte, cerca una soluzione per una suola che racchiuda il grip delle pedule e la robustezza dello scarpone chiodato. La geniale intuizione consiste nel sostituire resistenti chiodi in gomma ai pesanti chiodi in ferro delle suole degli scarponi. Dopo numerosi test, nel 1937 Bramani con Ettore Castiglioni conquista la parete nord-ovest del Pizzo Badile, utilizzando quella che è ancora oggi la suola Carrarmato. Ciò che contraddistingue l’innovazione tecnologica della prima suola Vibram è la combinazione della gomma, come materiale, con l’iconico e funzionale disegno a carrarmato.

Da un punto di vista di design, infatti, la suola Carrarmato ha sui lati i chiodi radiali “corona” che garantiscono maggiore grip e riprendono la forma dei tradizionali chiodi metallici, mentre al centro ha chiodi a croce: questi ultimi estendono all’intera suola grip e robustezza, oltre che il carattere di superficie autopulente, e per forma evocano le croci di vetta delle montagne, ma soprattutto la decorazione della pavimentazione in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano.

Vitale Bramani ed Ettore Castiglioni sul Pizzo Badile, 1937
Spedizione italiana al K2, suole Vibram, 1954

Anche l’iconico logo ottagonale Vibram si ispira alla Galleria, in particolare alla sua volta centrale con pianta ottagonale: il logo, creato nel 1947 e di colore giallo oro dal 1969, è destinato ad arrivare fino ai nostri giorni, sotto le suole degli Yellow Boot Timberland o delle stringate Ferragamo, come ai piedi di Snoop Dogg sulla copertina del suo Da game is to be sold, not to be told.

Nel 1947 viene aperto anche il primo stabilimento a Gallarate, seguito poi dieci anni dopo da quello di Albizzate, che ancora oggi rappresenta l’headquarter dell’azienda: il percorso di Bramani transita da una storia di alpinismo appassionato a quella dell’industria moderna e dell’innovazione, ad una scala che diventa globale. Nel 1954 infatti la conquista dell’imprendibile vetta del K2 da parte della squadra italiana di Ardito Desio tutta equipaggiata con suole Vibram, dà al marchio una notorietà internazionale che non si esaurirà, crescendo anzi ancora di più quando il K2 verrà scalato di nuovo nel 1978 dalla cordata di Jim Whittaker, stavolta senza ossigeno, ma sempre equipaggiato Vibram.
In quegli anni il marchio si è già espanso, esportando licenze di produzione in America, e punta alla diversificazione attraverso nuovi brevetti come la suola Security con cui si posiziona nel mercato Work&Safety.

La prima brochure Vibram, 1938

Col procedere degli anni, le sfide con cui Vibram si confronta appartengono sempre più chiaramente al campo del design, estendendosi oltre la pura performance del prodotto, andando ad abbracciare temi come la sostenibilità ambientale, e la mediazione rispettosa del rapporto fisico dell’essere umano col pianeta, che attraverso le attività outdoor viene (ri)scoperta. Se fin dagli inizi Vibram è stata strettamente legata al mondo del design — Angelo Bianchetti aveva disegnato il nuovo negozio milanese in via Visconti di Modrone — una vera design challenge per il terzo millennio è stata la creazione della suola Ecostep, con il 30% di gomma riciclata.

Anche la promozione di una cultura del rinnovare invece che sostituire costituisce una sfida di design: Vibram la persegue da decenni rifornendo il mercato del Repair e dei calzolai, e in anni recenti l’ha affrontata e avvicinata ai consumatori con il progetto sperimentale del Vibram Sole Factor, che appoggiandosi ad una rete internazionale di calzolai partner, e alle quattro Vibram Academy in Europa, permette di personalizzare qualsiasi tipo di scarpa con una suola Vibram configurata appositamente, a seconda del gusto e della performance desiderata.

E così strisciando rimpiango la tecnica primitiva delle guide di Valmasino che rampicavano a piedi nudi
- Vitale Bramani

Design come interpretazione innovativa del rapporto tra corpo umano e natura è anche il fondamento dei due più recenti progetti a marchio Vibram, che hanno rivoluzionato l’atto stesso del camminare, come già la suola Carrarmato aveva fatto all’inizio della storia. Il 2004 è l’anno del lancio sul mercato di Vibram FiveFingers, calzatura-non calzatura la cui suola si fa sempre più sottile, arrivando ad acquisire la forma del piede stesso, ponendolo a contatto con il terreno, come se si fosse a piedi nudi, ma con la protezione di una suola in gomma, una ripresa di quello che Bramani aveva scritto nel 1935 sul giornale del CAI: “E così strisciando rimpiango la tecnica primitiva delle guide di Valmasino che rampicavano a piedi nudi”. Un progetto, questo di Vibram FiveFingers, da un’idea del designer Robert Fliri, che non cerca una semplice risposta ma punta a ridefinire la domanda stessa rispetto al mondo dell’outdoor, rendendo più stretto il contatto tra corpo umano e natura, improntandolo a una visione innovativa dell’attività, come del prodotto che la rende possibile: si è arrivati così a intercettare mondi all’apparenza antagonisti di quello della calzatura, come le comunità del barefooting, che si trovano a manifestare un grande interesse nel prodotto Vibram.

Vibram Carrarmato. La prima suola per l'alpinismo dal 1937.

Lo stesso spirito di innovazione ha poi caratterizzato nel decennio successivo un progetto completamente nuovo, Vibram Furoshiki The Wrapping Sole, vincitrice del Compasso d’Oro 2018: un’interfaccia sempre meno identificabile come scarpa, un oggetto tecnico portato al massimo della sua essenzialità dove fasce ergonomiche in Sensitive® Fabrics di Eurojersey si sviluppano direttamente dalla suola, avvolgendo il piede e garantendo un fitting personalizzato nato dall’ispirazione del tradizionale fazzoletto quadrato giapponese.
Il principio del contatto rispettoso con l’ambiente, che trasforma l’equipaggiamento in un tramite di pura esperienza, va a raggiungere quell’evoluzione che già il claim di Vibram aveva voluto rispecchiare, passando da “Between the Earth and you” a “Your Connection To Earth”.

Vibram FiveFingers, 2004

Questo percorso che conduce attraverso più di otto decenni, a partire dalle prime intuizioni di Bramani, racconta una vicinanza costante di Vibram all’innovazione e ai diversi significati che assume l’idea di sostenibilità: da sempre parte del DNA dell’industria sportiva italiana in quanto qualità e durabilità del prodotto, questa si è poi tradotta in progetti volti alla transizione verso un modello di economia circolare, e verso politiche di riciclo locali, attuate là dove i prodotti vengono effettivamente consumati. Concetti come Design For Repair e Design For Disassembly sono diventati la cifra contemporanea di Vibram facendone il promotore di un consumo sempre più responsabile e consapevole: in sintesi, il mediatore di un rapporto di vicinanza e rispetto con il paesaggio, e con il pianeta che lo genera.

Vibram Furoshiki The Wrapping Sole, vincitrice del Compasso d'Oro nel 2018
Scopri di più su Vibram.com