Vibram Carrarmato, l’inizio di una storia di design in dialogo costante con la natura

Quella di Vibram è una storia che, partendo da Milano e dal legame profondo che la unisce ai monti che la abbracciano, cresce lungo quasi un secolo di ricerca animata dall’amore per la montagna e il continuo superamento dei propri limiti.

Già negli anni 20 il milanese Vitale Bramani scriveva e si firmava Vibram: questo acronimo del suo nome compare nei suoi articoli redatti per la rivista del Club Alpino Italiano, e dà il nome al negozio che lui e la moglie Maria Fasana aprono nel 1928 a Milano in Via della Spiga 8, riferimento di una vivace comunità cittadina di alpinisti. A 17 anni aveva già scalato il Torrione Magnaghi; ma qualche anno dopo sopraggiunge una tragedia a cambiare il corso della sua vita. Nel 1935, durante un’escursione a Punta Rasica con la SEM — Società Escursionisti Milanesi, di cui è guida — perde sei compagni, morti assiderati a causa di un improvviso cambio di tempo e di una attrezzatura non adeguata, che impediscono loro di tornare al rifugio.

Vibram Store, Via Visconti di Modrone, Milano 1959

Profondamente colpito dalla vicenda, Vitale Bramani inizia un’incessante ricerca per innalzare i livelli di sicurezza in montagna: imputando parte dell’avvenuto alle scarpe inadatte, cerca una soluzione per una suola che racchiuda il grip delle pedule e la robustezza dello scarpone chiodato. La geniale intuizione consiste nel sostituire resistenti chiodi in gomma ai pesanti chiodi in ferro delle suole degli scarponi. Dopo numerosi test, nel 1937 Bramani con Ettore Castiglioni conquista la parete nord-ovest del Pizzo Badile, utilizzando quella che è ancora oggi la suola Carrarmato. Ciò che contraddistingue l’innovazione tecnologica della prima suola Vibram è la combinazione della gomma, come materiale, con l’iconico e funzionale disegno a carrarmato.

Da un punto di vista di design, infatti, la suola Carrarmato ha sui lati i chiodi radiali “corona” che garantiscono maggiore grip e riprendono la forma dei tradizionali chiodi metallici, mentre al centro ha chiodi a croce: questi ultimi estendono all’intera suola grip e robustezza, oltre che il carattere di superficie autopulente, e per forma evocano le croci di vetta delle montagne, ma soprattutto la decorazione della pavimentazione in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano.

Vitale Bramani ed Ettore Castiglioni sul Pizzo Badile, 1937
Spedizione italiana al K2, suole Vibram, 1954

Anche l’iconico logo ottagonale Vibram si ispira alla Galleria, in particolare alla sua volta centrale con pianta ottagonale: il logo, creato nel 1947 e di colore giallo oro dal 1969, è destinato ad arrivare fino ai nostri giorni, sotto le suole degli Yellow Boot Timberland o delle stringate Ferragamo, come ai piedi di Snoop Dogg sulla copertina del suo Da game is to be sold, not to be told.

Nel 1947 viene aperto anche il primo stabilimento a Gallarate, seguito poi dieci anni dopo da quello di Albizzate, che ancora oggi rappresenta l’headquarter dell’azienda: il percorso di Bramani transita da una storia di alpinismo appassionato a quella dell’industria moderna e dell’innovazione, ad una scala che diventa globale. Nel 1954 infatti la conquista dell’imprendibile vetta del K2 da parte della squadra italiana di Ardito Desio tutta equipaggiata con suole Vibram, dà al marchio una notorietà internazionale che non si esaurirà, crescendo anzi ancora di più quando il K2 verrà scalato di nuovo nel 1978 dalla cordata di Jim Whittaker, stavolta senza ossigeno, ma sempre equipaggiato Vibram.
In quegli anni il marchio si è già espanso, esportando licenze di produzione in America, e punta alla diversificazione attraverso nuovi brevetti come la suola Security con cui si posiziona nel mercato Work&Safety.

La prima brochure Vibram, 1938

Col procedere degli anni, le sfide con cui Vibram si confronta appartengono sempre più chiaramente al campo del design, estendendosi oltre la pura performance del prodotto, andando ad abbracciare temi come la sostenibilità ambientale, e la mediazione rispettosa del rapporto fisico dell’essere umano col pianeta, che attraverso le attività outdoor viene (ri)scoperta. Se fin dagli inizi Vibram è stata strettamente legata al mondo del design — Angelo Bianchetti aveva disegnato il nuovo negozio milanese in via Visconti di Modrone — una vera design challenge per il terzo millennio è stata la creazione della suola Ecostep, con il 30% di gomma riciclata.

Anche la promozione di una cultura del rinnovare invece che sostituire costituisce una sfida di design: Vibram la persegue da decenni rifornendo il mercato del Repair e dei calzolai, e in anni recenti l’ha affrontata e avvicinata ai consumatori con il progetto sperimentale del Vibram Sole Factor, che appoggiandosi ad una rete internazionale di calzolai partner, e alle quattro Vibram Academy in Europa, permette di personalizzare qualsiasi tipo di scarpa con una suola Vibram configurata appositamente, a seconda del gusto e della performance desiderata.

E così strisciando rimpiango la tecnica primitiva delle guide di Valmasino che rampicavano a piedi nudi
- Vitale Bramani

Design come interpretazione innovativa del rapporto tra corpo umano e natura è anche il fondamento dei due più recenti progetti a marchio Vibram, che hanno rivoluzionato l’atto stesso del camminare, come già la suola Carrarmato aveva fatto all’inizio della storia. Il 2004 è l’anno del lancio sul mercato di Vibram FiveFingers, calzatura-non calzatura la cui suola si fa sempre più sottile, arrivando ad acquisire la forma del piede stesso, ponendolo a contatto con il terreno, come se si fosse a piedi nudi, ma con la protezione di una suola in gomma, una ripresa di quello che Bramani aveva scritto nel 1935 sul giornale del CAI: “E così strisciando rimpiango la tecnica primitiva delle guide di Valmasino che rampicavano a piedi nudi”. Un progetto, questo di Vibram FiveFingers, da un’idea del designer Robert Fliri, che non cerca una semplice risposta ma punta a ridefinire la domanda stessa rispetto al mondo dell’outdoor, rendendo più stretto il contatto tra corpo umano e natura, improntandolo a una visione innovativa dell’attività, come del prodotto che la rende possibile: si è arrivati così a intercettare mondi all’apparenza antagonisti di quello della calzatura, come le comunità del barefooting, che si trovano a manifestare un grande interesse nel prodotto Vibram.

Vibram Carrarmato. La prima suola per l'alpinismo dal 1937.

Lo stesso spirito di innovazione ha poi caratterizzato nel decennio successivo un progetto completamente nuovo, Vibram Furoshiki The Wrapping Sole, vincitrice del Compasso d’Oro 2018: un’interfaccia sempre meno identificabile come scarpa, un oggetto tecnico portato al massimo della sua essenzialità dove fasce ergonomiche in Sensitive® Fabrics di Eurojersey si sviluppano direttamente dalla suola, avvolgendo il piede e garantendo un fitting personalizzato nato dall’ispirazione del tradizionale fazzoletto quadrato giapponese.
Il principio del contatto rispettoso con l’ambiente, che trasforma l’equipaggiamento in un tramite di pura esperienza, va a raggiungere quell’evoluzione che già il claim di Vibram aveva voluto rispecchiare, passando da “Between the Earth and you” a “Your Connection To Earth”.

Vibram FiveFingers, 2004

Questo percorso che conduce attraverso più di otto decenni, a partire dalle prime intuizioni di Bramani, racconta una vicinanza costante di Vibram all’innovazione e ai diversi significati che assume l’idea di sostenibilità: da sempre parte del DNA dell’industria sportiva italiana in quanto qualità e durabilità del prodotto, questa si è poi tradotta in progetti volti alla transizione verso un modello di economia circolare, e verso politiche di riciclo locali, attuate là dove i prodotti vengono effettivamente consumati. Concetti come Design For Repair e Design For Disassembly sono diventati la cifra contemporanea di Vibram facendone il promotore di un consumo sempre più responsabile e consapevole: in sintesi, il mediatore di un rapporto di vicinanza e rispetto con il paesaggio, e con il pianeta che lo genera.

Vibram Furoshiki The Wrapping Sole, vincitrice del Compasso d'Oro nel 2018
Scopri di più su Vibram.com

Dall’archivio: Brasilia, lezioni di urbanità 04

“L’impressione che si ha arrivando a Brasilia è quella che può avere un uomo del passato”, scriveva Cesare Casati in un ampio reportage su Domus 434 del gennaio 1966: 24 pagine di fotografie da lui stesso scattate, come corredo di un taccuino di viaggio nella nuova capitale del Brasile a sei anni dalla sua nascita.

“A Brasilia – annotava – si ha la sensazione continua di essere come su un’isola. Una continua linea orizzontale, lontana, azzurra, corre dietro la città: un orizzonte immenso come il mare. La città sorge isolata su un enorme terreno piano, e non nasconde questa sua condizione eccezionale, ma anzi la valorizza, in ogni suo punto; tutta la sua architettura è orizzontale, ed è sempre ‘staccata’ dal suolo, in modo che attraverso gli immensi pilotis sia sempre presente in lontananza l’orizzonte della grande pianura. L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive”.

Il commento era positivo, ma attraversato alla fine dall’ombra di un interrogativo inquietante sulle sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione. Per comprendere il messaggio implicito in questa frase tanto sfuggente bisogna ricostruire il contesto in Italia (e in Europa) in cui era stato accolto quest’evento straordinario. Brasilia era una capitale costruita nel deserto nell’arco di appena tre anni (quelli intercorsi tra il bando di concorso nell’autunno del 1956 e l’inaugurazione del 21 aprile 1960) all’insegna di una modernità che se da un lato riaffermava la vitalità dei principi eroici del primo Modernismo, allo stesso tempo li integrava in forme inedite, sensibili al clima, al territorio, all’ottimismo estetico della “seconda età della macchina”.

L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive.
- Cesare Casati

A Brasilia, infatti, l’urbanistica era fondativa di una visione insieme elementare e complessa: basato sul gesto assiomatico di due assi in croce (quasi un cardo e un decumano tracciati sulla terra rossa del deserto), il Plano Piloto di Lúcio Costa si avvaleva della plastica sensuale di Oscar Niemeyer, autore di un esperimento sulla monumentalità che non poteva non richiamare i coevi esempi di Chandigarh e Dacca. La riscoperta dell’urbanità nell’era postbellica aveva incrinato il mito del primato dell’urbanistica e rilanciato il tema del ‘monumento’ come cuore della città ed espressione di valori formali in cui rappresentare il rifiuto dell’autoritarismo delle dittature e una nozione di popolo come comunità aperta. Ma come l’architettura di Kahn fu accolta in Italia da diffidenza (e in alcuni casi da aperto rifiuto), anche quella di Niemeyer non riuscì a evitare l’accusa di formalismo: paradossale, in fondo, per un Paese che, con la sua adesione al ‘Neoliberty’, si era guadagnato la reprimenda di Reyner Banham per “la ritirata italiana dal Movimento moderno”.

Particolare di un blocco residenziale (superquadra) con gli alloggi prefabbricati per gli insegnanti

Se Rogers si era rifugiato nell’eloquente silenzio di Casabella, Bruno Zevi l’aveva condannata senza appello su L’Architettura. Cronache e storia (numero 104, giugno 1964):

I fatti hanno travalicato i nostri timori... la città dei funzionari, artificiosamente vestita dalle decorazioni strutturalistiche di Niemeyer, si è trasformata in una prigione sbarrata dalla foresta vergine. ... Evento tragico, degno di essere meditato dagli urbanisti di tutto il mondo
- Bruno Zevi

Brasilia (e il Brasile) oggi non sono purtroppo quelli di Juscelino Kubitschek de Oliveira e l’inadeguatezza della sua classe dirigente non ha dovuto attendere la tragedia della pandemia Covid-19 per dimostrare come non possa esistere urbanità senza il sostegno di adeguate politiche di sviluppo della società. Non a caso, il discredito di cui gode oggi la parola ‘urbanistica’ è frutto sia di una riduzione della visione generale a tecnica astratta, sia di un’invasione della logica del real estate globalizzato che considera la città come ‘logo’ visuale di un messaggio esclusivamente pubblicitario.

Lúcio Costa, schizzo concettuale del Plano Piloto per Brasilia, dalla memoria descrittiva del Plano Piloto, 1957.
Mappa satellitare di Brasilia.

A 60 anni dalla fondazione, Brasilia può essere guardata da un nuovo osservatorio: quello delle citta capitali del XXI secolo. Astana (oggi Nur-Sultan, capitale del Kazakistan, sorta per decreto presidenziale nel 1998), Dubai (miraggio strappato al mare come resort per le élite della globalizzazione), Pudong (città nella città di Shanghai a partire dal 1993) e altre ancora ci spingono a riguardare oggi Brasilia come una città ideale rinascimentale, costruita attorno a un centro monumentale contornato dall’uniformità delle grandi Superquadre. Gli sviluppi caotici del piano dimostrano forse l’illusione dell’architettura, ma soprattutto la delusione della politica, incapace di distinguere tra urbanità e urbanismo.

Oscar Niemeyer
«Lo spazio e l'architettura, che cosa sono in fondo? Portami un terreno, portami un programma e, in funzione del programma e del terreno, emergerà l'architettura. L'architettura che noi creiamo si fa con il cemento armato, mentre a terra non esistono molte colonne portanti. In questo modo, l'architettura diventa più sciolta e più audace. Bisogna sempre far sì che un palazzo non assomigli a un altro. È lo stesso concetto dell'opera d'arte. Dove si guarda e ci si emoziona è perché si vede qualcosa di differente. L'architettura è invenzione. Il resto è ripetizione e non interessa»
- Oscar Niemeyer
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.

Dall’archivio: Brasilia, lezioni di urbanità 03

“L’impressione che si ha arrivando a Brasilia è quella che può avere un uomo del passato”, scriveva Cesare Casati in un ampio reportage su Domus 434 del gennaio 1966: 24 pagine di fotografie da lui stesso scattate, come corredo di un taccuino di viaggio nella nuova capitale del Brasile a sei anni dalla sua nascita.

“A Brasilia – annotava – si ha la sensazione continua di essere come su un’isola. Una continua linea orizzontale, lontana, azzurra, corre dietro la città: un orizzonte immenso come il mare. La città sorge isolata su un enorme terreno piano, e non nasconde questa sua condizione eccezionale, ma anzi la valorizza, in ogni suo punto; tutta la sua architettura è orizzontale, ed è sempre ‘staccata’ dal suolo, in modo che attraverso gli immensi pilotis sia sempre presente in lontananza l’orizzonte della grande pianura. L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive”.

Il commento era positivo, ma attraversato alla fine dall’ombra di un interrogativo inquietante sulle sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione. Per comprendere il messaggio implicito in questa frase tanto sfuggente bisogna ricostruire il contesto in Italia (e in Europa) in cui era stato accolto quest’evento straordinario. Brasilia era una capitale costruita nel deserto nell’arco di appena tre anni (quelli intercorsi tra il bando di concorso nell’autunno del 1956 e l’inaugurazione del 21 aprile 1960) all’insegna di una modernità che se da un lato riaffermava la vitalità dei principi eroici del primo Modernismo, allo stesso tempo li integrava in forme inedite, sensibili al clima, al territorio, all’ottimismo estetico della “seconda età della macchina”.

L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive.
- Cesare Casati

A Brasilia, infatti, l’urbanistica era fondativa di una visione insieme elementare e complessa: basato sul gesto assiomatico di due assi in croce (quasi un cardo e un decumano tracciati sulla terra rossa del deserto), il Plano Piloto di Lúcio Costa si avvaleva della plastica sensuale di Oscar Niemeyer, autore di un esperimento sulla monumentalità che non poteva non richiamare i coevi esempi di Chandigarh e Dacca. La riscoperta dell’urbanità nell’era postbellica aveva incrinato il mito del primato dell’urbanistica e rilanciato il tema del ‘monumento’ come cuore della città ed espressione di valori formali in cui rappresentare il rifiuto dell’autoritarismo delle dittature e una nozione di popolo come comunità aperta. Ma come l’architettura di Kahn fu accolta in Italia da diffidenza (e in alcuni casi da aperto rifiuto), anche quella di Niemeyer non riuscì a evitare l’accusa di formalismo: paradossale, in fondo, per un Paese che, con la sua adesione al ‘Neoliberty’, si era guadagnato la reprimenda di Reyner Banham per “la ritirata italiana dal Movimento moderno”.

Particolare di un blocco residenziale (superquadra) con gli alloggi prefabbricati per gli insegnanti

Se Rogers si era rifugiato nell’eloquente silenzio di Casabella, Bruno Zevi l’aveva condannata senza appello su L’Architettura. Cronache e storia (numero 104, giugno 1964):

I fatti hanno travalicato i nostri timori... la città dei funzionari, artificiosamente vestita dalle decorazioni strutturalistiche di Niemeyer, si è trasformata in una prigione sbarrata dalla foresta vergine. ... Evento tragico, degno di essere meditato dagli urbanisti di tutto il mondo
- Bruno Zevi

Brasilia (e il Brasile) oggi non sono purtroppo quelli di Juscelino Kubitschek de Oliveira e l’inadeguatezza della sua classe dirigente non ha dovuto attendere la tragedia della pandemia Covid-19 per dimostrare come non possa esistere urbanità senza il sostegno di adeguate politiche di sviluppo della società. Non a caso, il discredito di cui gode oggi la parola ‘urbanistica’ è frutto sia di una riduzione della visione generale a tecnica astratta, sia di un’invasione della logica del real estate globalizzato che considera la città come ‘logo’ visuale di un messaggio esclusivamente pubblicitario.

Lúcio Costa, schizzo concettuale del Plano Piloto per Brasilia, dalla memoria descrittiva del Plano Piloto, 1957.
Mappa satellitare di Brasilia.

A 60 anni dalla fondazione, Brasilia può essere guardata da un nuovo osservatorio: quello delle citta capitali del XXI secolo. Astana (oggi Nur-Sultan, capitale del Kazakistan, sorta per decreto presidenziale nel 1998), Dubai (miraggio strappato al mare come resort per le élite della globalizzazione), Pudong (città nella città di Shanghai a partire dal 1993) e altre ancora ci spingono a riguardare oggi Brasilia come una città ideale rinascimentale, costruita attorno a un centro monumentale contornato dall’uniformità delle grandi Superquadre. Gli sviluppi caotici del piano dimostrano forse l’illusione dell’architettura, ma soprattutto la delusione della politica, incapace di distinguere tra urbanità e urbanismo.

Oscar Niemeyer
«Lo spazio e l'architettura, che cosa sono in fondo? Portami un terreno, portami un programma e, in funzione del programma e del terreno, emergerà l'architettura. L'architettura che noi creiamo si fa con il cemento armato, mentre a terra non esistono molte colonne portanti. In questo modo, l'architettura diventa più sciolta e più audace. Bisogna sempre far sì che un palazzo non assomigli a un altro. È lo stesso concetto dell'opera d'arte. Dove si guarda e ci si emoziona è perché si vede qualcosa di differente. L'architettura è invenzione. Il resto è ripetizione e non interessa»
- Oscar Niemeyer
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.

Dall’archivio: Brasilia, lezioni di urbanità 02

“L’impressione che si ha arrivando a Brasilia è quella che può avere un uomo del passato”, scriveva Cesare Casati in un ampio reportage su Domus 434 del gennaio 1966: 24 pagine di fotografie da lui stesso scattate, come corredo di un taccuino di viaggio nella nuova capitale del Brasile a sei anni dalla sua nascita.

“A Brasilia – annotava – si ha la sensazione continua di essere come su un’isola. Una continua linea orizzontale, lontana, azzurra, corre dietro la città: un orizzonte immenso come il mare. La città sorge isolata su un enorme terreno piano, e non nasconde questa sua condizione eccezionale, ma anzi la valorizza, in ogni suo punto; tutta la sua architettura è orizzontale, ed è sempre ‘staccata’ dal suolo, in modo che attraverso gli immensi pilotis sia sempre presente in lontananza l’orizzonte della grande pianura. L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive”.

Il commento era positivo, ma attraversato alla fine dall’ombra di un interrogativo inquietante sulle sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione. Per comprendere il messaggio implicito in questa frase tanto sfuggente bisogna ricostruire il contesto in Italia (e in Europa) in cui era stato accolto quest’evento straordinario. Brasilia era una capitale costruita nel deserto nell’arco di appena tre anni (quelli intercorsi tra il bando di concorso nell’autunno del 1956 e l’inaugurazione del 21 aprile 1960) all’insegna di una modernità che se da un lato riaffermava la vitalità dei principi eroici del primo Modernismo, allo stesso tempo li integrava in forme inedite, sensibili al clima, al territorio, all’ottimismo estetico della “seconda età della macchina”.

L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive.
- Cesare Casati

A Brasilia, infatti, l’urbanistica era fondativa di una visione insieme elementare e complessa: basato sul gesto assiomatico di due assi in croce (quasi un cardo e un decumano tracciati sulla terra rossa del deserto), il Plano Piloto di Lúcio Costa si avvaleva della plastica sensuale di Oscar Niemeyer, autore di un esperimento sulla monumentalità che non poteva non richiamare i coevi esempi di Chandigarh e Dacca. La riscoperta dell’urbanità nell’era postbellica aveva incrinato il mito del primato dell’urbanistica e rilanciato il tema del ‘monumento’ come cuore della città ed espressione di valori formali in cui rappresentare il rifiuto dell’autoritarismo delle dittature e una nozione di popolo come comunità aperta. Ma come l’architettura di Kahn fu accolta in Italia da diffidenza (e in alcuni casi da aperto rifiuto), anche quella di Niemeyer non riuscì a evitare l’accusa di formalismo: paradossale, in fondo, per un Paese che, con la sua adesione al ‘Neoliberty’, si era guadagnato la reprimenda di Reyner Banham per “la ritirata italiana dal Movimento moderno”.

Particolare di un blocco residenziale (superquadra) con gli alloggi prefabbricati per gli insegnanti

Se Rogers si era rifugiato nell’eloquente silenzio di Casabella, Bruno Zevi l’aveva condannata senza appello su L’Architettura. Cronache e storia (numero 104, giugno 1964):

I fatti hanno travalicato i nostri timori... la città dei funzionari, artificiosamente vestita dalle decorazioni strutturalistiche di Niemeyer, si è trasformata in una prigione sbarrata dalla foresta vergine. ... Evento tragico, degno di essere meditato dagli urbanisti di tutto il mondo
- Bruno Zevi

Brasilia (e il Brasile) oggi non sono purtroppo quelli di Juscelino Kubitschek de Oliveira e l’inadeguatezza della sua classe dirigente non ha dovuto attendere la tragedia della pandemia Covid-19 per dimostrare come non possa esistere urbanità senza il sostegno di adeguate politiche di sviluppo della società. Non a caso, il discredito di cui gode oggi la parola ‘urbanistica’ è frutto sia di una riduzione della visione generale a tecnica astratta, sia di un’invasione della logica del real estate globalizzato che considera la città come ‘logo’ visuale di un messaggio esclusivamente pubblicitario.

Lúcio Costa, schizzo concettuale del Plano Piloto per Brasilia, dalla memoria descrittiva del Plano Piloto, 1957.
Mappa satellitare di Brasilia.

A 60 anni dalla fondazione, Brasilia può essere guardata da un nuovo osservatorio: quello delle citta capitali del XXI secolo. Astana (oggi Nur-Sultan, capitale del Kazakistan, sorta per decreto presidenziale nel 1998), Dubai (miraggio strappato al mare come resort per le élite della globalizzazione), Pudong (città nella città di Shanghai a partire dal 1993) e altre ancora ci spingono a riguardare oggi Brasilia come una città ideale rinascimentale, costruita attorno a un centro monumentale contornato dall’uniformità delle grandi Superquadre. Gli sviluppi caotici del piano dimostrano forse l’illusione dell’architettura, ma soprattutto la delusione della politica, incapace di distinguere tra urbanità e urbanismo.

Oscar Niemeyer

«Lo spazio e l'architettura, che cosa sono in fondo? Portami un terreno, portami un programma e, in funzione del programma e del terreno, emergerà l'architettura. L'architettura che noi creiamo si fa con il cemento armato, mentre a terra non esistono molte colonne portanti. In questo modo, l'architettura diventa più sciolta e più audace. Bisogna sempre far sì che un palazzo non assomigli a un altro. È lo stesso concetto dell'opera d'arte. Dove si guarda e ci si emoziona è perché si vede qualcosa di differente. L'architettura è invenzione. Il resto è ripetizione e non interessa»
- Oscar Niemeyer
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.

Dall’archivio: Brasilia, lezioni di urbanità

“L’impressione che si ha arrivando a Brasilia è quella che può avere un uomo del passato”, scriveva Cesare Casati in un ampio reportage su Domus 434 del gennaio 1966: 24 pagine di fotografie da lui stesso scattate, come corredo di un taccuino di viaggio nella nuova capitale del Brasile a sei anni dalla sua nascita.

“A Brasilia – annotava – si ha la sensazione continua di essere come su un’isola. Una continua linea orizzontale, lontana, azzurra, corre dietro la città: un orizzonte immenso come il mare. La città sorge isolata su un enorme terreno piano, e non nasconde questa sua condizione eccezionale, ma anzi la valorizza, in ogni suo punto; tutta la sua architettura è orizzontale, ed è sempre ‘staccata’ dal suolo, in modo che attraverso gli immensi pilotis sia sempre presente in lontananza l’orizzonte della grande pianura. L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive”.

Il commento era positivo, ma attraversato alla fine dall’ombra di un interrogativo inquietante sulle sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione. Per comprendere il messaggio implicito in questa frase tanto sfuggente bisogna ricostruire il contesto in Italia (e in Europa) in cui era stato accolto quest’evento straordinario. Brasilia era una capitale costruita nel deserto nell’arco di appena tre anni (quelli intercorsi tra il bando di concorso nell’autunno del 1956 e l’inaugurazione del 21 aprile 1960) all’insegna di una modernità che se da un lato riaffermava la vitalità dei principi eroici del primo Modernismo, allo stesso tempo li integrava in forme inedite, sensibili al clima, al territorio, all’ottimismo estetico della “seconda età della macchina”.

L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive.
- Cesare Casati

A Brasilia, infatti, l’urbanistica era fondativa di una visione insieme elementare e complessa: basato sul gesto assiomatico di due assi in croce (quasi un cardo e un decumano tracciati sulla terra rossa del deserto), il Plano Piloto di Lúcio Costa si avvaleva della plastica sensuale di Oscar Niemeyer, autore di un esperimento sulla monumentalità che non poteva non richiamare i coevi esempi di Chandigarh e Dacca. La riscoperta dell’urbanità nell’era postbellica aveva incrinato il mito del primato dell’urbanistica e rilanciato il tema del ‘monumento’ come cuore della città ed espressione di valori formali in cui rappresentare il rifiuto dell’autoritarismo delle dittature e una nozione di popolo come comunità aperta. Ma come l’architettura di Kahn fu accolta in Italia da diffidenza (e in alcuni casi da aperto rifiuto), anche quella di Niemeyer non riuscì a evitare l’accusa di formalismo: paradossale, in fondo, per un Paese che, con la sua adesione al ‘Neoliberty’, si era guadagnato la reprimenda di Reyner Banham per “la ritirata italiana dal Movimento moderno”.

Particolare di un blocco residenziale (superquadra) con gli alloggi prefabbricati per gli insegnanti

Se Rogers si era rifugiato nell’eloquente silenzio di Casabella, Bruno Zevi l’aveva condannata senza appello su L’Architettura. Cronache e storia (numero 104, giugno 1964):

I fatti hanno travalicato i nostri timori... la città dei funzionari, artificiosamente vestita dalle decorazioni strutturalistiche di Niemeyer, si è trasformata in una prigione sbarrata dalla foresta vergine. ... Evento tragico, degno di essere meditato dagli urbanisti di tutto il mondo
- Bruno Zevi

Brasilia (e il Brasile) oggi non sono purtroppo quelli di Juscelino Kubitschek de Oliveira e l’inadeguatezza della sua classe dirigente non ha dovuto attendere la tragedia della pandemia Covid-19 per dimostrare come non possa esistere urbanità senza il sostegno di adeguate politiche di sviluppo della società. Non a caso, il discredito di cui gode oggi la parola ‘urbanistica’ è frutto sia di una riduzione della visione generale a tecnica astratta, sia di un’invasione della logica del real estate globalizzato che considera la città come ‘logo’ visuale di un messaggio esclusivamente pubblicitario.

Lúcio Costa, schizzo concettuale del Plano Piloto per Brasilia, dalla memoria descrittiva del Plano Piloto, 1957.
Mappa satellitare di Brasilia.

A 60 anni dalla fondazione, Brasilia può essere guardata da un nuovo osservatorio: quello delle citta capitali del XXI secolo. Astana (oggi Nur-Sultan, capitale del Kazakistan, sorta per decreto presidenziale nel 1998), Dubai (miraggio strappato al mare come resort per le élite della globalizzazione), Pudong (città nella città di Shanghai a partire dal 1993) e altre ancora ci spingono a riguardare oggi Brasilia come una città ideale rinascimentale, costruita attorno a un centro monumentale contornato dall’uniformità delle grandi Superquadre. Gli sviluppi caotici del piano dimostrano forse l’illusione dell’architettura, ma soprattutto la delusione della politica, incapace di distinguere tra urbanità e urbanismo.

Oscar Niemeyer
«Lo spazio e l'architettura, che cosa sono in fondo? Portami un terreno, portami un programma e, in funzione del programma e del terreno, emergerà l'architettura. L'architettura che noi creiamo si fa con il cemento armato, mentre a terra non esistono molte colonne portanti. In questo modo, l'architettura diventa più sciolta e più audace. Bisogna sempre far sì che un palazzo non assomigli a un altro. È lo stesso concetto dell'opera d'arte. Dove si guarda e ci si emoziona è perché si vede qualcosa di differente. L'architettura è invenzione. Il resto è ripetizione e non interessa»
- Oscar Niemeyer
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.