L’evoluzione architettonica di uno stabilimento industriale a Parma

L’architettura da sempre gioca un ruolo fondamentale nell’identità di Chiesi Farmaceutici, azienda nata a Parma nel 1935 dalle pulsioni imprenditoriali di Giacomo Chiesi, un farmacista con il sogno della ricerca. La prima vera vicenda architettonica” legata allo stabilimento è però tragica: i laboratori vengono infatti quasi completamente distrutti da un bombardamento nel 1944. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività dell’azienda riprende, e così la sua crescita. Giacomo Chiesi valuta la possibilità di acquistare un terreno per costruirvi una “vera fabbrica”: il nuovo stabilimento produttivo viene inaugurato nel 1955, conta 50 dipendenti e una produzione allargata di medicinali di successo.  

Si tratta dell’ormai storico sito industriale di via Palermo, a Parma: un’area caratterizzata da una grande modernità sin dalla sua nascita, con una specifica attenzione alla qualità degli spazi lavorativi e l’adesione ai principi progettuali più all’avanguardia. 

Nel 1966 Giacomo Chiesi passa il timone ai figli Alberto e Paolo. L’azienda è ancora di piccole dimensioni, ma già affacciata sul mercato internazionale. Con loro inizia un processo di espansione e internazionalizzazione, che si concretizza nell’apertura in Brasile della prima sede estera alla fine degli anni Settanta e poi con l’approdo in decine di Paesi in tutto il mondo: dal Pakistan alla Bulgaria, dalla Cina ai paesi Scandinavi. 

Nonostante questo processo di crescita e lo sguardo internazionale, le radici dell’azienda rimangono ben salde nel territorio parmigiano, e in qualche modo lo sviluppo architettonico dell’area rappresenta l’evoluzione dei valori e dell’identità di Chiesi.  

Tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, in momenti e con ruoli diversi, entra in azienda la terza generazione Chiesi, i figli di Alberto e Paolo: Alessandro, Andrea, Giacomo e Maria Paola. Con il loro ingresso si aprono ulteriori nuove linee di ricerca e sviluppo: Chiesi diventa pioniere nel mondo della medicina rigenerativa e nel 2013 entra in quello delle biotecnologie, posizionandosi oggi all’apice dell’innovazione nel settore bio-farmaceutico. 

Anche in questa fase non viene meno l’attenzione verso l’architettura. A tre anni dall’inaugurazione ufficiale della nuova sede, che affianca il già esistente Centro Ricerche, il Gruppo Chiesi vuole continuare il processo di riqualificazione urbana dello storico sito industriale di via Palermo, a Parma, e creare un innovativo “business playground”. Un hub aperto alla comunità aziendale e ai propri partner, un landmark in cui indagare le interconnessioni tra la salute delle persone e la salute del pianeta. 

Per questo, la società biofarmaceutica multinazionale italiana – che oggi è tra le prime 50 aziende farmaceutiche al mondo – ha lanciato qualche mese fa una Call for Ideas internazionale dal titolo “Restore to Impact”, con l’obiettivo di individuare concept innovativi, evolutivi e trasversali che possano servire da linee guida per la rigenerazione del sito industriale di via Palermo. Chiesi si propone quindi come piattaforma culturale e promotore di riflessioni sull’Open Innovation e sull’architettura costruita. 

“I rapidi cambiamenti a cui assistiamo oggi richiedono l’interconnessione di professionisti sempre più specializzati e con competenze in continua evoluzione. Ma richiedono anche luoghi di lavoro allineati alle attuali nozioni di cooperazione, inclusione, benessere, luoghi in cui ricerca e formazione sono supportate da tecnologie all’avanguardia. Spazi innovativi dove le persone sono sempre al centro,” afferma Andrea Chiesi, Head of Special Projects di Chiesi Farmaceutici.  

Flessibilità, adattabilità nel tempo, porosità – intesa come capacità di dialogare con il contesto fisico e sociale e come qualità del paesaggio e degli spazi pubblici in relazione alla connettività – e sostenibilità in termini tecnologici, ambientali, economici, aziendali e innovativi: sono questi i criteri selezionati dalla Commissione Selezionatrice di “Restore to Impact” per valutare le idee pervenute. 

La partecipazione alla Call è stata significativa, con quasi 500 utenti registrati alla piattaforma web del progetto nei due mesi di apertura dal 1 marzo al 30 aprile 2023 – grazie al lavoro di promozione e diffusione dell’iniziativa, che ha raggiunto più di cento Paesi in tutto il mondo. I concept selezionati per la fase finale del concorso sono 31, di cui 26 per la Categoria Professionisti e 5 per la Categoria Under 30. Di questi ne sono stati premiati tre per ogni categoria, per la Categoria Professional prevista anche una Menzione d’Onore. 

Tra i professionisti, i tre premi e la Menzione d’Onore sono stati assegnati a team di progetto, multidisciplinari o composti da soli architetti. Tutti operano in Italia, due nello specifico a Parma, a riprova di quanto la vicinanza e confidenza con un’area urbana, la sua storia e le sue criticità siano elementi fondamentali per lo sviluppo di un concept d’intervento come quello stimolato da “Restore to Impact”, proteso oltre i confini dell’architettura e aperto alla generazione o rigenerazione di un profondo dialogo tra impresa, territorio e comunità. 

Per la Categoria Under 30, i tre premi sono stati assegnati a laureandi o neo laureati di Architettura provenienti da tre diversi Paesi: Italia, Paesi Bassi e Australia. Un’apertura geografica che denota un diverso approccio metodologico dei tre concept, più inclini a proporre soluzioni flessibili nello spazio e nel tempo. 

La Commissione Selezionatrice commenta così i risultati dell’iniziativa: “Cosa viene prima dell’architettura? I bisogni di una società. Restore to Impact è questo: lanciando un concorso pubblico per rinnovare gli edifici esistenti, si vuole pensare collettivamente a come affrontare la rigenerazione di un’ex area industriale, per creare un cuore pulsante di connettività e riflettere sulle sue relazioni con la comunità locale. I risultati della Call for Ideas rappresentano una stratificazione di voci da cui estrarre… l’equilibrio.” 

Immagine in apertura: Chiiiesi di CMJC
Scopri di più su www.restoretoimpact.com 

Quando il design si fa pieghevole

Quando nel 1984 Renato Pozzetto ne “Il Ragazzo di Campagna” filma l’iconica scena del monolocale in cui tutti gli elementi domestici sono pieghevoli in un’ironica riflessione sulla vita di città, non avrebbe forse immaginato che in futuro la nostra quotidianità sarebbe stata profondamente popolata da questa idea progettuale.

Oggi, d’altronde, ci svegliamo in letti che spesso si richiudono in divani, viaggiamo verso il lavoro su mezzi di locomozione elettrica pieghevoli, come bici o monopattini. Chi usufruisce dei mezzi pubblici, poi, lo fa estraendo abbonamento o carte contactless da portafogli pieghevoli, prima di sedersi davanti a laptop anch’essi foldable. Se il tempo libero è scandito dalla lettura, ci troviamo di fronte ad alcuni dei primi e più classici esempi di design pieghevole, mentre la fetta di pizza piegata a metà consumata nella pausa pranzo ci ricorda che l’uomo si orienta quasi istintivamente verso questa soluzione. Per non parlare dello strumento essenziale alle nostre attività giornaliere, dal lavoro all’intrattenimento, ovvero lo smartphone anch’esso oggi diventato pieghevole, come il nuovissimo Honor Magic VS.

Eppure, la storia del design pieghevole affonda radici in un passato anche molto remoto. Ecco perchè, alla luce delle nostre pratiche contemporanee, merita di essere riscoperta.

Quando nel 1971 Brionvega lancia la sua campagna pubblicitaria “Dimensioni Brionvega”, che presenta in ordine di grandezza tutti i suoi prodotti, a catturare l’attenzione del pubblico è – per assurdo – il più piccolo e apparentemente celato dei suoi design: la radio TS207. 

È colorata, compatta, maneggevole, ma soprattutto pieghevole. Una soluzione progettuale che la rende un instant classic, che oggi serve a ricordarci come la storia del design sia attraversata da piccole grandi rivoluzioni pieghevoli.

È come se ogni generazione avesse la sua icona di design pieghevole entrata a fare parte della quotidianità, plasmando memorie e legandosi inevitabilmente all’evoluzione del nostro costume. Si pensi, per esempio, ai paraventi che hanno segnato, per decenni, una società in cui la nudità era tabù, anche nella vita coniugale, diventando oggetto di arredo spesso esotico ma anche custode di intimità e miccia, di fantasie e seduzione.

Honor Magic VS

Se chi è cresciuto a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 associano la radio TS 207 alla giovinezza trascorsa a cercare la giusta frequenza, per scoprire il risultato di una partita o ascoltare la propria canzone del cuore, per un altro paio di generazioni il design pieghevole diventa la madeleine proustiana che riporta istantaneamente a galla i pomeriggi passati a giocare con le console portatili Nintendo, come il Gameboy Advance SP (2003), DS (2004) e 3DS (2011). 

Analogamente, il telefono Grillo del 1967 di Zanuso e Sapper per Siemens racconta di tempi in cui si aspettava per ore attaccati alla cornetta per la telefonata di una cotta giovanile, mentre i flip phone a fine anni Novanta e metà Duemila, ci ricordano dei primi disattesi SMS romantici, agli albori della telefonia mobile. 

D’altronde la pieghevolezza è un attributo che porta necessariamente con sé il concetto di trasportabilità, quello che oggi chiameremmo “on the go”. Una vocazione che risponde alle necessità dell’uomo, nomadico sin dall’alba dei tempi. Ecco che la mobilità urbana è oggi costellata di monopattini elettrici e biciclette pieghevoli, come quelle di Brompton e Tenways.

Cambiano le tecnologie impiegate, i gusti e i device, ma l’attitudine progettuale rimane immutata. Un gioco, antico e semplice, come quello degli origami diventa così ispirazione per l’omonimo termo-paravento di Alberto Meda, prodotto da Tubes.

Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione, tanto funzionale quanto iconografica. 

Il nuovo Honor Magic Vs, nella miglior tradizione del design pieghevole, accoglie infatti una duplice sfida, ovvero quella di offrire una superficie estesa tanto di lavoro quanto di intrattenimento, pur rispondendo alla necessità del pubblico d’oggi di fare ritorno a device compatti e maneggevoli, dopo anni di iperboliche escalation di dimensioni. 

Con uno schermo ampio, sia aperto che chiuso, si qualifica come lo smartphone che va incontro alle esigenze dello scrittore o del lavoratore in viaggio, ma anche di chi desidera un telefono che sia compagno di intrattenimento, per la lettura e la visione di video. 

Honor Magic VS
Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità.

Lo sviluppo progettuale è infatti tra gli elementi più sorprendenti del telefono che, riducendo le componenti strutturali a 4 dalle 92 della precedente generazione, può fare affidamento su una cerniera superleggera che assicura fino a 400.000 chiusure, ovvero una media di 100 al giorno per più di dieci anni. 

D’altronde non è difficile pensare a quello che può essere considerato un suo antenato, cioè il libro, con la relativa evoluzione delle tecniche di rilegatura. Ma anche il quotidiano, pensato per essere letto, piegato, trasportato in mano, sotto il braccio o nella tasca della giacca. Eppure il telefono è oggi anche un juke-box sempre a portata di mano, evoluzione – si potrebbe sostenere – delle fonovaligie, come quelle Phillips o Lesa, che per prime consentirono di ascoltare i supporti in vinile anche fuori dalle mura domestiche attraverso un sistema di custodie, maniglie e cerniere. 

Il design pieghevole è, anche nei casi in apparenza più anonimi, parte integrante della nostra quotidianità. Si pensi alla sedia, un must dell’interior design diventato poi icona pop quando sottratta alla scrivania dei giudici e utilizzata, per esempio, negli incontri di wrestling. 

La sedia, cambiando nella forma e nei materiali, ha infatti continuato a incarnare un classico oggetto di design pieghevole, capace di armonizzare funzionalità e ricerca estetica attraverso i secoli. Ci sono quelle lignee del XVI secolo, come quella che Lina Bo Bardi portò con sé in Sudamerica per arredare la Casa de Vidro a San Paolo del Brasile, ma anche quelle da campo nate per scopi bellici e diventate icone del design, come la Tripolina di Joseph B. Fenby, a sua volta ispiratrice della Kenya di Vico Magistretti, seppur non foldable.

La Multichair di Joe Colombo per B Line
Il design pieghevole, potremmo sostenere, nasce con scopi prettamente pragmatici, finendo per plasmarci e, infine, diventare nostra estensione tanto funzionale quanto iconografica.

E, ancora, la tradizionale sedia da regista, fonte di un’iconografia intramontabile che associamo – tra gli altri – a Federico Fellini, la Multichair di Joe Colombo per B Line, o la Plia di Giancarlo Piretti, forse la più versatile e riconoscibile tra queste sedute. 

Corsi e ricorsi del nostro costume, come le porte pieghevoli che distinguevano molte reggie e ville nobiliari tra ‘500 e ‘800, poi rilette e stravolte da Klemens Torggler con la sua Flip Panel Door.

Gli interni, si sa, sono anche una questione di moda. La fashion industry non poteva, infatti, esimersi dal rendere la tecnologia pieghevole un suo cardine. Dalla borsa Bao Bao di Issey Miyake e dalla storica Pliage di Longchamp, alle calzature Furoshiki di Vibram. Non è certo un caso, d’altronde, se i pantaloni migliori sono quelli con la piega.

Come dimenticarsi, poi, di occhiali da sole come i Persol 714, nati come accessorio pieghevole e strettamente funzionale per i tranvieri di Torino negli anni ‘50 e poi elevati a icona atemporale di stile da Steve McQueen ne “Il Caso Thomas Crown”.

Pieghevole potrebbe essere anche la società del futuro, come suggerisce la visione distopica dell’autrice Hao Jingfang, che con il suo “Pechino Pieghevole” (2012) immagina una metropoli piegata in tre parti divise per classe sociale, al fine di gestire al meglio le ormai scarse risorse del pianeta. 

Oggi, in una società che ha così tanto assimilato le tecnologie pieghevoli quasi da non rendersene più conto, ripartire dallo smartphone – estensione tecnologica della nostra coscienza – è importante per riaccendere un discorso su questa filosofia progettuale, e anche di vita. E Honor ha appena posto un importante nuovo tassello per la sua evoluzione. 

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Illustrazioni di Davide Abbati