New spaces for contemporary art

New spaces for art. Le recenti aperture di due spazi quanto mai antitetici come il LACMA di Los Angeles e il New Museum di New York fanno pensare che stia per finire un'epoca. ma nessuna istituzione culturale sa ancora mettere in discussion il sistema. Testo Francesco Bonami

Lo scorso febbraio è stata inaugurato l'Eli Broad Contemporary Art Museum, il nuovo ampliamento del LACMA (Los Angeles County Museum of Art) firmato da Renzo Piano, che pare diventato ormai l'architetto ufficiale degli Stati Uniti. Stranamente, l'aprirsi delle porte del nuovo museo ha coinciso con la chiusura, forse definitiva, di una porta senz'altro più simbolica, quella di un decennio di eccessi e menzogne in architettura. Una porta spalancata nell'ottobre 1997, quando l'apertura al pubblico del Guggenheim Bilbao ha cambiato brutalmente la ragione stessa per cui un museo è un museo. Il fenomeno Bilbao ha rappresentato l'11/9 della cultura museale, un punto di svolta che potremmo chiamare 19/10, una crisi camuffata da trionfo. Da quel momento, l'involucro architettonico ha preso il sopravvento sul contenuto, mentre il termine "nuova sede" è diventato il motto per direttori e consiglieri di amministrazione almeno quanto la mostra 'blockbuster' – l'evento che fa sensazione – era diventata la parola d'ordine dei curatori di mezzo mondo per poter giustificare nuovi edifici, nuove campagne per la raccolta di fondi, nuovi budget milionari e porre rimedio al calo di affluenza. Il nuovo e deludente Eli Broad Museum fa pensare all'ultimo capitolo di una fiction chiamata "Sindrome di Krens", dal nome di Tom Krens, il visionario o, meglio ancora, allucinato direttore della Guggenheim Foundation. Se questo è vero, i musei saranno ora finalmente in grado di recuperare la loro sana ambizione di produrre cultura piuttosto che icone urbane o investimenti immobiliari. Tuttavia, se anche le istituzioni pubbliche stanno riemergendo da una decade di eccessiva baldanza, di questi tempi la loro influenza architettonica mostra di aver contagiato anche quei galleristi privati che sembrano non voler porre limite all'ambizione di creare nuovi spazi e nuovi edifici.

Dal White Cube nel centro di Londra o Gagosian a Chelsea fino alla Arario Gallery di Seul, i galleristi stanno sperimentando la stessa frenesia che ha investito i musei un decennio fa, competendo paradossalmente coi programmi, con i bilanci e le collezioni dei musei stessi. Il mondo dell'arte ha dato una pericolosa sterzata verso l'avidità, indebolendo il ruolo delle istituzioni pubbliche per offrire contenuti sgravati dal timore di mettere a repentaglio l'afflusso del pubblico e l'attenzione dei media. E se l'ambizione in campo culturale ha avuto un ruolo nel fondare importanti lasciti e creare opzioni per le sfide future, oggi sembra funzionare solo se produce chiacchiere da rotocalco e lo sfarfallio della celebrità. Forse l'icona architettonica, così insistentemente al centro del palcoscenico in questo inizio secolo, è stata semplicemente uno strumento per liberare la frustrazione di celebri architetti intrappolati nelle sabbie mobili della politica degli anni Settanta, ma anche quella di direttori di museo che da creatori di contenuti aspiravano a diventare produttori di pettegolezzi e copertine di rivista. La sfida del museo, nel tornare alla sua origine prestando orecchio a una crescente richiesta di idee più che di facce, è evitare di essere considerato un improbabile 'salotto' in cui celebrità di ogni campo possano mescolarsi incestuosamente per valutare quanto la loro ambizione culturale possa trasformarsi in consistenti introiti e come la loro presenza possa sostituire, temporaneamente, l'aura di opere d'arte umili e misurate. Il nuovo New Museum rappresenta un segnale in questa direzione, un nuovo emblema per un vecchio modello di istituzione culturale. Ma mentre, grazie alla rete, la comunicazione tra persone ha conosciuto una rivoluzione simile a quella innescata da Gutenberg, gli spazi pubblici di musei, teatri o club sembrano legati inesorabilmente a vecchi modelli.

Il bisogno di essere sperimentali o underground, tipico degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, è stato sostituito dall'obbligo di entrare immediatamente a far parte del sistema. La gestione e le strutture economiche, a partire dal MoMA fino all'Artist's Space, operano secondo lo stesso metodo e seguono un identico schema. Nessuno sembra sentire il bisogno o la necessità di fare un balzo verso un nuovo modello operativo. Paradossalmente, il nome che negli anni Ottanta era associato al prototipo del mercante, al lato oscuro dell'arte, Jeffrey Deitch, oggi rappresenta forse l'interprete più interessante e ibrido del suo campo, capace di mescolare in maniere improbabili il mercato alla sperimentazione underground e a programmi interdisciplinari, usando spazi diversi come piattaforma per proposte differenziate, a volte guidate dal mercato altre volte basate semplicemente sulla sfida della scoperta. La chiave del lavoro di Deitch, considerato un imprenditore di successo, è stata affrontare il fiasco con lo stesso entusiasmo del successo. Spostandosi da Soho a Long Island City, Deitch Projects sta tracciando i contorni della nuova città come nessun altro. Naturalmente l'Europa rappresenta un caso del tutto diverso, che non può esser paragonato alla scena artistica di New York. Tuttavia anche la scena europea è ancorata a modelli sorpassati: le molte Kunsthaus, Kunsthalle, ICA e così via, agiscono spesso nei confronti del sistema in generale e del mercato in particolare con un'attitudine confl ittuale tipica degli anni Settanta. Tale manicheismo programmatico appare decisamente datato e non affronta alcuna discussione riguardo a nuove maniere di presentare, discutere ed esplorare le differenti comunità artistiche e la loro produzione.

Se un tempo il New Museum costituiva la risposta alle limitazioni conservatrici del Whitney Museum, oggi non vi è alcuna istituzione culturale che metta realmente in discussione il sistema. Oppure, se lo fa, come in Europa, finisce per trasformare l'istituzione artistica in un club, nella filiale di uno sportello per la disoccupazione o in un centro di studi teoretici. Così, se negli anni Sessanta e Settanta essere rifiutati dal sistema era la scintilla d'avvio per operazioni innovative e audaci, oggi tutti, dagli artisti ai giovani curatori e ai galleristi emergenti, paiono terrorizzati di essere respinti dall'establishment. Se un tempo il rifiuto apriva una carriera, oggi esso è visto come puro e semplice fallimento. In tali circostanze, è difficile immaginare all'orizzonte la comparsa di luoghi nuovi o istituzioni innovative. La prosperità, o almeno la sicurezza economica, ha prodotto un'epoca di offerte molto stabili. Quella di cui siamo testimoni è una generazione di giovani, rampanti e pavidi strateghi del marketing. Se gli anni Settanta sono stati violentati dalla cultura dello slogan, il XXI secolo è sedato da una cultura da copyrighter. Il risultato di questo stato di cose sono musei che, lungi dall'essere spazi per i protagonisti della cultura del futuro, somigliano ai magazzini di uno spedizioniere o di una casa d'aste.
Brian Griffiths, The Only Leaving (Or Your Lonley Saucer Eyes), Greenland Street, 2007
Brian Griffiths, The Only Leaving (Or Your Lonley Saucer Eyes), Greenland Street, 2007
Il New Museum a New York
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Spinnerei
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Building 12 Spinnerei
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la Deitch Gallery di New York
con viste dell’installazione di Stefan Sagmeister Things I
Have Learned in My Life So Far
la Deitch Gallery di New York con viste dell’installazione di Stefan Sagmeister Things I Have Learned in My Life So Far
Facciate della Deitch Gallery
per sei mostre
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