Nel suo splendido libro Sottocultura, il fascino di uno stile innaturale, il sociologo inglese Dick Hebdige – grande studioso della nascita dei movimenti giovanili nell’Inghilterra degli anni Settanta – dedica una pagina bellissima al collage e la ruba a William Burroughs, il maestro del cut-up letterario. Allo stesso modo, Linda Mulvey nome di battesimo di Linder, nella sua rivolta politica e poetica, trasforma il suo nome, come fece il suo maestro nel collage, nato Helmut Hertzfeld.
Trasformazioni d’identità ed eleganza di tecniche estreme sono nate dalla contingenza di una stagione politicamente feroce, densa di rivolte e di soggetti da lei trattati con forme e materiali apparentemente fuori contesto: donne fiore, casalinghe con teste a forma di elettrodomestico ed eroi di magazine insulsi.
Dopo anni di Photoshop, non avrebbe senso limitarsi all’analisi dei suoi fotomontaggi come tecnica pura. La mostra parigina al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, invece, racconta il delicato e contingente lavoro di prelievo e scavo, le delicatezze estreme che Linder, una delle figure più influenti della scena punk inglese, ha saputo evocare ed estrarre da materiali di scarto, pornografia, pubblicità e sottocultura dei tardi anni Settanta, che magnificamente glorificano l’idea del “fatto in casa” con materiali poveri. E in questa povertà pre- e post-Thatcheriana confluiscono la sua rivolta artistica, personale e quella sociale.
Non deve trarre in inganno la patinatura delle tarde opere che chiudono la mostra e che, con materiali più consoni alla contemporaneità, ricentrano il lavoro di Linder al fianco di buoni o ottimi artisti della commodity art, da Koons a Hirst.
È a Max Ernst di Una settimana di bontà o ai fondi di collage delle scatole di Joseph Cornell che bisogna riferirsi per gustare e comprendere a fondo la bellezza di serie come We are that kind of people who know the value of time 1976-77, capolavoro dell’estetica trans-gender.
Manchester, città natale di Linder, è all’epoca disastrata: nessuna idea di bellezza sembra poter essere realizzata o elaborata qui. Eppure è una fucina per fenomeni musicali e, dal suo laboratorio sottoproletario, l’artista estrae piccoli gioielli che solidificano nel tinello di casa.
L’ossessione di un’immagine del mondo borghese alla rovescia: da una parte i giornali femminili (moda, decorazione e fotoromanzi), dall’altra la stampa maschile (automobili, bricolage e pornografia). Linder li accoppia incestuosamente e la donna fiore diventa quasi un pezzo-signature, gli eroi del porno o le playmate sono sottoposti a trattamenti di chirurgia estetica, a veri e propri rituali del disgusto. Le immagini diventano carne per dare corpo alle sue ossessioni e l´artista stessa si trasforma in performer. Il 5 novembre 1982 a un concerto del suo gruppo Ludus nel celebre club the Hacienda, si presenta in scena con un vestito di avanzi cibo e carne trovata nella spazzatura di un ristorante cinese, e serve al pubblico Bloody Linder cocktail. I suoi manager offrono in sala gli stessi avanzi di cibo, avvolti in pagine di giornali porno. Il concerto si conclude con Linder che improvvisa uno strip e rivela sul suo corpo la scritta “Donna svegliati!”.
Se il suo lavoro fosse confinato a queste punte alte di strategia dello scandalo, molto comuni alla sua generazione, probabilmente l’opera di Linder e la sua ricerca si sarebbero esaurite nel consumo culturale alla moda e sarebbero irrilevanti da almeno due decadi. Sono, al contrario, l’eleganza e la sobrietà del suo lavoro a riempire con grande sorpresa ed efficacia oggi le sale di un museo. L´installazione parigina edulcora un poco il minimalismo tagliente e la critica sociale feroce degli esordi, ma tuttavia, la vita di periferia e l’arte come mezzo di riscatto s’impongono.
Linder sa di funzionare come artista politica e sa esattamente che i suoi ingredienti base sono il surrealismo e la giustapposizione di piani di lettura, differenti e distanti. Il transfert concettuale è evidente in opere come Cakewalk degagé del 210 in cui l´impossibilità di realizzare il suo sogno infantile di diventare una ballerina dà vita a un’esilarante galleria di passi di danza e torte glassate dal gusto picabiano. Quello operato da Linder non è però un semplice detournement situazioni sta, che spesso si trova alla base di molta estetica sottoculturale. È piuttosto il suo carattere prezioso da miniaturista incallita, il suo sapere estrarre dalle immagini la loro bellezza convulsiva. Linder impone una qualità piuttosto sciamanica al suo lavoro. Nella sofisticazione del collage questa attitudine si rivela in tutta la sua completezza. Linder produce, in questa “Femme/Objet” un manifesto o piuttosto un’opera globale capace di mettere in tensione categorie, generi, universi ed epoche emotivamente distanti. Lo fa attraverso la maschera di una distratta e perversa casalinga schizofrenica, come se guardassimo un personaggio uscito da un film di John Waters. Ma ciò che vediamo sui muri è il distillato a freddo, prodotto in 30 anni di lavoro: bellissime pagine di copia-e-incolla di una stagione white-trash riletta attraverso una magnifica e deformante lente raffaellesca.