Another BRICk in the wall

Come si raccontano attraverso l'arte i quattro Paesi emergenti: i padiglioni di Brasile, Russia, India, Cina.

I Paesi emergenti, a cui guardare sempre con curiosità, se non altro perché l'energia e le contraddizioni che da essi promanano sono per noi un ricordo, si presentano a Venezia in modo molto diverso.
Il Brasile che, come la Russia, ha lo storico padiglione ai Giardini, e come la Russia presenta il lavoro di un artista che ha preso posto sulla scena dell'arte negli anni Settanta. Artur Barrio, nato in Portogallo nel 1945 e trasferitosi in Brasile nel '55, è però al di fuori dei più noti movimenti di quegli anni (Neo-concretismo, o il Modernismo brasiliano in architettura).

Nella prima sala sono in mostra le documentazioni di alcune azioni degli anni Settanta: ad esempio con la carta igienica, scelta perché materiale povero, alla portata di tutti. La scelta di questi materiali parte dall'assunto che altri più preziosi avrebbero incarnato il capitalismo, allontanato le persone dall'arte; ma anche, inevitabilmente, e dichiaratamente nel suo manifesto del 1970, di mettere in discussione l'intero sistema dell'arte.
Nella prima immagine e qui sopra: Artur Barrio, particolari dell'installazione, padiglione brasiliano. Fotografia: Andrea Basile
Nella prima immagine e qui sopra: Artur Barrio, particolari dell'installazione, padiglione brasiliano. Fotografia: Andrea Basile
La vera sorpresa è però la poetica seconda sala, installazione realizzata appositamente per questa Biennale. Diversi temi si intersecano: il mare e il suo depauperamento e la puzza di pesce, le relazioni – la stanza del monologo e quella dialogo, le fratture e i segni sul muro e i pavimenti, la spazzatura, da sempre componente delle sue opere, che emerge in un angolo. Coinvolti tutti i sensi.

Andrei Monastyrski e Collective action, particolare dell'installazione, padiglione russo. Fotografia: Andrea Basile
Andrei Monastyrski e Collective action, particolare dell'installazione, padiglione russo. Fotografia: Andrea Basile
Empty zones, è elegante come solo taluni intellettuali russi sanno fare, per una sorta di contrappasso con la volgarità dei nuovi ricchi. Il lavoro concettuale di Monastyrski e Collective actions, è costituito da azioni realizzate per lo più d'inverno in ampi spazi, tra campagne coperte di neve, boschi e fiumi, aveva ed ha (il collettivo esiste ancora) lo scopo di indurre alla contemplazione. Il nostro è un mondo sempre proiettato nel futuro, che si realizza attraverso l'azione. Nella Russia dei Settanta, ma vale ancora oggi, opporsi a questo agire significava opporsi alla costruzione del comunismo, impedire il raggiungimento del 'futuro'. Vero è che questo tipo di operazioni concettuali avvenivano anche in Occidente ma la mancanza assoluta di un mercato dell'arte in Russia li rendeva per certi versi ancora più forti. Andrei Monastyrski è stato maestro, in senso proprio, di intere generazioni di artisti.
Il curatore del padiglione indiano Ranjit Hoskote ha scelto un titolo molto evocativo e pertinente “Sono tutti d’accordo: sta per esplodere…”, l’arte contemporanea indiana, il sub-continente, l’economia, le contraddizioni, la sostenibilità dello sviluppo?
Zarina Hashmi, Home is a foreign country, padiglione indiano. Fotografia: Andrea Basile
Zarina Hashmi, Home is a foreign country, padiglione indiano. Fotografia: Andrea Basile
È la prima volta dell'India: quasi che solo adesso sganciata dalla lunga sudditanza culturale nei confronti della Gran Bretagna, potesse presentarsi sola. Sudditanza e "testa di ponte" per far conoscere il lavoro dei molti artisti indiani che, usciti da una tradizione fortissima, sono riusciti a raccontare la 'nuova' India con un linguaggio contemporaneo e per certi versi globale.

Il curatore Ranjit Hoskote, che è anche poeta, ha scelto un titolo molto evocativo e pertinente "Sono tutti d'accordo: sta per esplodere…", l'arte contemporanea indiana, il sub-continente, l'economia, le contraddizioni, la sostenibilità dello sviluppo? Tutto, in effetti, potrebbe esplodere.
A sinistra: Praneet Soi, veduta parziale dell'installazione; a destra: Gigi Scaria, Elevator from the Subcontinent, padiglione indiano.
A sinistra: Praneet Soi, veduta parziale dell'installazione; a destra: Gigi Scaria, Elevator from the Subcontinent, padiglione indiano.
Poi il discorso fa più sottile, gli artisti scelti sono innanzi tutto nomadi all'interno del paese e nel resto del mondo come se fossero i confini a dover esplodere come precondizione per la rappresentazione di questo grande paese. In secondo luogo non fanno parte del circuito delle gallerie e delle aste. Lavorano in quei territori, luoghi fisici e pratiche che, completamente diversi tra loro, tentano di rappresentare la complessità e multiformità dell'India. E allora si capisce l'invito a Zarina Hashmi, nata ad Aligarth che vive e lavora a New York con, per essere espliciti, Home is a foreign place (Casa è un luogo straniero). E a Praneet Soi, nato a Kolkata che vive tra 'casa' e Amsterdam, Gigi Scaria migratore interno, e Desire machine collective che lavorano quasi al confine col Pakistan. Nell'insieme il piccolo spazio in fondo all'arsenale riesce a dare l'assaggio che deve.
Yuan Gong e Yang Mooyuan, padiglione cinese.
Yuan Gong e Yang Mooyuan, padiglione cinese.
La Cina ha ormai consolidato la sua presenza con dehors, in fondo all'Arsenale. La prima grande mostra che fece conoscere l'allora nuovo Pop cinese si deve ad Achille Bonito Oliva nel 1993; a ripensarci oggi ben più potente di quanto non si veda da qualche anno a questa parte. C'è una certa grazia nelle opere di Pan Gongkai che si confronta con i temi dell'installazione di matrice occidentale e con l'idea di melting pot. Così come lo spazio è ben gestito da Yuan Gong con i fumi che si integrano con i vasi di Yang Mooyuan.
Venezia: free Ai Weiwei
Venezia: free Ai Weiwei
Resta la questione di un'arte che non può essere critica. L'artista non deve esprimersi come persona, non gli è consentita quella narrazione verbale dell'opera, (nonostante il ricco, di parole, catalogo di Gongkai) che rende esplicita la critica e ne svela la forza anche al di fuori dei confini disciplinari. E allora il grande assente Ai Weiwei, cui tocca la parte dell'eroe, è quello di cui tutti parlano.
Dalla Cina insomma ci si aspetta ben altro. Simona Bordone

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