Le stanze di Carolina

da Domus 893 giugno 2006In cerca di un’affinità fatta di studiatissime imperfezioni, assemblaggi, ripescaggi e mescolamenti: Antonio Marras ha incontrato Carol Rama nella sua casa di Torino. Testo di Giuliana Altea. Fotografia di Enrico Accardo. Video di Paolo Bazzani A cura di Francesca Picchi.

In cerca di un’affinità fatta di studiatissime imperfezioni, assemblaggi, ripescaggi e mescolamenti: Antonio Marras ha incontrato Carol Rama nella sua casa di Torino. Testo di Giuliana Altea. Fotografia di Enrico Accardo. Video di Paolo Bazzani A cura di Francesca Picchi.

Giochi di travestimento
Per capire cosa lega Carol Rama e Antonio Marras – un’artista il cui percorso eccentrico attraversa buona parte del Novecento, e uno stilista quarantenne che assume la moda come terreno d’incontro di pratiche diverse – bisogna vedere le loro case. La casa-studio torinese di Carol Rama è uno scrigno di memorie costruito per accumulo, in cui ogni apporto pare sedimentato senza sforzo. Sculture africane, forme per scarpe, pezzi di sapone, teste di bambola; e poi attrezzi indefinibili (da carpentiere, da meccanico dentista?), accomunati solo dal materiale (vecchio legno, vecchio ferro) e dal colore scuro; e foto, foto di lei e dei suoi amici, da Casorati a Mollino, da Sanguineti a Warhol: una composizione che ha trovato nel tempo il suo ordine, e il suo registro tonale nel grigio cupo delle pareti, mai imbiancate e difese dalla luce naturale dalle imposte sprangate.

L’ordine formale dello studio, come quello che governa il lavoro di Carol, nasce dal corpo per arrivare a un equilibrio ‘vissuto’ più che razionalmente architettato. La casa di Marras, ad Alghero, è apparentemente agli antipodi: luminosa invece che notturna, aperta sulla campagna invece che sigillata, laboratorio collettivo invece che luogo di ricerca individuale. Ma la logica degli spazi è simile; anche qui miriadi di oggetti, foto, tessuti e abiti sono accatastati a formare un ambiente saturo, stravagante e però familiare. Alla base c’è uno stesso atteggiamento verso le cose. Entrambi sono attratti dagli oggetti che mostrano i segni del tempo e di vite passate, e ne fanno schermi di proiezione della propria soggettività, di desideri, fantasticherie e paure.

Di qui la spinta che porta Marras a lavorare sugli indumenti vecchi, cambiando loro identità e genere. Di qui anche la fascinazione di Carol per certe categorie di oggetti sgradevoli e rifiutati come le dentiere, gli orinatoi dei suoi primi disegni, e più tardi quelli inclusi nella serie dei bricolage, esempi di un new dada eterodosso, fatto di chiazze di colore e di croste materiche addensate intorno a occhi di vetro, siringhe o unghie animali. Ritrovandoci qualcosa di sé, Marras è sedotto dal modo in cui Carol guarda agli oggetti.

Quando le sciorina davanti un mucchio di ritagli di sartoria (pezzi di camicie, sottovesti, frammenti di stoffe), lei tuffa le mani nel mucchio e, improvvisamente seria, comincia a considerare i ritagli uno a uno, come fossero cose vive: questo è ‘crudele’, l’altro “fa ribrezzo”, un terzo la spaventa. Quel fondo di inquietudine che è nella moda di Marras, e che nasce dal suo rapporto col passato e con la morte, lei l’ha scoperto immediatamente. La casa-involucro, protettivo e claustrofobico, coincide per Carol Rama con la casa-palcoscenico di quello che, con una parola a lei cara, chiameremo ‘vissuto’. Alcune sue opere nascono dalla scena domestica, o a questa rinviano. Past-future (1965) è un asciugamano ingiallito, che iscrizioni di formule matematiche e file di occhi di vetro trasformano in una pergamena magica, in una mappa carica di premonizioni apocalittiche.

La sfera della quotidianità trapassa insensibilmente in quella del lavoro artistico: la coperta sul divano è un arazzo con motivi appliqué di membra e una figura dalla lingua saettante, analoga a quelle di tanti quadri; ciò che copre e protegge il corpo ne manifesta anche i turbamenti. La casa è per Carol rivestimento e travestimento di sé, modalità dell’essere e dell’apparire. “Credevo che la vita fosse un gran bel gioco di travestimento continuo” – raccontava a Lea Vergine. “Loro, i miei genitori, amavano molto cantare le opere liriche e interpretarle… Quando ho capito che non era così, che la vita non era fatta di Turandot, di Don Carlos, di Rigoletto, mi sono molto spaventata”. Ma questo gioco di travestimento Carol continua a giocarlo, praticando scientemente l’arte e la vita come auto-rappresentazione. Nel suo lavoro la messa a nudo di pulsioni e stati intimi coesiste con una esplicita volontà di travestimento.

Alcuni abiti che ha cucito per sé negli anni Settanta fanno parata proprio di quello che ordinariamente si tiene nascosto. Gli “abiti da sposa”, come ironicamente li chiama, sono tuniche nere su cui spiccano come ferite delle vulve rosse, realizzate con applicazioni di tessuto in rilievo. “Volevo indossarla [la fica] come una pagina speciale, perché avessi più fascino io, anche perché ho sempre temuto di averne molto poco”: a voler scomodare Bataille, ci sarebbe da dire su questa idea di indossare la fica come un gioiello. Dunque la messa a nudo è sempre anche messa in scena, teatro; “messo a nudo” non è sinonimo di spoglio e disadorno, tutt’altro.

La coroncina fiorita che cinge la fronte dei personaggi dei suoi acquarelli (un ricordo della madre che in clinica, malata, “cantava con dei fili di fiori in testa”) la dice lunga in proposito. È al tempo stesso la fronda della baccante, l’alloro del poeta e – come è stato notato – l’equivalente figurativo della sua treccia di capelli biondo pallido; e poco importa se quell’acconciatura a treccia, destinata a connotare inconfondibilmente la sua immagine, le sia stata suggerita negli anni Settanta da Man Ray. Oggi è difficile resistere alla tentazione di leggervi un indizio della sua capacità di slittare con naturalezza dal piano della realtà a quello della rappresentazione, dalla prosa quotidiana alla poesia di una finzione sempre un po’ sopra le righe. Giuliana Altea

Olga Carolina Rama nasce a Torino nel 1918. Inizia a dipingere nei primi anni Trenta, non attraverso studi ‘regolari’ bensì frequentando assiduamente Felice Casorati e il suo studio, cenacolo d’artisti. Dopo aver aderito all’astrattismo del Movimento Arte Concreta, si riavvicina alla figuratività. Nel 2003 la 50a Biennale di Venezia la premia con il Leone d'Oro.
Antonio Marras nasce nel 1961 ad Alghero, dove vive e lavora. Fin da bambino familiarizza con stoffe e tessuti nel negozio del padre. Nel 2003 viene nominato direttore artistico per la linea femminile di Kenzo. Nello stesso anno ad Alghero dà inizio con Maria Lai al progetto “Trama doppia”, una serie di mostre in cui Marras si confronta con un'artista.

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