In giorni in cui le archistar toccano altissimi vertici di fama, la critica può apparire del tutto irrilevante in qualsiasi dibattito sulla disciplina del costruire.
Compito del critico, d’altronde, è discriminare: distinguere il meglio dal peggio, oppure – se volete – il bello dal brutto, ciò che ha più valore da ciò che ne ha meno. Lo implica la parola stessa: per i greci, criticare rimandava all’idea di setacciare e filtrare, dividere il grano dalla pula. Ma le stelle dell’architettura non desiderano immischiarsi in tali distinzioni. Soddisfatte dello status quo, preferiscono sollevarsi sopra le discussioni di chi invece intende discriminare.
Muovere critiche alle archistar può perciò equivalere a lanciarsi in commenti poco lusinghieri sul concerto di una rockstar – per quanto, al contrario della star-architettura, la musica pop sembra aver alimentato una cultura di voci critiche perspicaci e articolate, pur se va detto che le loro parole, per quanto pungenti, non riescono a trapassare neppure le reputazioni più artefatte. Quel che vale per le popstar e gli star-edifici vale anche per le più pacate torri residenziali.
Che cosa, dopotutto, si può dire in termini di critica architettonica di queste semplici pareti di elementi standardizzati in vetro e acciaio, innalzate intorno a piani dalla pianta quasi identica? Forse che qualche annotazione sull’ingresso o sugli elementi decorativi può avere una rilevanza critica? In più, nella gran parte dei casi, i commenti su questo tipo di edifici si limitano a qualche deferente encomio.
Il critico deve fare attentamente i conti con quelli che sembrano apparire degli aspetti dozzinali in architetture apparentemente straordinarie
Il critico è perfettamente giustificato se indaga come l’edificio sia percepito
Sono sempre stato convinto che il critico debba essere un combattente. Per esserlo, è necessario naturalmente avere una base da cui operare – non solo quella ovvia di un quotidiano, di un periodico, di un programma radio o TV o magari di un blog – da cui rendere pubbliche le proprie opinioni, ma è necessario, più intimamente, possedere una nozione chiaramente articolata di quello che si pensa la società debba aspettarsi da chi costruisce le sue strutture.
Non penso solo agli architetti, ma anche agli operatori immobiliari, agli speculatori, alle amministrazioni locali e centrali: in definitiva, a tutti quegli ‘altri’ che determinano i programmi in base ai quali l’architetto deve operare.
Sono sempre stato convinto che il critico debba essere un combattente
Forse più importante è l’effetto su quanti commissionano un edificio, che tendono a considerarsi dei mecenati se non dei benefattori, e così vedono qualsiasi dibattito su prodotti della loro magnanimità come una maniera di mettere in dubbio il loro buon nome. Tali rischi non fanno altro che suggerire come le parole del critico impegnato non siano tutte inutili, e che oltre qualsiasi risentimento esse possano benissimo promuovere la riflessione e magari guidare i partecipanti al processo di realizzazione dell’edificio a cambiare il loro approccio.
Più attivamente, i critici a volte prendono parte a concorsi e siedono nelle giurie di premi che richiedono il loro coinvolgimento nelle decisioni progettuali. Considerandoli sotto il profilo più basso, potrebbero, per quanto gentilmente, per quanto gradualmente, contribuire a formare e riformare l’opinione pubblica, terreno disomogeneo ma fertile sul quale – o contro il quale – tutti coloro che sono coinvolti nel costruire inevitabilmente agiscono. Naturalmente, valutandone il profilo più alto, la critica operativa può anche stabilire un dialogo costruttivo con quanti sono attivamente coinvolti nel dar forma al nostro ambiente.
Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 979 / aprile 2014