London calling

Qual è la proposta artistica che la capitale britannica ha preparato per accogliere i visitatori di un evento globale come le Olimpiadi? Il fermento della scena artistica londinese sembra affidato soprattutto a tre superclassici come Freud, Hockney e Hirst, mentre a livello istituzionale lo scouting di nuovi talenti è nelle mani della Whitechapel.

"Londra ispira sempre progetti imprevedibili. Ci sono ancora tutte queste situazioni stravaganti all'interno della città. Oltre vent'anni fa, abbiamo lavorato a un progetto alla AA (Architectural Association) in cui abbiamo disegnato su una mappa delle linee e poi, viaggiando lungo di esse, abbiamo documentato tutto. È stato un progetto molto interessante perché, prima di tutto, ha dimostrato che certe cose erano allineate tra loro, ma che altre cose—quando altri si saltava da un livello al successivo—erano estremamente eterogenee. Queste congiunture estreme sono ciò che rende la città così unica. Londra è una grande città che è diventata molto stratificata". È Zaha Hadid a parlare in questi termini di Londra, sua città adottiva dal 1973, sottolineando come la sua eterogeneità urbanistica sia metafora di una diversità culturale dove tradizione decadente e sperimentazione spinta convivono come da nessun'altra parte sul pianeta. "An architect in London": così Hadid ha intitolato il suo contributo al catalogo della mostra British Design 1948-2012: Innovation in the Modern Age, allestita fino al 12 agosto al Victoria & Albert Museum, istituzione che—se mai ce ne fosse bisogno—si riconferma come una garanzia di qualità, capace come pochi di mischiare l'alto e il basso, la ricerca e la divulgazione, per realizzare mostre lievemente esilarati e da cui esci sapendone più di prima.

Londra ha aspettato sessantaquattro anni per poter ospitare nuovamente le Olimpiadi, ma non si può certo dire che nel frattempo se ne sia stata con le mani in mano. Molte delle idee scaturite a Londra e dintorni in questi sei decenni incorniciati da due eventi olimpici sfilano in British Design from 1948, la più trasversale e inclusiva delle numerose esposizioni organizzate in città per celebrare il "made in Britain" e le sue icone: dall'abito e la corona indossati da Elisabetta II per la sua incoronazione agli altrettanto sfarzosi costumi di scena di David Bowie ai tempi di Ziggy Stardust; dalla stilizzata silhouette del Concorde a quella iper-realistica del pouf sadomaso di Allen Jones, fino a Mary Quant e I-D, Peter Saville e i Blur…

Dovendo scegliere un solo oggetto a rappresentare la coolness londinese, opterei senz'altro per il celeberrimo simbolo della sua metropolitana, disegnato nel 1913! Perché in questa città, lo stile—un misto di anticonformismo e raffinatezza—nasce per strada e da essa gli stimoli si propagano nei vari strati della società britannica, classista e permeabile allo stesso tempo. La strada—intesa sia come tratto da percorrere che come luogo di provenienza—era evocata nel titolo dell'autobiografia di Damien Hirst On the way to work, pubblicata nel 2001, in cui il leader dei Young British Artists racconta con un tono scabrosamente divertente (e qui cito amazon.com) il suo viaggio verso il successo planetario, alimentato da una tremenda voglia di rivalsa sociale e da un genuino talento. Da qualche anno, nel mondo dell'arte è di prassi liquidarlo come un artista ultracommerciale e bollito, ma le immagini indimenticabili che ha creato resteranno per sempre e, intanto, le code per entrare a vedere la sua prima retrospettiva—in corso fino al 9 settembre alla Tate Modern—sono lunghissime.

L'attesa è ripagata dalla potenza estetica ed emotiva di lavori come la stanza con le farfalle, che vivono e muoiono davanti ai visitatori, o quelle che sembrano essere momentaneamente sui primi quadri monocromi, gli spin e gli spot paintings, lo squalo in formalina rimesso in forma per l'occasione da un restauro—come mi raccontano i guardiani della sala. I lavori più recenti sembrano una parodia di quelli succitati: merce kitsch pronta per essere venduta al (neo)collezionista di turno che però non scalfisce la grandezza delle precedenti visioni di Hirst e la loro capacità di penetrazione nell'immaginario collettivo.

Qualcuno una volta ha detto che un artista—fatta eccezione per Picasso e pochi altri—ha dieci anni di produzione intensa e significativa. Il decennio di Hirst sono sicuramente gli anni Novanta quando, come ricorda lui, "A Londra sembrava che tutto fosse facile e sempre in festa". I tempi sono cambiati. Oggi nel bookshop della Whitechapel Gallery, il suo On the way to work viene scontato del 50%, mentre in quello della Tate si vendono sedie a sdraio personalizzate con le sue farfalle per un centinaio di sterline e—per molto meno—t-shirt con il suo teschio ricoperto di diamanti. In giro per musei e gallerie non si vedono giovani talenti britannici capaci di imporsi al mondo come fecero Hirst e il suo gruppo una ventina d'anni orsono.

A parte la Hayward Gallery & Visual Arts che, subito prima dei Gioghi olimpici, ha puntato sulla generazione di artisti post-YBAs rappresentata da David Shrigley e da Jeremy Deller (quest'ultimo fresco di investitura a rappresentante della Gran Bretagna alla prossima Biennale di Venezia), l'unica istituzione che prova a fare un po' di scouting di talenti nuovi nuovi è la Whitechapel. Con l'esposizione The London Open, fino al 14 settembre propone 35 artisti attivi sul territorio londinese definendoli "stelle potenziali del futuro". Ma, allo stesso tempo, va sul sicuro svelando un fregio permanente sulla facciata dell'istituzione a opera della super-affermata Rachel Whiteread. E alla grandissima ma disturbante Gillian Wearing, che degli anni Novanta inglesi ha fatto un ritratto molto poco festaiolo, ha dato lo slot meno prestigioso di primavera. Nei quindici giorni olimpici, che saranno benedetti da frotte di turisti, si punta su personaggi come Tracey Emin per riuscire ad attirarli fuori porta: è il tentativo del Turner Contemporary nel Kent.

Nel settore dei classici, David Hockney—più vitale che mai a 75 anni suonati—ha avuto la sua celebrazione alla Royal Academy nella prima metà dell'anno; più o meno nello stesso periodo, il trapassato Lucien Freud—l'artista britannico più noto a livello planetario dopo Francis Bacon—ha avuto la sua alla National Portrait Gallery, prima di cedere il posto ai ritratti della Regina giusto in tempo per le celebrazioni del Diamond Jubilee. Guardati dall'alto dai decani della Brit Art, vivi e defunti, che fanno affollare i musei come dei supermercati al sabato pomeriggio, gli ex Young British artists (Hirst, Whiteread, Emin…) vengono offerti ai milioni di turisti stranieri in transito in città come simboli di quella cool Britannia che è impossibile ricreare e si può solo rievocare con un senso di dolce nostalgia. Non è più il tempo dei grandi gesti scandalosi dei YBAs, che conquistavano le prime pagine dei giornali rendendo l'arte contemporanea un fenomeno di costume diffuso come la musica o la moda.

Ma, nella città che rispetta le tradizioni ma progetta l'innovazione, le energie sono tutt'altro che esaurite. Basta un sabato pomeriggio a piedi nelle vie di Schoreditch con un altro monumento nazionale, Dinos Chapman—metà del famigerato duo dei fratelli Chapman—per ritrovare quel tessuto urbano eterogeneo testimoniato da Zaha Hadid più di due decadi fa, e per sentire nuovi fermenti brulicare nelle miriadi di spazi che non si sa bene se siano bar, fashion store o spazi espositivi indipendenti—e spesso sono tutte e tre le cose allo stesso tempo. Perché di questi tempi, più che mai, l'importante è partecipare.
Caroline Corbetta

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