We can’t go home again

Nella sua seconda personale alla galleria Michel Rein a Parigi, Didier Faustino realizza una serie di abiti/uniformi/sculture con i materiali che di solito si usano nelle nostre case, sottolineando l'instabilità del nostro abitare.

Didier Faustino, We can't go home again
Didier Faustino si oppone sempre più spesso, attraverso la sua pratica architettonica, alla noia contemplativa e alle tendenze afasiche del contemporaneo.
Lo spazio della galleria non è da intendere nemmeno come pretesto per trasformazioni radicali di un luogo. Neppure l’aspetto performativo a lui caro nei primi lavori, così caratterizzati dall’idea del corpo in transito, lo è; sembrano, i precedenti lavori, piuttosto essere gli utensili chiave per ritagliare figure di senso.
In questa sua seconda personale da Michel Rein a Parigi dall’astratta attività di display che fin dal titolo, riecheggia l’adagio della società dello spettacolo, the show must go on, persino il pubblico è totalmente sottratto e viene integrato/invitato attraverso un gioco di parole atopico davvero insidioso, visto che oltre alla sua algida visione classificatoria non c’è nulla da portare a casa. Un esercizio da entomologo con 13 particolari scafandri, armature, più propriamente cellule, che punteggiano il transito tra lo spazio fisico e quello mentale.
Didier Faustino, We can’t go home again
Didier Faustino, We can’t go home again. Photo Florian Kleinefenn, courtesy Didier Faustino et Michel Rein, Paris/Brussels

Quasi si trattasse di pelli perdute in un repentino mutamento culturale questo prêt à porter tagliato nella moquette o in altri materiali come il feltro o il polistirene è un catalogo di tic abitativi per una umanità urbana a cui è rimasta a cuore solo l’idea di comfort. È difficile non pensare a una specie che non sa più abitare il suo corpo costantemente impegnata in conflitti interiori o esteriori.

Per queste armature si scomodano riferimenti alti come il feltro di beuysiana memoria o le cellule di Absalon ma è evidente che non è all’idea di protezione o a quella di spazio di resistenza che queste uniformi rimandano. In particolare quella al suolo fa pensare all’idea del tappeto in cui si arrotolano i cadaveri o sotto cui si nasconde la cenere ma questo avviene solo se si praticano un immaginario gore e  una ironia distaccata a cui Faustino sembra inconsciamente fare riferimento.

Didier Faustino, We can’t go home again
Didier Faustino, We can’t go home again. Photo Florian Kleinefenn, courtesy Didier Faustino et Michel Rein, Paris/Brussels
Il pannello d’ingresso in cui è tagliata la frase the show must go home funziona come un dispositivo surreale di stampo magrittiano visto che i caratteri sono intagliati nel legno e lasciano trasparire il giallo amianto delle coperte termiche di sopravvivenza. Questo è il vero abisso che apre ai nostri occhi la vertigine trasgressiva, il rapporto tra un dentro e un fuori che, trattandosi di uno spazio espositivo, rimanda a un sistema dell’arte in cui le opere – e ogni residuo oggettuale – o è trash o un trofeo.
È su questa frontiera fittizia che Didier Faustino piazza il suo piccolo esercito, il suo plotone di sarcofaghi-parka a cui il pubblico fa da contorno. Tenta il rovesciamento di una forma ibrida di percezione come quella inscritta in un vecchio lavoro di Chris Burden. L.A.P.D. police uniforms, un’opera degli anni Settanta dell’artista americano nella quale le divise dei poliziotti ricreavano una relazione di potere e dominazione attraverso il potere evocativo della loro giustapposizione nello spazio.
Didier Faustino, We can’t go home again
Didier Faustino, We can’t go home again. Photo Florian Kleinefenn, courtesy Didier Faustino et Michel Rein, Paris/Brussels
Nel caso di questa mostra, percorriamo il set di un B-movie minimalista. Dai pavimenti, dietro le porte e sui muri è la geometria a ordinare la fuoriuscita di presenze spettrali. Oppure siamo in una delle tante boutiques del contemporaneo, in cui l’opzione tempo è sospesa. È una bizzarra relazione con l’immaterialità che sembra piuttosto irrisolta.
Didier Faustino, We can’t go home again
Didier Faustino, We can’t go home again. Photo Florian Kleinefenn, courtesy Didier Faustino et Michel Rein, Paris/Brussels
Queste protezioni appese alle pareti sono ricavate dai materiali che rivestono tipicamente i pavimenti delle nostre abitazioni e sono ricontestualizzate dalle forme più conosciute del design di Faustino. Probabilmente non è con lo sguardo al suolo che troveremo la vera filiazione alta di questo lavoro. È forse un invito a rivisitare Vito Acconci, una delle primi fonti di ispirazione dell’artista franco-portoghese. Nel suo Seedbed del 1972 alla galleria Sonnabend, la nudità della proposizione era in fondo simmetrica a queste variazioni sensuali, qui in mostra e intrise della stessa monotonia masturbatoria. Tracce reversibili del nostro rapporto, allergico e stereotipato, con la coscienza del vivere contemporaneo.

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