Musei ideali

Una rassegna ragionata dei modelli museali più interessanti a livello internazionale porta a una conclusione inaspettata: il loro DNA non è la scelta dell'architettura o delle opere d'arte, ma lo spazio sottile che li separa.

Interrogarsi oggi su quali siano i musei e gli spazi espositivi ideali significa liberarsi del feticcio del nuovo, dell'architettura a tutti i costi, dell'ansia da costruzione. Alcuni dei migliori musei al mondo sono spazi che non erano originariamente dedicati all'arte e che sono stati recuperati attraverso restauri e conversioni. Molti altri sono musei che sono cresciuti attraverso un lungo processo di stratificazione, in cui architettura e contenuto si sono cristallizzati attraverso anni e anni di coesistenza. Altri spazi espositivi (e pensiamo a quelli carichi di memorie e residui storici utilizzati per alcune biennali ed esposizioni temporanee) sono letteralmente objets trouvés, luoghi dall'architettura e dalle funzioni promiscue, ma proprio per questo provvisti di un alto potere evocativo. Ciò che fa davvero grandi i musei è il software, non solo l'hardware: sono le opere d'arte, le esposizioni, il pubblico, non necessariamente la scorza degli edifici. O meglio, ciò che rende i musei unici è proprio il dialogo tra il software e l'hardware, dialogo che può a volte accendersi in scontro e frizione, o risolversi in perfetta armonia. È proprio nello spazio sottile che separa l'architettura dall'opera d'arte che va ricercato il DNA dei musei: l'intervallo tra l'architettura e l'arte è il vero locus del museo.
Sopra: Una sala della mostra di Ai Weiwei <i>So Sorry</i>, alla Haus Der Kunst, con le opere <i>Soft Ground</i>, 2009, <i>Rooted Upon</i>, 2009, <i>Fairy Tale</i>, 2007. Photo Wilfried Petzi, © Ai Weiwei. Foto di apertura: Shinro Ohtake, <i>Haisha</i> (dentista), 2006. Un intervento strutturale e grafico ha convertito in scultura questa vecchia casa-ufficio di un dentista. È una delle opere dell’Art House Project sull’isola di Naoshima, in Giappone, dove la Benesse Art Site ha trasformato una serie di vecchie abitazioni e intere parti di villaggi abbandonati in opere d’arte.
Sopra: Una sala della mostra di Ai Weiwei So Sorry, alla Haus Der Kunst, con le opere Soft Ground, 2009, Rooted Upon, 2009, Fairy Tale, 2007. Photo Wilfried Petzi, © Ai Weiwei. Foto di apertura: Shinro Ohtake, Haisha (dentista), 2006. Un intervento strutturale e grafico ha convertito in scultura questa vecchia casa-ufficio di un dentista. È una delle opere dell’Art House Project sull’isola di Naoshima, in Giappone, dove la Benesse Art Site ha trasformato una serie di vecchie abitazioni e intere parti di villaggi abbandonati in opere d’arte.
I fantasmi della storia
All'esplosione dei musei che ha contraddistinto i tardi anni Novanta e gli anni del boom di questo inizio secolo, all'effetto Guggenheim per intenderci, negli ultimi anni sembra essersi sostituita una logica ecologista, una consapevolezza ambientale che alla costruzione preferisce la trasformazione, il restauro e la conservazione. Non a caso, il museo più celebre di questo nuovo secolo è senza dubbio la Tate Modern di Londra, una ex centrale elettrica riconvertita da Herzog & de Meuron nel 2000. Tra i musei contemporanei che abitano lo scheletro di vecchi edifici, la Haus Der Kunst di Monaco rappresenta uno dei casi più complessi. Costruita tra il 1932 e il 1937 su progetto del "maestro architetto del Führer" Paul Ludwig Troost, l'edificio era stato concepito come la prima gigantesca architettura propagandistica del regime tedesco. La sua storia incarna la memoria dei momenti più traumatici del passato tedesco: con le sue proporzioni gigantesche, le svastiche a decorazione del portico e le superfici di marmo e bachelite, è un simbolo scomodo e terrificante della tracotanza nazista. Eppure negli ultimi anni (soprattutto da quando il direttore uscente Chris Dercon ha recuperato senza vergogna e imbarazzo l'architettura e i dettagli originali) la Haus Der Kunst si è imposta come uno degli edifici più interessanti per la presentazione dell'arte contemporanea ed è diventato un luogo in cui le opere d'arte sembrano arricchirsi di una nuova sostanza, come se l'ombra lunga della storia ne colorasse inevitabilmente i contorni. In altre parole, è la storia dell'edificio a farsi architettura e a conferire un nuovo contesto alle opere contemporanee. Una aura machine (una macchina che produce aura) l'ha definita Rem Koolhaas che, in una serie di testi e conferenze, ha dichiarato come la vera attrazione dell'Haus Der Kunst sia proprio la sua capacità di far precipitare in un luogo la memoria stessa del Nazismo e degli eventi di quegli anni. È il fantasma della storia che investe le opere esposte di una molteplicità di interpretazioni possibili, svelando indirettamente una complicità tra l'estetica dell'arte contemporanea e quella della Germania anni Trenta, complicità forse scomoda e difficile da ammettere, e che andrebbe indagata più a fondo, ma che pure carica le opere d'arte di un'energia unica.
Olafur Eliasson, <i>Viewing Machine</i>, 2001—2008. Basata sul principio del caleidoscopio, si trova nel parco botanico e centro di arte contemporanea Inhotim, Brasile. Photo Alina Lacerda.
Olafur Eliasson, Viewing Machine, 2001—2008. Basata sul principio del caleidoscopio, si trova nel parco botanico e centro di arte contemporanea Inhotim, Brasile. Photo Alina Lacerda.
Fino alla fine del mondo
La strategia del recupero, spesso sospesa tra filologia e finzione da romanzo storico, è stata seguita da molti altri esperimenti museali ed espositivi negli ultimi anni. In Giappone, per esempio, a partire dai primi anni Novanta, la Benesse Art Site ha trasformato una serie di vecchie abitazioni e intere porzioni di villaggi abbandonati sull'isola di Naoshima in luoghi assai suggestivi in cui mettere in scena installazioni immersive e opere d'arte site-specific. Quello di Naoshima, a dispetto di qualche eccesso di grandeur anni Ottanta che intacca il progetto, è un modello di museo diffuso e pulviscolare (un museo-arcipelago, come lo chiama il curatore svizzero Hans Ulrich Obrist) che rappresenta un approccio assolutamente originale e che, in questi ultimi anni, ha trovato molti sostenitori in luoghi assai distanti. In Brasile, per esempio, a un'ora di auto da Belo Horizonte e persa tra le colline dello stato di Minas, si nasconde l'esperienza museale forse più straordinaria e surreale degli ultimi vent'anni. Inhotim è un parco botanico in cui si conserva la più vasta collezione di palme al mondo: adagiati tra la rigogliosissima vegetazione, un incrocio tra foresta tropicale e scenografia da Jurassic Park, spuntano una serie di padiglioni (alcuni dalle architetture più audaci, altri più anonimi) in cui sono conservate opere di Matthew Barney e Doug Aitken, Helio Oiticica e Rirkrit Tiravanija e molti altri artisti contemporanei. Le esperienze museali di Naoshima e Inhotim si fondano sull'archetipo del pellegrinaggio, del viaggio di formazione e scoperta. Sono luoghi estremi, destinazioni che richiedono uno sforzo notevole per essere raggiunte e che come tali si impongono anche come tappe obbligate per un nuovo tipo di turismo intellettuale e global chic. D'altra parte, sia Inhotim sia Benesse Art Site condividono atmosfere da fine del mondo o da giardino edenico: più che ad architetti radicali o urbanisti visionari, questi miraggi museali sembrano guardare, rispettivamente, alle gesta eroiche e folli di Fitzcarraldo (l'avventuriero della foresta amazzonica immortalato nell'indimenticabile film di Werner Herzog) e all'estetica da eterno scapolo di James Bond. O. ancora, l'antenato di questo tipo di museo va ricercato nell'architettura delle esposizioni universali, con i tipici padiglioni e i giardini a far da cornice. In fondo il museo temporaneo della Biennale di Venezia è anch'esso un'architettura diffusa e per questo ancora assai attuale. Sia Benesse sia Inhotim possono anche essere ricondotte al modello di museo (o di mausoleo, si sarebbe tentati di dire) che Donald Judd ha costruito nella sperduta città di Marfa, in Nuovo Messico. Le vecchie baracche della base militare di Marfa, i capannoni e gli hangar recuperati e ridisegnati da Donald Judd compongono una sorta di città immaginaria, una geografia mentale che sembra essersi fatta realtà quasi per pura proiezione. Rigorose e maniacali, le installazioni a Marfa, sia di opere di Judd sia di quelle dei pochi colleghi che l'artista minimalista aveva invitato a esporre nel suo buon ritiro, hanno la precisione stralunata di un dipinto di Paolo Uccello. Ma Judd non è solo un poetico agrimensore del mondo: è anche un raffinato colorista e a Marfa ha giocato con la luce naturale per immergere le sue sculture e i suoi spazi in una sostanza luminosa che sembra combinare l'azzurro del cielo con il rosso del deserto.
Le esperienze museali di Naoshima e Inhotim si fondano sull’archetipo del pellegrinaggio, del viaggio di formazione e scoperta
Olafur Eliasson, <i>Viewing Machine</i>, 2001—2008. Basata sul principio del caleidoscopio, si trova nel parco botanico e centro di arte contemporanea Inhotim, Brasile. Photo Alina Lacerda.
Olafur Eliasson, Viewing Machine, 2001—2008. Basata sul principio del caleidoscopio, si trova nel parco botanico e centro di arte contemporanea Inhotim, Brasile. Photo Alina Lacerda.
Luci e ombre
La luce è un materiale da costruzione fondamentale nell'architettura di gallerie e musei. Renzo Piano è il maestro dell'illuminazione naturale: gli spazi e le opere della collezione De Menil a Houston e della fondazione Beyeler a Basilea sembrano galleggiare in una luce ovattata, mentre l'architettura recede sullo sfondo. Forse un po' troppo paludata e trattenuta nella sua eleganza blasé, l'architettura di luce di Piano si fa metafora stessa dell'idea di museo: la luce e il museo si identificano l'uno nell'altro, per definire uno spazio che è al contempo impalpabile e onnipresente, avvolgente ma inafferrabile. Piano ha spesso citato il museo nel kibbutz di Ein Harod in Israele come un precedente importante nella sua ricerca della perfetta illuminazione a luce naturale: era stato Pontus Hulten, all'epoca direttore del Centro Pompidou, a incoraggiare Piano e Dominique De Menil a viaggiare insieme in Israele per visitare Ein Harod. Il museo di Ein Harod, progettato da Samuel Bickels e inaugurato nel pieno della guerra arabo-israeliana del 1948, è stato il primo museo in muratura costruito in Israele. E già negli anni Trenta, quando era soltanto una precaria costruzione in legno, era già un esperimento unico: in un kibbutz di poche centinaia di persone, in cui mancavano pressoché tutti i servizi, il museo era stato costruito come centro della vita dell'intero villaggio. Edificato prima ancora che ci fosse una collezione, è l'incarnazione di un'idea di museo che forse oggi non esiste più, ma che va riscoperta e preservata: essere il fulcro di una comunità, luogo di aggregazione e incontro, asse portante della società, ma anche punto di fuga, nascondiglio nel quale rifugiarsi per sfuggire alla pressione della realtà. Nel 1937, nello stesso anno in cui a due passi dall'Haus Der Kunst si apriva la mostra di arte degenerata, in un kibbutz sperduto nel deserto un artista di nome Haim Atar scriveva sul giornale del villaggio: "Non c'è una generazione che abbia più bisogno di un museo della nostra, perché per noi l'arte è la possibilità stessa della vita". Massimiliano Gioni, Critico e curatore d'arte
La mostra Kibbutz, <i>Architecture Without Precedents</i>, al Museo Ein Harod in Israele, progettato da Samuel Bickels in un kibbutz.
La mostra Kibbutz, Architecture Without Precedents, al Museo Ein Harod in Israele, progettato da Samuel Bickels in un kibbutz.
L’installazione <i>Continente-Nuvem</i> di Rivane Neuenschwander, 2007, all’interno di un edificio 
del XIX Secolo nel parco 
di Inhotim. Photo Stephen Friedman.
L’installazione Continente-Nuvem di Rivane Neuenschwander, 2007, all’interno di un edificio del XIX Secolo nel parco di Inhotim. Photo Stephen Friedman.
Veduta aerea di Inhotim con, al centro, il progetto <i>Invençao da cor, Penetrável Magic Square #5</i>, De Luxe di Hélio Oiticica, 1977. Photo Marcelo Coelho.
Veduta aerea di Inhotim con, al centro, il progetto Invençao da cor, Penetrável Magic Square #5, De Luxe di Hélio Oiticica, 1977. Photo Marcelo Coelho.
Interno dell’Art Studio di Donald Judd a Marfa, Texas. L’artista ha acquistato nel 1990 questa ex drogheria per convertirla in studio. Contiene lunghi tavoli da lavoro e ripiani che mostrano i prototipi disegnati da Judd e i campioni per la fabbricazione. Judd Art/Works © Judd Foundation by VAGA, NYC/SIAE, Italy.
Interno dell’Art Studio di Donald Judd a Marfa, Texas. L’artista ha acquistato nel 1990 questa ex drogheria per convertirla in studio. Contiene lunghi tavoli da lavoro e ripiani che mostrano i prototipi disegnati da Judd e i campioni per la fabbricazione. Judd Art/Works © Judd Foundation by VAGA, NYC/SIAE, Italy.
La Mansana de Chinati/The Block, studio a sud ovest, a Marfa, Texas. Nel 1973 Donald Judd ha cominciato a installare le sue opere in questo gruppo di edifici dell’esercito, dove si trovano anche un’abitazione, una piscina disegnata da Judd 
e un giardino. Judd Art/Works © Judd Foundation by VAGA, NYC/SIAE, Italy.
La Mansana de Chinati/The Block, studio a sud ovest, a Marfa, Texas. Nel 1973 Donald Judd ha cominciato a installare le sue opere in questo gruppo di edifici dell’esercito, dove si trovano anche un’abitazione, una piscina disegnata da Judd e un giardino. Judd Art/Works © Judd Foundation by VAGA, NYC/SIAE, Italy.
Donald Judd, 15 opere in cemento, 1980—1984. Collezione permanente, 
the Chinati Foundation, 
Marfa, Texas. Photo Douglas Tuck (2009)
Donald Judd, 15 opere in cemento, 1980—1984. Collezione permanente, the Chinati Foundation, Marfa, Texas. Photo Douglas Tuck (2009)
Vedute della mostra di Mutt Mullican <i>Vom Ordnen der Welt</i>, alla Haus Der Kunst. Photo Jens Weber.
Vedute della mostra di Mutt Mullican Vom Ordnen der Welt, alla Haus Der Kunst. Photo Jens Weber.
Yayoi Kusama, <i>Pumpkin</i>, 1994, una delle opere al Benesse House Museum di Naoshima, un complesso aperto nel 1992 comprendente museo e hotel progettato da Tadao Ando e basato sul concetto della coesistenza 
di natura, arte e architettura. Photo Shigeo Anzai.
Yayoi Kusama, Pumpkin, 1994, una delle opere al Benesse House Museum di Naoshima, un complesso aperto nel 1992 comprendente museo e hotel progettato da Tadao Ando e basato sul concetto della coesistenza di natura, arte e architettura. Photo Shigeo Anzai.

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