Basta digitare Search, et voilà.
Sarà per questo che, girando per la rete, si continuano a vedere artisti, grafici e autori vari, che cercano le più ardite sperimentazioni visive, usando quel planisfero virtuale che è Google, enorme fotografia infinita della palla mondo, girata e rigirata come un calzino e come linguaggio unico e universale.
È quasi impossibile ripercorrere questo frenetico lavorio attorno alle geografie della rete, ma è bello provare a ricercare, e distillare alcuni esempi, per tracciarne il perimetro. Un primo esempio è la meticolosa ricerca effettuata dalla giovane artista statunitense Jenny Odell. Nella serie Satellite collections vediamo navi, piscine, campi da golf accatastarsi, decontestualizzate e ordinate, come in un catalogo reperti epifanici. Nel successivo Signs of Life, è invece il profilo grafico a imporsi, attraverso la riproposizione ridondante della cartellonistica stradale: indicazioni senza oggetto, a uso e consumo degli individui senza mondo che aveva poi già collezionato in All the People on Google Earth.
Il newyorkese Clement Valla gioca sulla distorsione della realtà, individuando e riproducendo un errore dell'automazione algoritmica con cui Google stampa le foto sul planisfero. Una foto del satellite, ricostruita dalla mappa, schiaccia inevitabilmente i ponti sui fiumi, spiana i grovigli di strade. Negandone il balzo, annulla le altezze. Un'astrazione onirica che a tratti suona come una lezione: il punto di vista unico (polifemico) è per definizione miope.
Gli stessi esperimenti che fecero ieri i dadaisti con la fotografia, o il Bauhaus con il tondino d'acciaio, oggi li troviamo nel mondo digitale.