States of Design 04: Critical design

Il Critical Design incrina i dogmi della cultura contemporanea del consumo appropriandosi di ogni mezzo a disposizione.

Questo articolo è stato pubblicato su Domus 949, luglio/agosto 2011

Il design è vita, e quindi è storia. Immerso nella condizione umana, la precede idealmente di qualche passo (rivelando così la sua natura di atto politico). Segue il corso degli eventi, e nei momenti cruciali è obbligato a prendere il comando per indicare al mondo un differente percorso evolutivo. È un tema sul quale, come si sa, Ettore Sottsass si è espresso senza mezze misure dichiarando, alla fine degli anni Sessanta, che il design "è un modo per discutere di società, politica, erotismo, cibo e persino di design. Alla fine, è un modo per costruire una possibile utopia figurativa o una metafora della vita".[1] Ed effettivamente, in diversi momenti e sotto l'egida di differenti manifesti, l'architettura e il design hanno alzato bandiera rossa (mai bianca!) e proposto con creatività delle correzioni di rotta.

Molto prima che il termine Design Radicale giungesse a definire il movimento italiano degli anni Sessanta, l'architettura e il design avevano fatto appello a una rottura col passato e proposto modi completamente nuovi di vivere, progettare e costruire. Gli anni Sessanta hanno assistito al moltiplicarsi di straordinari esercizi di utopia, capaci di rivaleggiare con la migliore letteratura e col miglior cinema non solo in termini di valori di produzione-design, ma anche per immaginazione filosofica. Dalle città parlanti di Archigram, che respiravano e camminavano, all'esistenzialismo pneumatico immaginato dal gruppo viennese Haus-Rucker-Co (una dilatazione dei confini mentali) via via fino alle slanciate megastrutture di Superstudio e Archizoom, svettanti sulla natura e sulla storia, i tardi anni Sessanta hanno rappresentato il trionfo dell'utopia creativa. Ciò nonostante, negli anni Settanta, periodo segnato dalla violenza e da una crisi di livello mondiale, costruire sul passato senza cancellarlo non pareva possibile. Persino i sognatori del decennio precedente piegavano verso la metafore di un fuoco catartico e purificatore, dai californiani della Ant Farm, meglio conosciuti per la Cadillac che si schianta contro un muro di televisori in fiamme (1975), fino all'indimenticabile pira della sedia Lassù concepita nello stesso anno da Alessandro Mendini.
Gayla Rosenfeld, Headscarf 
(il progetto è stato sviluppato all’interno dell’Industrial Design Department and Bezalel Academy of Art 
and Design.
Gayla Rosenfeld, Headscarf (il progetto è stato sviluppato all’interno dell’Industrial Design Department and Bezalel Academy of Art and Design.
Molto di più è accaduto nel design tra gli anni Settanta e oggi, in un'alternanza di momenti di torpore indotto da un eccesso di stile (per buona parte degli anni Ottanta, fino a che l'Aids, la caduta del muro di Berlino e una progressiva consapevolezza dell'incombente crisi ecologica, per nominare tre soli macro-eventi, hanno rimesso tutto in discussione) con momenti di attivismo e agitazione. Negli anni Novanta, l'era del rapido diffondersi del politicamente corretto (e della conseguente ipocrisia), le motivazioni più pure potevano essere messe in ombra dalla percezione o dalla concretezza di un impegno nella costruzione del marchio. Era ed è tuttora difficile per il mondo credere nella militanza politica di una multinazionale: Colors, l'innovativa e sempre controversa rivista monomarca (Benetton) lanciata da Tibor Kalman e Oliviero Toscani nel 1991, presentava numeri a tema su argomenti che sembravano scelti apposta per garantire l'accendersi di un dibattito. In questo senso, la pagina più celebre è forse quella che presentava una regina Elisabetta di colore (1993) in un numero dedicato alla questione razziale, insieme con la foto di un Ronald Reagan dilaniato dal sarcoma di Kaposi, del 1994, su un numero dedicato all'Aids. Colors è stata accusata di essere opportunistica e incendiaria: tuttavia, le sue idee e il suo messaggio, separate dal marchio, dimostravano tutto il loro potere, un segno che il mondo era ancora una volta pronto per idee forti e antagoniste. Il termine Critical Design è stato usato per la prima volta da Anthony Dunne nel suo libro Hertzian Tales: Electronic Products, Aesthetic Experience, and Critical Design (1999) e in seguito in Design Noir. The Secret Life of Electronic Objects (2001), scritto insieme a Fiona Raby.[2] In tutti i loro progetti e nel loro lavoro d'insegnanti del dipartimento di Design Interactions al Royal College of Art (di cui Dunne è direttore), Dunne e Raby hanno formalizzato un nuovo campo d'attività che muove dal design e dall'architettura radicale dei tardi anni Sessanta e primi Settanta, coniugandoli però con una carriera stabile e remunerativa. Ugualmente legato alla diffusione del proprio messaggio per mezzo di film e performance, Critical Design si concentra sullo studio dell'impatto (e sulle possibili conseguenze) delle nuove tecnologie e delle nuove politiche, nonché delle tendenze sociali e ambientali a livello planetario, così come sulla definizione di nuovi obiettivi e aree di interesse per i designer. Il processo di Critical Design non porta immediatamente a oggetti utili, quanto piuttosto a spunti di riflessione la cui utilità è insita nella capacità di aiutare altri a prevenire e dirigere i risultati futuri.
Alessandro Mendini,
<i>Lassù</i> (“Up There”), performance, 1975.
Alessandro Mendini, Lassù (“Up There”), performance, 1975.
Il compito del Critical designer è essere una spina nel fianco di politici e industriali, ma anche partner per scienziati e per quanti operano a difesa dei consumatori. Quello, inoltre, di stimolare discussioni e dibattiti sulle future implicazioni sociali, culturali ed etiche delle decisioni sulla tecnologia che si prendono oggi. "Per far questo", spiegano Dunne e Raby, "dobbiamo muoverci oltre il design delle cose come sono oggi e cominciare a progettare le cose come potrebbero essere, immaginando possibilità alternative e modi di essere diversi, per dare una forma tangibile a nuovi valori e priorità. I designer, comunque, non possono fare tutto questo da soli, e qui i progetti si avvantaggiano dallo scambio e dalla consultazione con persone che operano in altri campi, come l'estetica, la filosofia, le scienze politiche, quelle della vita e la biologia".[3] Nello stesso saggio, Dunne e Raby si riferiscono al futurologo Stuart Candy e alla sua categorizzazione del modo in cui distinguiamo il futuro in 'probabile', 'preferibile', 'plausibile' e 'possibile'. In Foragers, uno degli ultimi progetti del duo, i designer si occupano di un futuro possibile, in cui la raccolta del cibo è messa in discussione in modo radicale. Di fronte a una diffusa inquietudine riguardo al domani dell'agricoltura e alla schiacciante evidenza di una futura penuria di terra coltivabile e di risorse, nell'ambito di Protofarm 2050 (festival di idee proposto nel 2009 dall'organizzazione sudafricana Design Indaba) il duo ha progettato un scenario che ricalca tale situazione critica. Ma, anziché limitarsi a riesaminare le attuali tecniche di coltivazione, hanno proposto una serie di quesiti: è possibile che in futuro la gente debba procacciarsi il cibo? Gli umani sono in grado di vivere cibandosi di ciò che non è più considerato commestibile o potabile? Sapremmo sopravvivere se ridotti al nostro stato primitivo di cacciatori-raccoglitori? Anziché promuovere l'ingegnerizzazione della vita delle piante, Dunne e Raby immaginano di ingegnerizzare, nonché di affidare in 'outsourcing', il tratto gastrointestinale usando nuovi strumenti capaci di facilitare la digestione e la metabolizzazione di cibi difficilmente commestibili che già esistono intorno a noi—come radici coriacee e sostanze a base di cellulosa di cui si cibano molti altri mammiferi e uccelli, e di cui gli stessi nostri antenati erano in grado di nutrirsi. Indossati sul capo o sul corpo, questi strumenti estendono le nostre membra, la bocca e gli organi interni, agendo come micro-unità di elaborazione che sostengono il nostri processi evolutivi. Liberamente basato su applicazioni scientifiche e ispirato alle potenzialità della biologia di sintesi e dalle tecnologie biomimetiche, l'immaginifico, distopico e provocatorio progetto di Dunne and Raby è un esperimento concepito per sollevare la discussione e il dibattito.
Il processo di Critical Design non porta immediatamente a oggetti utili, quanto piuttosto a spunti di riflessione
Sinistra: Ralph Borland, <i>Suited for Subversion</i> (‘Abbigliamento per la sovversione’), 2002. PVC rinforzato con nylon, denim, imbottitura, altoparlante, lettore di frequenza cardiaca, circuiti elettronici. Destra: SPUTNIKO!, Menstruation Machine (‘macchina per mestruazioni’). Takashi’s Take. La macchina è stata messa a punto con la consulenza scientifica del Professor Jan Brosens del Dipartimento di Medicina dell’Imperial College Londra.
Sinistra: Ralph Borland, Suited for Subversion (‘Abbigliamento per la sovversione’), 2002. PVC rinforzato con nylon, denim, imbottitura, altoparlante, lettore di frequenza cardiaca, circuiti elettronici. Destra: SPUTNIKO!, Menstruation Machine (‘macchina per mestruazioni’). Takashi’s Take. La macchina è stata messa a punto con la consulenza scientifica del Professor Jan Brosens del Dipartimento di Medicina dell’Imperial College Londra.
Al Royal College of Art, Dunne ha sviluppato un programma ricco di competenze pratiche, ma anche di approcci teorici e collaborazioni interdisciplinari con scienziati, filosofi e politici, un programma che affronta le tecnologie emergenti che vanno dalla biologia sintetica all'ingegneria dei tessuti, di cui esamina le implicazioni nella vita quotidiana. Tra i molti esempi interessanti di ricerche condotte dagli studenti, in queste pagine ne presentiamo due in particolare, entrambe dedicati al corpo umano. Preparando il campo per The Race, Michael Burton spiega che 'siamo pericolosamente vicini alla fine dell'epoca degli antibiotici. E infezioni di poco conto, di cui ci eravamo dimenticati, torneranno a essere fatali.' The Race ci incita a tentare di evolvere insieme (o più velocemente) di germi, batteri e virus, e a ricostituire parte almeno del patrimonio microbico ormai spazzato via da ambienti e stili di vita eccessivamente igienizzati, responsabili di aver indebolito il nostro sistema immunitario. Intervenendo sulla crescita delle nostre unghie, per esempio, possiamo ottenere una superficie meno liscia che permetta lo sviluppo di flora batterica. Progettando nuovi ibridi animali e nuovi modi di relazione tra noi e loro possiamo ottimizzare la nostra esposizione alle loro malattie e ai loro parassiti, ma anche alle loro capacità di guarigione. Come nel caso di larve, grilli e mantidi tenute a distanza ravvicinata in gabbie fatte di capelli artificiali, o naturali.
Kieren Jones, <i>Personal Micro-Farm: The Chicken Project, Backyard Factory</i> (‘Micro-fattoria personale: Progetto polli, Fabbrica nel cortile’), Royal Collage of Art, 2010.
Kieren Jones, Personal Micro-Farm: The Chicken Project, Backyard Factory (‘Micro-fattoria personale: Progetto polli, Fabbrica nel cortile’), Royal Collage of Art, 2010.
Il progetto Body Modification for Love di Michiko Nitta immagina una tecnica per far crescere sulla propria pelle parti del corpo selezionate, il che vi consentirà di mostrare il neo favorito del vostro partner sulla vostra spalla, il capezzolo della vostra ex-fidanzata sul vostro osso pelvico oppure, sul vostro braccio, una chiazza di capelli che vi ricordino vostra madre. Si tratta naturalmente di un impegno a lungo termine, dato che il neo o il capezzolo cresceranno e richiederanno le nostre cure e i capelli dovranno essere tagliati e curati. Facendo penetrare il nostro background emozionale nel nostro corpo possiamo creare dei 'ricordi in crescita' capaci di mantenere viva la nostra memoria. Entrambi i progetti mostrano i tratti distintivi del curriculum del corso Design Interactions del Royal College of Art: la poesia, il tentativo di celebrare e amplificare ritualità e abitudini umane usando la tecnologia contemporanea, alti valori di produzione (di solito i lavori sono presentati non solo come oggetti, ma anche come cortometraggi perfettamente prodotti, come performance e/o opere visive), una forte posizione filosofica riguardo futuri possibili e preferibili.
Natalie Jeremijenko, 
Feral Robotic Dogs, 2006.
Natalie Jeremijenko, Feral Robotic Dogs, 2006.
Come sempre, le scuole sono gli epicentri della trasformazione del discorso nel design e della professione stessa. Oltre al RCA, la Design Academy Eindhoven vanta un robusto background in Critical Design. Non dimenticherò mai la loro mostra Post Mortem al Salone del mobile di Milano del 2006. Li Edelkoort, direttore dell'istituto dal 1998 al 2008, insieme agli istruttori della scuola, che comprendono alcuni dei designer europei più interessanti e sperimentali, aveva chiesto agli studenti di lavorare sul tema della morte. E per quanto straordinaria fosse quella mostra, quella di quest'anno non lo è stata di meno, in particolare il progetto di Brigitte Coremans intitolato Biodegradable Coffins for the Stillborn, bare biodegradabili per feti mai nati. Il mondo della formazione al design è stato molto influenzato da questi esperimenti in Critical Design, e negli ultimi anni altri corsi sono stati lanciati in tutto il mondo. Una menzione particolare spetta alla Parsons di New York, non solo perché il suo nuovo programma, Transdisciplinary Design, si pone giusto alla confluenza tra design, tecnologia, performance e sperimentazione, ma anche perché il suo fondatore, Jamer Hunt, è uno dei critici più riconosciuti nell'universo del Critical Design, oltre che interlocutore prezioso per il presente articolo. Tuttavia, non tutti gli esempi di Critical Design provengono dalle scuole. Alcuni nascono dalla natura stessa del designer, come nel caso dello scomparso Tobias Wong, provocatore nato e designer nutrito dal mondo artistico newyorkese, la cui spilla a rosa fatta di materiale antiproiettile esemplifica una posizione in continuo equilibrio tra satira e arte.
Sinistra: Brigitte Coremans, Coffins for the Stillborn (‘bare per i mai nati’). Il progetto affronta la delicatissima questione del momento in cui ha inizio la vita. I bambini mai nati non hanno dimora: il progetto si pone la questione di dare forma (e un rituale) al sentimento della perdita. Destra: Kieren Jones, The Chicken Project, porta uovo in bone china a base di pollo 
(1 pollo = 1 coppa).
Sinistra: Brigitte Coremans, Coffins for the Stillborn (‘bare per i mai nati’). Il progetto affronta la delicatissima questione del momento in cui ha inizio la vita. I bambini mai nati non hanno dimora: il progetto si pone la questione di dare forma (e un rituale) al sentimento della perdita. Destra: Kieren Jones, The Chicken Project, porta uovo in bone china a base di pollo (1 pollo = 1 coppa).
Suited for Subversion di Ralph Borland è un indumento da disobbedienza civile per dimostranti che vogliano proteggersi dai manganelli della polizia, ma anche una presa di posizione concettuale che pone l'attenzione sui rischi che si devono affrontare per difendere le proprie convinzioni. Il capo presenta una videocamera wireless da montare sulla testa, che funge da testimone capace di registrare le azioni della polizia, e un altoparlante al centro del petto da usare per emettere musica o slogan. In un'azione di gruppo, quando molte persone indossano Suited for Subversion, sarà possibile udire il battito cardiaco che cresce all'aumentare della tensione, una sorta di colonna sonora naturale capace di eccitare la folla, ma anche di mostrare la vulnerabilità del singolo. Tutti questi esempi, anche quelli in apparenza più nichilisti, sono caratterizzati da una profonda empatia, dalla fiducia in un possibile futuro migliore, e dalla fede nella carica dimostrativa di utopie progettate con cura. Il fatto che il Critical Design discenda dal Design Radicale degli anni Settanta, con la sua attenzione nei confronti delle questioni politiche e sociali, è riconosciuto. Tuttavia, dato che questa versione contemporanea non sta tentando di scandalizzare l'establishment a ogni piè sospinto, ha un maggior potenziale di affermarsi. La rivoluzione che sta tentando è all'interno del sistema, forse meno veemente, ma più consapevole e dirompente. Se era aria nei pneumatici anni Sessanta e fuoco nei roventi anni Settanta, qual è l'elemento della critica del design di oggi? Forse l'anima, se elemento si può chiamare. Paola Antonelli, Critico e curatore, MoMA
Dunne e Raby, Faraday chair, 1994-97: rifugio dai campi elettromagnetici che invadono le nostre abitazioni.
Dunne e Raby, Faraday chair, 1994-97: rifugio dai campi elettromagnetici che invadono le nostre abitazioni.
Note:
1. Come riporta Peter Dormer, What is a Designer?, in Design Since 1945, Thames and Hudson, London 1993, p. 10.
2. Una pagina esaustiva di FAQ sul Critical Design
3. Anthony Dunne and Fiona Raby, Between Reality and the Impossible (Entre la Réalité et l'impossible), in Téléportation, catalogo della Saint-Étienne International Design Biennal, 2010, p. 105.
Michael Burton, <i>Hair Harbourer</i> (dalla serie <i>The Race</i>), 2007. Il progetto sfrutta la condizione genetica dell’ipetricosi (l’eccessiva pelosità—un ritorno allo stato primitivo animale umano) per creare un habitat simbiotico per insetti, parassiti e batteri.
Michael Burton, Hair Harbourer (dalla serie The Race), 2007. Il progetto sfrutta la condizione genetica dell’ipetricosi (l’eccessiva pelosità—un ritorno allo stato primitivo animale umano) per creare un habitat simbiotico per insetti, parassiti e batteri.

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