Dispositivi in rete e spazio pubblico

Adam Greenfield, urbanista e fondatore di Urbanscale, racconta a Domus il suo punto di vista sulla "città intelligente" ed evidenzia come programmazione e gestione dal basso debbano compenetrarsi.

Urbanscale's Urbanflow screens
Hannah Gregory: Il tuo prossimo libro sarà intitolato The City is Here For You to Use, “La città esiste perché tu la possa usare”. Questa centralità dell’uso pare di fatto voler collocare in primo piano nel funzionamento della città gli utenti invece degli urbanisti e degli amministratori.
Adam Greenfield: Certamente. Tutti questi ruoli hanno una parte vitale nella creazione e nella gestione di uno spazio a rete, ma se esiste una cosa definibile “città intelligente”, essa deve essere in grado di riconoscere che la sua intelligenza sta nei cittadini stessi. Per quel che posso prevedere, la supervisione della pubblica amministrazione resta indispensabile a garantire che i benefici e i rischi della tecnologia a rete siano equamente distribuiti, e che il pubblico interesse sia tutelato. La mia speranza è che si sia collettivamente in grado di progettare sistemi di informatica urbana capaci di controllare questa intelligenza invece che deprimerla: questo è lo scopo del libro.
Urbanscale Muni-meters
Urbanscale's Muni-meters

H.G.: La tua scrittura, il tuo pensiero e la tua pratica sono a favore di una specie di “urbanistica di base”, in cui la tecnologia a rete è usata come strumento per valorizzare l’iniziativa dei cittadini?

 

A.G.: Sì, ma non solo. Credo che questa componente sia troppo poco presente nella maggioranza dei dibattiti contemporanei sulla città a rete, ma non è possibile costruire completamente dal basso sistemi a scala urbana funzionanti. Pensa per esempio che cosa accadrebbe se ogni palazzo di un certo viale decidesse per conto suo se accettare o meno una pista ciclabile. Immagina come questo genere di impostazione a scacchiera minerebbe la coerenza funzionale della città.

In generale vorrei vedere sistemi a rete progettati in modo che li si potesse indirizzare secondo i propri scopi, per garantire il proprio benessere, e non vincolati dall’idea di benessere di qualcun altro. Il che non implica nessun intervento spettacolare, solo un attento riposizionamento.

Per esempio si può paragonare il modo in cui le telecamere di sicurezza a circuito chiuso sono generalmente installate al modo in cui un’organizzazione che si chiama Digital Divide Partnership usa le telecamere nell’atrio dei complessi residenziali comunali di New York. Mentre di solito il segnale di una telecamera a circuito chiuso è visibile alla polizia (o peggio, a una società di sicurezza privata) le telecamere di Digital Divide trasmettono il segnale a chi vive nello stesso edificio. È la comunità stessa ad avere la facoltà di osservare ciò che avviene minuto per minuto e a rispondere nel modo più adeguato. Quando si riconosce qualcuno in un’inquadratura di Digital Divide, a riconoscerlo non è un algoritmo di riconoscimento facciale oppure un agente in uniforme in una sala di controllo lontana: sono i suoi vicini.

Per estensione credo che ci muoveremmo su un terreno più solido se un maggior numero di sistemi fossero progettati integrandovi questo genere di controllo di affidabilità.

Urbanscale, Mini-meters
Urbanscale's Muni-meters

H.G.: Tu non condividi l’idea che il collegamento in rete dei dispositivi e le tecnologie cloud incoraggino il controllo dall’alto. Quale tipo di strategia può essere adottata dai progettisti per porre le informazioni relative alla città nelle mani dei cittadini?

 

A.G.: Credo ancora fermamente nell’apertura come tratto tecnico e come fattore etico, benché paia che ciò stia andando fuori moda. L’esempio più concreto cui riesco a pensare resta il comando “Mostra sorgente pagine” integrato nei browser. Nei primi anni di Internet, quando le pagine web erano per lo più definite da semplici codici HTML, “Mostra sorgente” rappresentava qualcosa di profondamente demistificatorio. Si poteva entrare dentro una pagina e vedere come funzionava. E nel farlo si poteva anche imparare come funzionava l’HTML.

Io penso che, quando si progettano sistemi di tecnica dell’informazione in modo che siano modulari e autoesplicativi, si finisce con il permettere a tutti di smontarli, di imparare come funzionano e di usarli per fare quel che loro serve. Quando questa apertura si esprime a livello dei dati (quando i dati riuniti in un certo sistema sono di libero uso, disponibili gratuitamente, liberamente riusabili) le persone troveranno modo di usarli a proprio beneficio.

Perciò, invece di mantenere le informazioni sul luogo degli incidenti di bicicletta o degli ingorghi di traffico unicamente riservate agli amministratori cittadini, bisogna metterle a disposizione di tutti sotto forma di interfacce strutturate. Fateci usare le informazioni che generiamo per prendere decisioni migliori. Questo, per me, è il modo di accrescere le facoltà di intervento dei cittadini e di rendere utilizzabile l’intelligenza urbana esistente.

 

Urbanscale, Urbanflow
Urbanscale, Urbanflow

H.G.: Hai osservato buoni esempi attuali o recenti di progetto urbano orientato alle persone?

 

A.G.: Mi par di capire che le scelte del servizio newyorchese di condivisione delle biciclette CitiBike sulla collocazione dei parcheggi delle bici siano basate su una mappatura e su un’analisi dei dati sviluppate in collaborazione con i cittadini. Mi piace crederlo, perché la collocazione dei parcheggi di CitiBike è davvero quasi perfetta.

In generale la cartografia urbana sta migliorando. Il sistema “Legible City” realizzato dalla City ID a Bristol, in Gran Bretagna, è il miglior esempio del genere. Gli si deve la diffusione della maggior parte dei comportamenti virtuosi che vediamo oggi applicati alla mappe urbane: orientamento dei pedoni, percorsi pedonali radiali con il conteggio dei tempi e delle calorie, individuazione immediata della posizione in cui ci si trova e della direzione in cui si procede, identificazione chiara degli edifici e del quartiere, codici colore appropriati. Avrà un influsso su cose come le recenti mappe di Pentagram per CitiBike. Se solo si potesse trasferire lo stesso livello di competenza alla cartografia digitale sarebbe in gran passo avanti.

Urbanscale, Urbanflow
Urbanscale, Urbanflow

H.G.: Qual era il tuo obiettivo nel caso degli schermi Urbanflow di Urbanscale? Urbanflow pare ben accordarsi all’appello a creare “isole digitali” che fa parte di questo concorso bandito da Domus: offrire servizi tecnologici ai cittadini e alla pubblica amministrazione.

 

A.G.: Urbanflow, come tutto ciò che abbiamo fatto a Urbanscale, era il tentativo di spingere il discorso un po’ più avanti, di dimostrare che ci sono occasioni concrete di applicazione sostenibile dell’informatica urbana in rete, che consistono prima di tutto nell’insistere sul fatto che questi sistemi devono essere progettati prioritariamente a beneficio dei cittadini.

 

H.G.: Si potrebbe dire che l’ideale sarebbe usare le possibilità della tecnologia prossima ventura per riportare la città al genere di assemblea democratica che in genere viene associato alla polis dell’antica Grecia. Che cosa ne pensi?

 

A.G.: Credo che sia un’aspirazione preziosa per questo genere di tecnologie e una ragionevole definizione della mia ambizione per quanto ne riguarda la progettazione. Quel che dobbiamo progettare sono processi e sistemi tecnici che favoriscano l’autorealizzazione di collettività profondamente differenti, non solo un ceto d’élite. È un problema molto complicato.

Credo che sarà sempre difficile costituire sistemi praticabili di autodeterminazione democratica diretta a ogni livello superiore a quello di un villaggio ragionevolmente concentrato, al di là delle tecnologie di mediazione disponibili. Immagino che si stia parlando di gruppi di dimensioni intorno al numero di Dunbar. Perciò quel che vorrei vedere è un ripensamento del governo cittadino nel senso di una confederazione di gruppi all’incirca di questa dimensione, in cui le decisioni di ciascuno sono favorite dalle migliori tecniche disponibili in fatto di raccolta, visualizzazione e analisi dei dati.

 

Urbanscale, Urbanflow
Urbanscale, Urbanflow

H.G.: A livello personale e professionale qual è nel tuo lavoro il punto di equilibrio tra la scrittura e la progettazione?

 

A.G.: Nel mio lavoro cerco di integrare con consapevolezza i miei valori in sistemi pensati per essere realizzati su scala commerciale: di dichiarare apertamente in che cosa consistono questi valori e in che modo agiscono nel funzionamento del sistema previsto. E lasciare poi che le persone scelgano da sole che cosa pensano sia più comodo adottare.

In senso più ampio penso che il mio lavoro sia cercare di riportare la riflessione in un processo di sviluppo spesso troppo rapido. In quale modo la vita e le scelte delle persone modificheranno le condizione di una certa offerta di prodotto? Quale uso si sceglierà di fare di questo oggetto, uso che non si sarebbe potuto prevedere né a Espoo né a Seul né a Cupertino? Come riuscirà questo lavoro ad alleviare un po’ dei compiti con cui si è costretti a fare i conti dappertutto senza affliggerci con altri compiti? E soprattutto può il mio lavoro far qualcosa a livello di scenario, correggere qualcuna delle disuguaglianze di accessibilità, di potere e di privilegi che si vedono dappertutto per il mondo? Per quel che mi riguarda è l’unico genere di lavoro che val la pena di fare.

 

Adam Greenfield, teorico e urbanista, ha fondato a New York lo studio di progettazione di sistemi urbani UrbanscaleIl suo secondo libro, The City is Here For You To Use, sarà pubblicato sotto forma di collana di opuscoli digitali, il primo dei quali, Against the Smart City, sarà pubblicato il prossimo autunno da Do Projects e da Urbanscale.

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