Tutttovero

A Torino, Francesco Bonami ha instradato un’estesa esposizione che “va in cerca dell’intima importanza del parlare del vero nell’arte, in un’epoca in cui la realtà aumentata e l’informazione più veloce dei fatti mettono in dubbio la credibilità di qualsiasi notizia”.

Tutttovero
“La Verità? Un incaponirsi da adolescenti o un sintomo di senilità” (Emil Cioran). “Servire la verità è il più duro dei servizi” (Friedrich Nietzsche). “È impossibile portare la fiaccola della verità in mezzo alla folla senza bruciare qua e là una barba o una parrucca” (Georg Lichtenberg). “La verità è il pane degli intelletti robusti” (Arturo Graf). “Non c’è niente di così noioso come la verità” (Charles Bukowski).
Tutttovero
In apertura e sopra. Veduta della mostra “Tutttovero” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino). Photo Andrea Guermani, Torino
Dietro il richiamo della verità s’è sentenziato con particolare frenesia per secoli e secoli, almeno da Parmenide in poi, scomodando epistemologi, gnoseologici, filosofi della scienza e del linguaggio, poeti e letterati. Ciò viene in fondo a stabilire la grandezza smisurata della sua presa, così come la sua essenziale oleosità.
Se la più stretta è la via del vero, come dice il proverbio, proprio per questa via il curatore Francesco Bonami ha instradato un’estesa esposizione (ospitata da Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Fondazione Merz) che, ci fa sapere, “va in cerca dell’intima importanza del parlare del vero nell’arte, in un’epoca in cui la realtà aumentata e l’informazione più veloce dei fatti mettono in dubbio la credibilità di qualsiasi notizia”. O, al contrario, ricorrono al vero con tanta faciloneria da postularne l’ombra dietro ogni angolo: “Medjugorje: è tutto vero!” (Amazon); “Smettete di sognare, è tutto vero!” (Tripadvisor).
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino). Photo Andrea Guermani, Torino
“Tutttovero” (con tre “t”) è il titolo scelto da Bonami per dare sostanza a un progetto che raccoglie sotto lo stesso albero le dissonanti opere entrate via via nelle collezioni d’arte torinesi negli ultimi duecento anni (si fissa pure una data: la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815), la cui amplificazione di senso e abuso balbuziente di consonante fa dell’enfasi il tratto distintivo di una mostra che definisce sì il concetto di verità, pur evocando al contempo il suo contrario (It’s All True titolava ironicamente un film del maestro della contraffazione Orson Welles). Tutto vero, niente vero! come si usava dire, ed è proprio questa apparente contraddizione, i cui termini si suppongono molto lontani, che informa di sé ogni frangia del percorso espositivo.
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino). Photo Andrea Guermani, Torino
La mostra sdraiata nella Manica Lunga del Castello di Rivoli (nessuna opera alle pareti in quella che in epoca napoleonica era la quadreria di Casa Savoia) è decisamente la più gagliarda. Atletismo e machismo ne contraddistinguono il capo e la coda: dal poligono da tiro rivisitato di László Moholy-Nagy (The Shooting Gallery, 1927) ai due prestanti pugilatori di Francesco Messina e Marino Marini (due bronzi del 1929 e 1934), qui è tutto un “mostrar di muscoli”. A tagliare a metà la promenade espositiva, la Croce in ferro di Luciano Fabro (1965-86): di qua e di là levitano le lampadine chiacchierine di Pier Paolo Calzolari (mortificatio, imperfectio, putrefatio ecc., 1970-71), i Frammenti architettonici (1985) in poliuretano di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen, il cavallo stecchito di Maurizio Cattelan (Novecento, 1997), l’altisonante Barca nuragica (2000) di Gilberto Zorio, l’incantevole Altalena di violette (1963) di Fausto Melotti, i due petali di rosa invaghiti l’uno dell’altro di Parlez moi d’amour… (2002) di Mario Airò. 
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino). Photo Andrea Guermani, Torino
Su tutti s’erge l’Albero di 11 metri (1969-89) di Giuseppe Penone (a Rivoli è naturalmente l’Arte Povera a far la voce grossa: non mancano Mario e Marisa Merz, Boetti, Anselmo, Pistoletto), mentre s’appiattano al pavimento gli spartani giacigli di Monica Bonvicini, Massimo Bartolini e Jannis Kounellis, come pure l’arruffata Donna al sole (1954) di Leoncillo Leonardi. Ogni opera tende fatalmente a un precario equilibrio, e più delle altre Viral Research (1986) di Charles Ray, forse la più conturbante di questa sezione, nel suo mettere in scena il dramma del contagio da HIV attraverso un sistema vascolare di otto vasi di vetro contenenti inchiostro nero.
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino). Photo Andrea Guermani, Torino
Evidentemente portata alla finzione, la mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo si costituisce esclusivamente in funzione del dubbio. Una scolaresca di bambini osserva naso all’insù le colorate casette di Landscape with Houses (2009) di James Casebere, una fotografia che pare offrire un classico scorcio di un tranquillo quartiere residenziale di Dutchess, New York. “Non ci sono le porte!” esclama un bambino puntando il dito. “E i cani! E le persone!”, fanno seguito gli altri. “L’arte è il regno dell’immaginazione”, è la pronta risposta della candida insegnante, “un dolce impasto di verità e invenzione”. Tutto ciò che la circonda le dà ragione: le iperboliche gocce d’acqua alabastrina di Hermann Pitz (Des gouttes d’eau, 1989), i posticci reperti archeologici di Liz Glynn (Hellenistic Silver Collection, 2011), i falsi d’autore di Sherrie Levine, l’inutilizzabile studio di registrazione di Robert Kusmirowski (UHER.C, 2008), l’immaginario viaggio ai confini della terra di Pierre Huyghe (A Journey that Wasn’t, 2005) e quello nel vecchio West di Piotr Uklański (Summer Love, 2000). Senza avanzare pretese, qui la verità s’accompagna con disinvoltura al fantasioso, all’ingannevole, all’illusorio, al virtuale, al simbolico, al sintetico.
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo Andrea Guermani, Torino
Di fatto, la mostra allestita al piano interrato della GAM (la discesa annuncia il tema) corrisponde a tutto un mito del memento mori che riflette l’intenzione di indagare il soggetto della morte, come pure quello spazio di “torsione” (Torsione di Anselmo è uno dei pezzi esposti) che esiste fra l’idea e la sua messa in opera (“I am making art, I’m making art” ripete ossessivamente John Baldessari nell’omonimo video del ’74). Qui è il trapasso a essere puntualizzato. “Ero di nuovo vivo, vivo!” si legge su una delle 99 tavole su pergamena della serie MDLXIV (1976) di Luigi Mainolfi, in cui si rende scrupolosa testimonianza del processo scultoreo attraverso la realizzazione del calco del corpo dell’artista. 
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo Andrea Guermani, Torino
Il senso di reclusione accarezzato da Mainolfi echeggia e s’amplifica, dirimpetto, in quella zona criptuaria del reale, finta e finita, fitta di stalattiti e stalagmiti di carta, che è Grotto (2006) di Thomas Demand. Alla stessa oscurità partecipano I funerali di Tiziano (1855) di Enrico Gamba, gli Ostaggi e i Dioscuri (1956 e ’64) di Ettore Colla, l’Autoritratto in forma di gufo (1936) di Alberto Savinio e il ritratto post-mortem di Giuseppe Antonio Petrolini commissionato dalla moglie a Giuseppe Mazzola (1802), i neri bronzi di cani, tori, becchi, levrieri e cinghiali di Pierre Jules Mène, le teste carbonizzate di Medardo Rosso e Umberto Mastroianni. Come pure vi partecipa la Mole Antonelliana, qui demistificata dai prospetti di fine ’800 dello Studio Antonelli, che con il suo pentacolo si presta da anni a far da simbolo alla città consumandosi nella sua immagine come nella sua misteriosa aura.
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo Andrea Guermani, Torino
Un’altra figura del mondo inferiore, il coccodrillo, s’introduce nella mostra alla Fondazione Merz senza presentare documenti giustificativi: è di casa. Spolpato, inchiodato al muro, in alto, e a capo di una fertile filiazione di numeri ricorsivi dall’1 al 55, Coccodrillo Fibonacci (Mario Merz, 1989) non è di quelli che piangono (è impagliato), ma se pure una lacrima dovesse spillare eccola cadere, giù sotto, in una delle 120 proteiformi bottiglie di Coca Cola in vetro soffiato a mano di Damian Ortega (120 giornate, 2002) o umettare la sospirante spugna di mare costretta nel ferro di Respiro (1969) di Giovanni Anselmo. Nell’aria aleggia il rollante lamento di Names in the Doldrums (2014) di Anri Sala: un tamburo animato che commemora con il solo tocco delle bacchette i giovani palestinesi morti quell’anno nella Striscia di Gaza. 
Tutttovero
Veduta della mostra “Tutttovero” alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Photo Andrea Guermani, Torino
Qui biancheggia il silente poliedro Complex Form #52 (1990) di Sol LeWitt; là nereggia la spianata di frusti cappotti piombati e logore scarpe maschili spaiate, apparecchiata da Jannis Kounellis a memoria dell’Olocausto. Ma il tentacolare centro gravitazionale di questa esposizione, che tutto abbraccia e avviluppa, è certamente il ciclopico tavolo con pietre, frutta e ortaggi di Mario Merz (Pietra serena sedimentata depositata e schiacciata dal proprio peso ecc., 2003). “Le dimensioni dell’intera opera”, assicura con granitica certezza la giovane guardasala, “ricalcano pari pari i volumi della Cupola del Brunelleschi a Firenze”. “Davvero?”, le chiedo. “Certamente!”, risponde di volata. Poi piega la testa da un lato, come a rimuginare un pensiero. “Beh, per la verità…”, aggiunge dopo alcuni istanti, “nessuno s’è mai preso la briga di misurarla…”. 
© riproduzione riservata

fino al 11 ottobre 2015 (FSRR, Merz)
fino a 8 novembre 2015 (GAM, Rivoli)
tutttovero. Torino 2015

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