Halden Prison

Chiamato da Wenders a dirigere uno dei documentari di architettura di Cathedrals of Culture, Michael Madsen sceglie la prigione di Halden, ricordandoci che anche il carcere è un fatto culturale.

Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norway
L’artista e regista danese Michael Madsen chiama i propri film documentari, ma fin da principio li concepisce come progetti artistici. Del documentario mantengono il fatto che si occupano di luoghi reali e di temi con un forte impatto politico. 
La prigione di Halden, o il bunker per le scorie radioattive di Into the Eternity, sono spazi reali che possono essere descritti come fenomeni, cioè come eventi direttamente osservabili, e nella loro totalità. La rappresentazione tenta di essere oggettiva e scevra di giudizio da parte del regista e, per fare questo, è allo stesso tempo estremamente precisa e il più possibile astratta. Ciascun parametro del medium espressivo è meticolosamente calibrato per realizzare un’opera la cui vocazione per l’astrazione, dice Michael, è un insegnamento del regista italiano Michelangelo Antonioni.
Spera così di superare una limitante concezione del video come medium che rappresenta in maniera letterale la realtà, e di ampliare il livello di partecipazione del pubblico. Il processo di astrazione apre al pubblico la possibilità di un nuovo rapporto con l’oggetto esplorato e stimola gradi d’interpretazione non necessariamente legati a valori riconoscibili, pregiudizi o slogan condivisi.

 

Il modo in cui Michael Madsen descrive lo spazio e il modo in cui – attraverso questo – gli uomini che lo abitano, lo usano e lo subiscono, fa virare la conversazione sull’architettura. Il regista pensa che, se fosse un architetto, condividerebbe con Frank Lloyd Wright o Jørn Utzon l’attenzione ossessiva e meticolosa per i dettagli e gli elementi che costruiscono uno spazio; e, se fosse direttore di una scuola di architettura, chiederebbe a ogni studente di disegnare un parco o un giardino, perché un progetto che richiede decadi prima di realizzarsi apre interrogativi che attraversano uno spazio temporale non limitato all’immediata rappresentazione del presente.

Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia
Il monumento per l’olocausto di Berlino è una delle sue opere preferite, perché è un paesaggio astratto privo di elementi di somiglianza letterale con gli eventi di cui vuole portare la memoria. Nonostante ciò, è capace di rappresentare tanto l’uomo del presente quanto quello del passato e probabilmente del futuro; infatti lavora su un livello di comunicazione che ha una validità atemporale. Alla fine della conversazione, Michael sembra sposare il pensiero di Peter Eisenman, chiedendosi se sia possibile immaginare edifici meno direttamente connessi al proprio tempo, e quindi meno intenti a interpretare e riprodurre un preciso sistema sociale e di potere.
Halden Prison, Halden, Norway
Halden Prison, Halden, Norvegia
Forse è grazie a questo suo interesse per l’atto di osservare il mondo che nel 2013 Wim Wenders lo chiama a dirigere uno dei documentari di architettura che compongono la serie Cathedrals of Culture. Michel Madsen propone a Wenders di inserire una prigione nel catalogo di altri edifici che celebrano più palesemente la cultura: musei, teatri e biblioteche. Il suo progetto vuole ricordare – nel caso ce ne fossimo scordati – che anche la prigione è un fatto culturale.
Quella che l’edificio carcerario mette in scena è l’espressione di una più vasta e generale cultura razionale moderna che si è fatta nel tempo più sofisticata al punto da celarsi dietro l’aspetto domestico e accomodante della prigione di Halden in Norvegia, la “prigione più umana del mondo”. Allo stesso tempo, la cattedrale della cultura scelta da Madsen è espressione della cultura norvegese e nordeuropea, che ha portato agli estremi la nozione stessa di razionalità.
Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia
In The Fabrication of Virtue Robin Evans sosteneva che è proprio nella prigione intesa come macchina riformatrice che l’architettura ha testato la propria capacità razionale di definire l’esperienza umana. E così, anche l’umana Halden Prison è raccontata, nella sua totalità, come una precisa e intelligente macchina riabilitativa in cui il potere si sedimenta nelle persone, nello spazio e nella tecnologia.  
La macchina da presa scandisce e attraversa tutti gli spazi della prigione: le stanze, i corridoi, i campi da gioco e i passeggi, le stanze di controllo e di ispezione, il piccolo supermercato, la cella di isolamento, la cappella e la casa per le visite familiari. Ogni spazio ha un suo ruolo e una funzione nella tecnologia riabilitativa.
Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia
Michael Madsen mette in mostra i gruppi d’individui che la abitano e i loro stati fisici e psicologici soprattutto attraverso i luoghi che fanno loro da sfondo. Lo spazio e le persone sono rappresentati in base allo stesso grado di astrazione, perché, in fondo, sono entrambi materia della medesima macchina di potere e insieme rendono leggibile la totalità del fenomeno la cui rappresentazione è lo scopo del documentario.
Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia
L’edificio in sé è la voce narrante, una voce consapevole e ingenua allo stesso tempo. Si interroga su come sia la vita oltre il proprio muro di cemento – l’ultimo brandello di monumentalità e brutalità che sopravvive al carattere domestico di Halden. Si proclama ignorante nei confronti del mondo ‘reale’ e della società ‘normale’, quella stessa normalità a cui l’attività riabilitativa della prigione aspira e dalla quale è inevitabilmente segregata. L’istituzione ha il compito di plasmare i suoi ospiti a immagine e somiglianza del cittadino norvegese tipo. E, paradossalmente, lo fa in modo anacronistico. Il trucco viene svelato non dalla struttura delle sezioni detentive, ma dalla casa per le visite familiari. La casa ha un’organizzazione spaziale e un’estetica tratta dal “manuale della casa per una felice famiglia nordeuropea”, ed è la riproduzione di un ambiente domestico per la famiglia nucleare – madre, padre e due figli – che non è certo lo specchio della ben più variegata società norvegese di oggi. Lo spettatore si trova quindi straniato di fronte a una entità istituzionale che si dibatte tra il tentativo di emulazione (passiva) di una società che ignora, e il tentativo di costruirla, quella stessa società ‘normale’, attraverso l’azione razionale sugli individui che ospita e che deve riabilitare.  
Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia. Photo Nikos Dalton
Il modo con cui il documentario esplora l’edificio fa dunque perdere di senso l’appellativo giornalistico di “prigione più umana del mondo”, non perché questo non sia vero, ma perché la rappresentazione esaustiva di Halden Prison come fenomeno inizia a mettere in discussione la stessa nozione di umano. Questa prigione ‘umana’ (e di conseguenza la stessa nozione di ‘umanità’) che ci sembra così familiare e opposta al brutalismo calcolatore e razionale, cela ma non esclude una violenza congenita all’essere umano e alle istituzioni che egli ha creato per mantenere un ordine sociale.
Michael Madsen, <i>Halden Prison</i>, Halden, Norvegia
Michael Madsen, Halden Prison, Halden, Norvegia
Siamo dunque ancora dentro il vortice Foucaultiano? Ovvero, ci intrappola ancora quel senso d’impotenza che l’intellettuale moderno non riesce a dipanare di fronte a una macchina spaziale che, anche quando tende alla perfezione come nel caso di Halden Prison e tenta di esprimere le migliori intenzioni possibili – la fabbrica della virtù –,  risulta fallimentare perché comunque investita da un sistema di potere che ormai si autoregola?
© riproduzione riservata

Michael Madsen è un’artista e regista danese che dal 2010 a oggi ha scritto e diretto quattro documentari: Into the Eternity: a film for the Future (2010); The Average of the Average (2011); Halden Prison (2014) e The Visit (2015).

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