La Biennale di Liverpool

Inaugurata a fine luglio, la Biennale d’arti visive di Liverpool  prosegue il suo ruolo di polo di ricerca, parte di un progetto molto più ampio che riguarda il futuro delle città.

A Needle Walks into an Haystack, “Un ago a passeggio in un pagliaio”. Il titolo, scritto in lettere cordialmente grassotte impilate le une sulle altre, dice poco, a parte ciò cui potrebbe alludere la sua apparente incomprensibilità: forse un’allusione a qualcosa difficile da definire.
La manifestazione viene poi presentata come un’esposizione sulle nostre abitudini, sugli ambienti in cui abitiamo e sugli oggetti, le immagini, i rapporti e le azioni che costituiscono i nostri immediati dintorni. In mancanza di concetti che inizino a delineare pensieri e immagini prima di aver visto l’insieme, sono i luoghi stessi delle mostre a diventare i punti d’ancoraggio dell’idea di che cosa abbia da offrire la Biennale. E forse è giusto che sia così, in una maggior integrazione nella città, attraverso cose che stanno in luoghi specifici e non cose in astratto.
Old Blind School, Liverpool
Old Blind School, Liverpool
La Old Blind School è la sede centrale e ospita un gruppo di opere di artisti internazionali. È difficile decidere se protagonista della mostra sia il contesto oppure il contenuto, se siano le opere d’arte ad arricchire il contesto o viceversa. Oppure se le opere d’arte avrebbero qualche interesse se fossero esposte in uno spazio più convenzionale. Senza il ‘cubo bianco’ a distaccare l’arte da ciò che le sta intorno, ciò che le sta intorno viene introiettato diventando parte di un tutto e ci si procura il distacco da soli, guardando le cose che conosciamo con occhi nuovi. Tra l’altro vediamo la decadenza e lo spreco in un altro modo, ne apprezziamo la bellezza. Liverpool è ricca di esempi di questo genere di patina, di vernici scrostate e di prospettive bizzarre costruite dai ruderi del passato. Scendere a piedi dalla collina verso il quartiere cinese della città dopo aver visitato la mostra è un’esperienza senza percepibili soluzioni di continuità.
Old Blind School, Liverpool
Old Blind School, Liverpool
Le altre sono mostre personali, descritte come esposizioni di professionisti che hanno sfidato i parametri convenzionali che definiscono il territorio delle loro opere. Il Bluecoat, l’edificio storico del centro cittadino che è il più antico centro artistico del paese, ospita una mostra del pittore americano James McNeill Whistler. Personaggio dall’immagine pubblica alquanto eccentrica, viene considerato il prototipo dell’artista contemporaneo, impegnato attivamente nei dibattiti sul ruolo dell’arte e degli artisti tanto da ampliare il suo studio per includervi la creazione di ambienti speciali destinati a esporre le sue opere.
James McNeill Whistler, Bluecoat, Liverpool
James McNeill Whistler, Bluecoat, Liverpool
Mentre Whistler suscitava discussioni a Londra, a Liverpool un uomo più modesto e schivo, di nome Henry Tate, si arricchiva producendo zucchero e usava il suo denaro per comprare quadri. Nel 1889 donò la sua collezione al paese, e nacque la Tate Gallery. In occasione della Biennale la Tate Liverpool ha setacciato le sue collezioni per riunire una mostra che analizza l’idea di domesticità e il suo influsso sull’arte. Sempre esposta alla Tate c’è un’installazione di Claude Parent, architetto oggi novantenne che ha dedicato la vita a perseguire le sue teorie relative alla Fonction oblique. Pavimenti inclinati e rampe creano un ambiente stimolante per la fruizione dell’arte. Ed è anche uno spazio invitante per i giochi dei bambini, un segno di qualità costruttiva, a dar retta ai miei professori dell’università.
Claude Parent, <i>A Needle Walks into a Haystack</i>. © Tate Liverpool Tate Liverpool
Claude Parent, A Needle Walks into a Haystack. © Tate Liverpool Tate Liverpool
I bambini “inventano spontaneamente i loro spazi di gioco nell’architettura esistente” in un film di Sharon Lockhart intitolato Podwórka, proiettato al FACT. Benché mi venga da chiedermi che cosa mai sia successo perché un filmato di bambini che giocano liberamente in cortili decrepiti possa diventare arte contemporanea, in qualche modo inizio ad avere il senso di un programma.
Photographic Notes, documenta 2, Kandinsky 2 men, 1959 © Hans Haacke © DACS, London
Photographic Notes, documenta 2, Kandinsky 2 men, 1959 © Hans Haacke © DACS, London
La Open Eye Gallery presenta una mostra intitolata “Not All Documents Are Records”, “Non tutti i documento sono d’archivio”, a cura di Lorenzo Fusi. Dà l’occasione di riflettere sulla Biennale in un contesto più ampio, reinterpretando la storia della manifestazione e presentando due importanti serie di fotografie: Documenta 2 di Hans Haacke, del 1959, e le immagini di Ugo Mulas della Biennale di Venezia del 1968.
Venezia, 1968. Proteste studentesche, XXXIV Esposizione Biennale Internazionale d'Arte. Photo Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas
Venezia, 1968. Proteste studentesche, XXXIV Esposizione Biennale Internazionale d'Arte. Photo Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas
Altri echi degli anni Sessanta si osservano nella mostra “Adrian Henri – Total art”, che mira a cogliere l’eccitazione e la dinamica della scena artistica in un periodo in cui Liverpool era, secondo Allen Ginsberg, “al centro della coscienza dell’universo umano”. Adrian Henri (1932-2000) era pittore, poeta, musicista e precursore dell’happening, e la mostra analizza la sua concezione dell’“arte totale” come falsariga dell’interdisciplinarità della prassi artistica.
Adrian Henri, <i>Entry of Christ into Liverpool</i>
Adrian Henri, Entry of Christ into Liverpool
E ci sono poi anche Jef Cornelis, la Nave mimetizzata di Carlos Cruz-Diez, un concerto in memoria della tragedia dello stadio di Hillsborough, il Premio di Pittura ‘John Moore’ e la mostra Bloomberg New Contemporaries, di recente inaugurazione. Ma prima, quando ogni critico faceva a gara per alzare la voce per primo, appena conclusa la cerimonia d’apertura, questa Biennale è stata accusata di essere occasione di presunzioni curatoriali più che di beneficio del pubblico.
Sharon Lockhart, <i>Podwórka</i>
Sharon Lockhart, Podwórka

È vero che non sfoggia grandi ‘spettacoli’ e, dato che a Liverpool questi hanno sempre un’ottima accoglienza, qualcuno può pensare che si sia perduta un’occasione, benché declassarla a presunzione curatoriale non colga il punto essenziale.

La Biennale di Liverpool fa parte di un più vasto e perdurante dialogo che verte sul futuro della città. La direttrice Sally Tallant ha un programma, un piano decennale fondato sulla ricerca integrata in architettura, in urbanistica e in arte.

R.B. Kitaj, <i>Bedroom 1971</i>, Screenprint on paper, 689 x 943 mm. © The estate of R. B. Kitaj. Image courtesy Tate.
R.B. Kitaj, Bedroom 1971, Schermata stampa su carta, 689 x 943 mm. © The estate of R. B. Kitaj. Image courtesy Tate.
La Biennale di quest’anno è nata quando la precedente si avviava alla conclusione con un seminario intitolato Changing the World from Here, “Cambiare il mondo a partire da qui”, dedicato all’elaborazione di modelli di biennale che ripensassero il rapporto tra arte, urbanistica e valore. Quest’anno artisti, curatori, progettisti e scrittori si uniscono per riflettere sulla cornice della prossima manifestazione, ancora incentrata sui mutui rapporti tra formazione, arte e ambiente urbano, mentre l’International Biennial Association Summit, che si riunisce l’11 ottobre al Bluecoat di Liverpool, amplia l’analisi di questi temi al contesto internazionale.
Liverpool è decisamente la città giusta per questo tipo di dibattito: decaduta ma vitale, grandiosi edifici d’epoca e istituzioni culturali si alternano a zone diroccate e abbandonate. C’è anche un gran senso di apertura, per non parlare degli storici collegamenti internazionali, e usare la città come incubatore di idee e di prassi nuove è una prospettiva di grande interesse.
Claude Parent, <i>A Needle Walks into a Haystack</i>. © Tate Liverpool Tate Liverpool
Claude Parent, A Needle Walks into a Haystack. © Tate Liverpool Tate Liverpool
Perciò se si guarda alle mostre dell’VIII Biennale di Liverpool e le si rivaluta alla luce di questa ricerca piuttosto che misurarle esclusivamente con il metro di oggi e con le interpretazioni dell’arte contemporanea, forse ciascuna di esse può essere considerata come un indicatore. La mostra della Old Blind School può indurre a guardare al decadimento con occhio nuovo, forse non è necessario buttar giù tutto oppure riportare tutto allo stato originario: la patina e l’imperfezione possono avere i loro pregi. Whistler può indurre a prestare grande attenzione alla bellezza di ciò che ci circonda, mentre i bambini del film di Sharon Lockhart ammoniscono a instillare negli spazi il senso del gioco. Claude Parent insegna a pensare con originalità, a sfidare la norma. La selezione della Tate sul tema della domesticità ricorda che “la casa è da dove siamo partiti” e che questi sono gli spazi su cui possiamo incidere. La panoramica dell’Open Eye sugli archivi mette in luce la natura transeunte delle cose e il fatto che ogni luogo contiene una stratificazione di persone e di movimento. E infine Adrian Henri insegna a “lavorare con quel che c’è”, ad abbracciare la vita con vigore ed energia. A fare arte totale.
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