Per lo meno, il dandy cercava per prima cosa di rimuovere ogni effetto di realtà dal suo lavoro artistico. Il genio sregolato di Roussel era in grado di distillare effetti di persistenza estetica se non ottica. Qui è piuttosto il contrario: tutto rischia di essere dimenticato all’uscita, come in una maldestra manipolazione su tablet. Quella che dovrebbe essere la retrospettiva di un artista storico, come l’argentino Le Parc, la cui ricerca è almeno da due decenni di grande attualità e al centro di un revival – basti pensare a Olafur Eliasson o ai formati domestici di Doug Aitken – è alla luce di questo sole freddo, è un volgare luna park piuttosto che un tributo. Moltiplicando la superficie lineare del parco giochi in un all-over di opere che non giova alla sua comprensione.
Si conclude con la ricostruzione di una volgare sala anticapitalista a scapito dell’attivista politico, del rigoroso strutturalista e persino della sua spericolata audacia purovisibilista. Brutto destino per un Leone d’Oro a una Biennale di Venezia davvero politica e che rifiutò una mostra al Museo d’Arte Moderna di Parigi nel 1972 decidendolo a testa o croce: lo si annienta nel partito preso dell’intrattenimento. L’entrata nel suo labirinto specchiante e uno splendido muro di disegni sarebbero bastati ancora oggi a riposizionare la grande presenza critica di questo grande artista. Ma al Palais de Tokyo c’è purtroppo ancora lo spazio per spalmare mostre e per farle godere al pubblico, come nei panorami d’altri tempi. Tra poco, un nuovo ristorante gastronomico ne armonizzerà i costi di gestione ma, per ora, l’algida possibilità dell’arte nei suoi risvolti critici la si riserva alle visite guidate e ai discorsi perfetti dei solerti mediatori. Nella Galleria Bassa, la coppia Dewar & Gicquel, Premio Duchamp 2012, mentre pensa alla mostra al Beaubourg che li attende in autunno tergiversa in sofismi di stampo surrealista.
Optano per una sala di proiezioni video: sculture di fango che si fanno e disfano sotto gli occhi dello spettatore e per una strana sala di ibridazione tra Brancusi e Duchamp dal risultato disastroso. Si immagina l’incontro tra un ceramista pazzo e il pubblico, oppure un idraulico che ubriaco si crede Robert Gober e abbandona le ceramiche appena sostituite fuori dal portone di un immobile. Appoggiandole su splendide basi in legno. Siete non solo al centro dell’installazione ma anche dello humour davvero demenziale che sembra attraversare più di una delle installazioni di questa maratona di mostre, mentre scende la temperatura critica. Il rischio è di venire sopraffatti dalle sensazioni forti.
Nella mostra “FUGU” – sì proprio come il pesce giapponese che o uccide o è gustosissimo – si ha la sensazione di gustarlo fuori stagione. Si mostra un’estetica parodistica, vezzo che permeava l’arte dell’altro ieri e, per esempio, è il contenuto specifico della retrospettiva di François Curlet. All’insegna di Arte Concettuale Spagetti, come un Tarantino che sfida il politicamente corretto della “risata che ci seppellirà”, l’artista belga ne prolunga il retrogusto che si sperava estinto con l’approdo altri artisti ben più rigorosi al Guggenheim.