Il nuovo padiglione dell’American Museum of Natural History di New York, alto cinque piani, il Richard Gilder Center for Science, Education, and Innovation è un’opera di architettura che cerca di ricostruire il rapporto che abbiamo con la natura, tentando di ripristinare un senso di meraviglia nei suoi confronti. Da un grande lucernario entrano raggi del sole che riempiono l’atrio centrale; alzando lo sguardo i visitatori scoprono una serie di conformazioni simili a grotte che portano a passaggi, ponti e aule. Il desiderio di scoprire queste incantevoli e curiose forme ci aiuta a lasciare alle spalle il trambusto della città e della Columbus Avenue, entrare a tutti gli effetti nel regno della natura. Varcando la soglia del nuovo ampliamento del museo i visitatori rimarranno stupiti dalla forte matericità di queste formazioni cavernose: la loro esteticità e qualità materica sono tali da essere facilmente associabili alle formazioni rocciose del vicino Central Park, esaltando il senso di qualità organica della struttura architettonica. Siamo entrati in un museo che ci apre gli occhi alla natura.
Aperto originariamente nel 1877, il Museo di storia naturale di New York è stato ampliato più volte nel corso del secolo scorso creando così un percorso a labirinto difficile da navigare tra il mosaico di stanze ed esposizioni che si estendono per quattro isolati. Questo museo ha davvero bisogno di essere ristrutturato e rinnovato. La struttura come la conosciamo oggi è un amalgama di edifici diversi costruiti in periodi diversi; lo scheletro forma una croce che obbliga i visitatori a tornare sui propri passi verso il centro dell’edificio per continuare il loro cammino. Grazie però all’aggiunta di una serie di gallerie e ponti di congiunzione, il Gilder Center aumenta la scorrevolezza e facilita l’orientamento tra i vari padiglioni ed edifici dell’enorme museo. Il risultato è un’esperienza migliorata per le oltre cinque milioni di persone che ogni anno lo visitano.
L'American Museum of Natural History non ha solo bisogno di riparazioni fisiche e di collegamenti migliori, ma anche l’istituzione in sé ha un urgente bisogno di creare un’esperienza per i visitatori che contribuisca a curare il rapporto con la natura e il modo in cui ci porgiamo nei suoi confronti e ciò, come è chiaro dall’architettura dello Studio Gang, inizia dalla posizione complessiva delle istituzioni e dalle condizioni di ospitalità. L’architettura che Gang ha pensato propone un tipo di accoglienza all’entrata completamente diverso da quella originale, la Theodore Roosevelt Memorial Hall, progettata da John Russell Pope (1874-1937). L’entrata originale era stata completata nel 1936 e fa parte del memorial ufficiale dello Stato di New York al presidente Theodore Roosevelt. Situati ai lati opposti, lungo l’ala est e ovest dell’edificio, rispettivamente sulla Central Park West e la Columbus Avenue, le due entrate sono diametralmente opposte per tono e simbolismo.
Una critica a questo simbolismo è presentata in modo radicale dall’ala ovest dell’edificio progettato da Gang. Salire le scale sul lato orientale ed entrare nel vestibolo può essere paragonato all’esperienza dell’entrare nel Pantheon romano: due giganteschi ordini di colonne corinzie alte quindici metri creano un effetto monumentale. Il dominio dell’uomo sui popoli diversi, non euro-americani e sulla natura viene riaffermato dal vestibolo e dai suoi pannelli murali dipinti da William Andrew Mackay (1876-1939). Roosvelt, spalle larghe e vestito da esploratore, se ne sta assertivo sopra un leone e una leonessa nubiani, con ai lati i suoi portatori d’armi. Fino alla rimozione statua di Theodore Roosevelt, questa composizione avrebbe perfettamente richiamato le figure dell’uomo nativo americano e dell’uomo africano ai lati dell’esploratore sulla soglia del Museo.
Entrando da Central Park West, non si ha ben chiaro in che modo la natura abbia a che fare con l’American Museum of Natural History se non per la dominazione umana. Nell’ala opposta dell’edificio, però, con il nuovo Richard Gilder Center for Science, Education, and Innovation, Gang propone una forte contro argomentazione e una presa di posizione sovversiva verso i simboli radicati nella sala originale. L’architettura di Gang è un manifesto radicale che sostiene una nuova posizione di umiltà nei confronti della natura. Gang radica la natura nella propria architettura: entrando dalla Columbus Avenue, i visitatori si imbattono in quella che sembra una formazione geologica – la superficie dell’edificio non ha nulla che possa ricordare i trattamenti meccanici della superficie liscia del granito della facciata neoclassica di Central Park West. Le forme cavernose che si susseguono sono il risultato di un processo chiamato calcestruzzo proiettato, che richiede una finitura a mano e che conferisce un aspetto fluido. Quest’ultimo punteggia la hall d’entrata e contribuisce a sfumare i confini tra un’architettura naturale e una artificiale. Inoltre la nuova entrata ovest è priva di ogni rappresentazione umana. Curvilinea e asimmetrica, l’entrata è una vera e propria anti-facciata e suggerisce immediatamente, prima ancora di metter piede dentro, una certa modestia: non ha l’intento organizzativo delle imponenti colonne dell’entrata est, ma vuole raggiungere una forma decentralizzata di ospitalità. Il segnale immediato che viene dato ai visitatori non è quello di un edificio dove capire come l’uomo ha razionalizzato la natura, ma di entrare in un luogo dove mettere in discussione proprio questa storia di dominazione, che è stata al centro dell’illuminismo e sta alla base dell’istituzione stessa del museo di storia naturale.
Sfumando il confine tra il naturale e l’artificiale e ripristinando un senso di meraviglia verso ciò che è vivo, spogliando le istituzioni della vecchia idea di dominazione e classificazione della natura del Novecento, Gang porta la nostra attenzione verso il resto del museo e l’urgente bisogno di restauro e ripararne la logica. Infatti, se non ci si incuriosisce e non ci si commuove di fronte alla natura in un’istituzione dedicata al suo studio, come potremo mai essere convinti, in quanto società, dell’importanza della questione più urgente e pressante del nostro tempo, ovvero la nostra capacità di proteggerla in futuro?
Beatrice Grenier è una curatrice e scrittrice con sede a Parigi. È direttrice degli affari curatoriali della Fondazione Cartier per l’arte contemporanea.