Norman Foster e la sua Domus: “Parliamo di futuro”

L’architetto britannico, prossimo guest editor 2024 della nostra rivista, si racconta e anticipa il format della sua Domus.

Nella pratica architettonica globale a cavallo tra il XX e il XXI secolo, Norman Foster occupa uno spazio unico, godendo di una considerazione condivisa anche dai grandi della disciplina che in genere sono parchi di complimenti. È il più grande o, meglio, il primus inter pares. Molte sono le ragioni di questo status ma, per chi scrive, una in particolare appare decisiva. In una carriera che definire straordinaria è quantomeno riduttivo, Foster ha stabilito molti standard, accolti dalla comunità del progetto, e poi li ha superati. Sempre. Senza mai guardarsi indietro. Un buon motivo per incontrarlo adesso che ha accettato di essere il guest editor di Domus nel 2024.

Primus inter pares. Così i latini indicavano figure come la sua. Si riconosce?
Non penso che ci si possa mettere nella posizione di qualcun altro. Penso sia più semplice fare quello che fai e lasciare che gli altri giudichino cosa sei o non sei. Altrimenti stai cercando di psicoanalizzare te stesso, il che penso sia discutibile.

Cosa pensa allora di se stesso?
Penso che tutti noi, come individui, facciamo quello che facciamo; sfidiamo, mettiamo in discussione, progettiamo, ci impegniamo, comunichiamo, condividiamo. E questo ha il suo ciclo, la sua energia. Per quanto mi riguarda, penso di essere più interessato al futuro che a cercare di analizzare il passato. Penso anche che ci sia una certa indulgenza in questo, mi sento più a mio agio a parlare del futuro. Ha senso? 

Molto. Pensiamo al futuro, dunque. L’architettura oggi è un’opportunità per crescere e una chiave privilegiata per capire il nostro mondo. Per questo io, da non architetto, sono grato di lavorare per Domus. Cos’è l’architettura oggi e cosa diventerà?
Sono d’accordo, l’architettura è uno specchio della nostra società. Peraltro, non lo è sempre stata? La mia prima esperienza, il primo edificio in cui ho lavorato non mi ha fatto pensare “questa è architettura”, ma mi ha commosso.

Quanti anni aveva?
Ho lasciato la scuola a 16 anni e ho iniziato a lavorare nel municipio di Manchester, che era una manifestazione dell’orgoglio civico della città al culmine della rivoluzione industriale, che si trova anche negli aeroporti di Pechino, di Hong Kong, che sono tutti edifici celebrativi.

Si possono considerare gli edifici senza la città?
E come si fa? Non puoi separare l’edificio, il municipio di Manchester, da Albert Square che lo fronteggia. L’architettura è uno specchio della società, di come essa vede i propri valori. Curiosamente, provocato da questa intervista, sto rivisitando il passato e ieri ho fatto un giro in un importante progetto immobiliare chiamato Barbican. Barbican fu una risposta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, alla riqualificazione. Questa utopia riunisce edilizia sovvenzionata, spazio pubblico, acqua, verde, cultura, sala concerti, gallerie d’arte e ristoranti. Barbican è il modo in cui questo Paese si vedeva all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, è inseparabile dalle sue aspirazioni; è una visione utopica del futuro. Se vuoi guardare lontano, al futuro, per prima cosa guarda molto indietro, al passato.

Lo stato delle nostre città, della nostra architettura, è lo stato della nostra civiltà. L’arte di costruire riguarda lo spirito umano, i bisogni spirituali così come quelli materiali.

È quello che farà a Domus?
In un certo senso. Per Domus cercherò di guardare al futuro. Per farlo, ho creato consapevolmente una sezione che chiamo ‘rivisitazioni’, dove si guarda ai progetti utopici del passato per vedere come si adattano all’oggi. Albany offre un’altra visione utopica di una città nella città, costruita a fine Settecento a Piccadilly, a Londra, come una comunità. C’è poi anche l’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia o il Lafayette Park alle porte di Detroit. Potrei poi continuare con Siedlung Halen fuori Berna, in Svizzera, e l’Habitat di Moshe Safdie a Montreal. Erano tutte visioni urbanistiche utopiche proiettate al futuro.

La gran parte di questi esempi risalgono allo stesso periodo.
Con l’eccezione di Albany. Nella migliore delle ipotesi, l’architettura e le città sono ambiziose o, nel peggiore dei casi, riflettono, forse, parte del declino. Al tempo stesso, quando vediamo infrastrutture fatiscenti, o un’eredità del passato che non è stata rispettata o rinnovata, ed è stata lasciata ad arrugginire e decadere, siamo di fronte a una manifestazione della nostra mancanza di cura e preoccupazione. Lo stato delle nostre città, della nostra architettura, è lo stato della nostra civiltà.

Questo è piuttosto interessante, perché c’è una tradizione, non laterale, dell’architettura che considera la tecnologia come una sorta di vendetta sull’architettura, qualcosa di negativo.
Come si può separare l’architettura dalla tecnologia? In qualsiasi periodo storico, l’architettura è una manifestazione della tecnologia del periodo, che si tratti di una chiesa romanica o di una cattedrale gotica. Quella era l’alta tecnologia di quel periodo. L’idea che l’alta tecnologia oggi ci appartenga è la massima arroganza. Voglio dire, l’architettura è l’incarnazione della tecnologia edilizia dell’epoca, e va sempre oltre i propri limiti.

La mia prima esperienza, il primo edificio in cui ho lavorato, il municipio di Manchester, non mi ha fatto pensare ‘questa è architettura’, ma mi ha commosso.

Gli architetti che si oppongono alla tecnologia lo fanno perché forse si considerano più artisti che architetti?
Perché mai devono essere o l’uno o l’altro, e non entrambi? Sicuramente sono figure inseparabili.

Anche su questo non tutti sono d’accordo.
L’arte di costruire riguarda lo spirito umano, i bisogni spirituali così come quelli materiali. Il riparo può iniziare tenendoci al caldo quando fuori fa freddo, o al fresco quando fa caldo. Farlo prima che l’energia fosse a basso costo, che bastasse premere un interruttore per avere l’elettricità, era tecnologia suprema. Pensiamo all’ingegno e alla bellezza di un’architettura desertica che, attraverso l’ombra e il raffreddamento evaporativo creava un ambiente umano più fresco, o più caldo in una regione polare. I due aspetti, artistico e architettonico, sono totalmente intrecciati. L’idea che si possa avere solo l’uno senza l’altro è una contraddizione.

Domus, nel suo percorso, ha dimostrato che stanno insieme.
Appunto. Che dire infatti dell’arte e del design relativamente all’architettura? Quindi si tratta di sfumare i confini, di riconoscere la fusione e la comunanza tra questi silos, che non dovrebbero essere silos.

Perché ha accettato di essere guest editor di Domus?
Bella domanda! Il mio collega Nigel, che sta fotografando questo nostro incontro, mi ha detto: “Pensavo che avresti potuto imparare la lezione da Road Rat”, una rivista che ho curato. Penso che forse sia un’opportunità per esplorare, ricercare e, magari, riunire influenze sotto forma di scrittori, artisti e fotografi che, in qualche modo, hanno toccato la mia vita rendendola migliore. Riunirli e condividerli con i lettori di una rivista che rispetto. Domus è stata una mia ispirazione costante fin dai primissimi giorni della mia attività professionale, ai tempi di progetti quali Reliance Controls o di edifici che mi avevano ispirato, come il lavoro di Craig Elwood, quando ero uno studente e molto influenzato dall’architettura nel sud della California. Ricordo, infatti, di aver visto in un articolo su Domus le foto degli interni, che non avevo potuto vedere quando lo avevo visitato, e il modo in cui l’architetto aveva codificato con i colori la struttura e i servizi: posso quasi riprodurre a matita quell’articolo degli anni Sessanta. Per questo penso che Domus sia stata di enorme supporto a quei designer, artisti e architetti di cui rispetto il lavoro. 

Non smette di esplorare e di andare laddove non te lo aspetti. Come con il lavoro della Fondazione Norman Foster. Perché l’ha creata?
Se condividiamo una preoccupazione per il futuro, allora il futuro sarà rappresentato dai decisori che faranno le scelte giuste sulla base della propria conoscenza, della giusta consapevolezza. La fondazione si occupa di anticipare il futuro per i leader civici, coloro che politicamente e managerialmente avranno il compito di prendere decisioni chiave sull’ambiente, sulle infrastrutture e sugli edifici. Il suo programma formativo consiste nel creare un istituto sulle città sostenibili, un programma di un anno a tempo pieno, che segue un ciclo di workshop, che riunisce i migliori laureati di tutto il mondo con mentori leader a livello mondiale, esperti di ogni aspetto della vita civica, sull’acqua, sul cambiamento climatico, sulla robotica. Si va davvero oltre quanto si può fare all’interno dell’esercizio della professione. Come fondazione possiamo, sulla base di un progetto, esercitare una certa influenza.

Alla Biennale di Venezia 2023, Lesley Lokko ha dipinto l’architettura come macchina operativa per imporre il capitalismo. Lei, che è considerato uno dei principali interpreti globali del capitalismo, cosa ne pensa?
Rispondo innanzitutto facendo riferimento al nostro contributo esposto nel giardino accanto alla Biennale, durante quell’evento: il modulo abitativo frutto della ricerca Essential Homes, un progetto che ha sfidato tutto ciò che è permanente e ciò che è temporaneo. La Fondazione ha creato una risposta alla crisi dei rifugiati.

Un progetto meraviglioso.
Quel progetto ha dimostrato che, nel giro di pochi giorni, si poteva creare qualcosa che fosse permanente, durevole e dignitoso. È nato in un seminario in cui gli studenti hanno sfidato gli esperti e hanno affermato che, statisticamente, una famiglia può stare in media 17 anni in un campo profughi e che la risposta progettuale non può essere una tenda, che dura al massimo tre anni. Tutti quelli che hanno visto il nostro progetto volevano abitarci per davvero, non solo per situazioni emergenziali. Questa iniziativa filantropica della fondazione è una risposta concreta, non teoria. Torniamo al riferimento all’architettura come espressione del capitalismo. Non la condivido. Quasi il 18 per cento dell’umanità vive in Cina, dove regna un’economia socialista che antepone la qualità della vita al profitto. Lì l’aspettativa di vita è superiore di 2 o 3 anni rispetto al centro del capitalismo occidentale e l’architettura lì è viva e vegeta, innovativa ed esplorabile come ovunque sul pianeta. In una città come Vienna, il 60 per cento degli alloggi sono di proprietà dello Stato, sono in affitto, ma anche qui l’architettura è avventurosa, sperimentale e innovativa.

Ho capito il punto.
Vado avanti, allora. Molte delle strategie di progettazione di Singapore, in particolare la pianificazione urbanistica, sono veramente progressiste e innovative, ma non sono guidate dal profitto, non sono una manifestazione capitalista. Quindi tutta questa polemica sul capitalismo e l’architettura come espressione del capitalismo resta un’opinione, non un fatto.

Sta sostenendo che c’è un forte legame tra architettura e democrazia?
Prendiamo il Reichstag. I politici eletti hanno scelto la proposta progettuale che consisteva nel farlo diventare un manifesto dell’energia verde, lavorare in termini di falde acquifere, pannelli solari, biomassa, essere totalmente rinnovabile e, quindi, una manifestazione visiva e operativa della sostenibilità. Inoltre, agendo se su un’iniziativa progettuale, mette il pubblico al di sopra dei politici, che sono responsabili nei loro confronti, quindi è l’espressione stessa della democrazia in azione.

Una domanda per tutti gli architetti che la ammirano: chi è veramente Norman Foster?
Dovrai decidere tu stesso. Chi è Walter? Chi è Norman? Noi siamo le miriadi di percezioni che ci riguardano. Quindi penso che devi chiedere a molte persone, raccogliere molte opinioni.

Lo farò e le farò sapere alla fine.
Spero davvero che alla fine del prossimo anno mi dirai chi sono.

Tutte le foto courtesy Nigel Young/Foster + Partners

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