Designer, Maker, User

Puntando sulla vocazione alla pluralità del mondo del design, il catalogo della collezione permanente del nuovo Design Museum londinese lascia alcuni argomenti di discussione aperti su cosa sia il design oggi, selezionando le risposte di molti attori della disciplina: designer, produttori, curatori, critici.

Designer Maker User
Design Museum, Designer, Maker, User, Phaidon, 2017, 240 pp

 

Dal catalogo che accompagna l’esposizione della collezione permanente del nuovo London Design Museum ci si aspetta un riflesso dell’impostazione programmatica dell’istituzione. Nell’affrontarlo, quindi, la questione centrale è proprio quella che riguarda la direzione che l’intero museo ha scelto di perseguire e, più in generale, quale possa essere la funzione di un museo del design oggi.

Già alla prima lettura, a emergere è la varietà dell’offerta che prende avvio proprio dal titolo Designer, Maker, User. La triade delle figure operative del mondo del design è quella su cui s’imposta un catalogo che vuole, da subito, puntare su una delle prerogative del mondo del design, ovvero la sua vocazione alla pluralità; a essere materia coinvolgente e condivisa, vero e proprio lavoro di squadra. A chi ha studiato questa disciplina in Italia non può sfuggire che Progetto, Produzione, Consumo (che nei fatti sono le azioni che corrispondono ai sostantivi citati nel titolo) ricordano molto da vicino tre delle categorie che Renato De Fusco nel 1984 aveva utilizzato per la sua plurieditata Storia del Design. All’appello manca solo la Vendita e poi la sua “Teoria del quadrifoglio” sarebbe completa. Il fatto che questa eco torni alla memoria è indicativo di quanto il catalogo faccia pensare più all’interessante versione aggiornata di un manuale di Storia del Design che a un classico regesto delle opere contenute nella collezione o a un manifesto programmatico sulle politiche culturali del museo. Oppure – e qui sta il punto – la strategia museale potrebbe essere riposta proprio in questa evidente propensione alla didattica.
Designer Maker User
Designer Maker User
Le tre sezioni principali del volume sono dedicate al ritratto dei tre attori principali del processo del design. Sul fronte dei progettisti sono presenti sia un compendio di opere iconiche (che purtroppo non sfugge all’inflazione di sedie), sia riflessioni su cosa possa essere definito il buon design e quali siano i metodi operativi del fare. Se sulle questioni teoriche la disamina è storicamente puntuale e sintetizza in modo efficace due secoli di design, meno convincente, forse per via del taglio giornalistico, è la parte dedicata alle voci dei singoli progettisti che raccontano le loro modalità operative.
La riflessione sulla tecnologia prende il tono del racconto storico-manualistico che non farebbe sfigurare questo catalogo tra i libri di testo di università e scuole. Anche quando ci si avvicina alla contemporaneità e al ruolo svolto da chi si occupa della relazione con il mercato, il registro didattico non viene mai meno. Gli ultimi capitoli sono forse i più efficaci a livello di impostazione critica: in Agents of Change e in Design and Business l’intreccio con la politica e con le teorie di macro economia fanno riflettere su cosa voglia dire ideare un bene per il consumo di massa e quali siano i suoi effetti sulla società.
Designer Maker User
Designer Maker User
La parte finale del volume tiene poi distinti il momento dell’ideazione da quello del prodotto finito. Così il mondo delle idee è rappresentato da una vera e propria antologia di straordinario valore, dove la riedizione di testi altrimenti introvabili e la selezione di brani, che seguono il filo logico dello sviluppo del progetto nelle variazioni di tecnologie e comunicazione nel tempo, vale da sola l’intera opera. Mentre la carrellata delle opere non esce da una sequenza tipologica d’indubbia chiarezza, ma anche di scarsa inventiva.
La lettura del volume lascia alcuni argomenti di discussione aperti. Il principale, come già accennato, riguarda la generale strategia culturale del museo. Il catalogo fa, infatti, emergere solo indirettamente la sua risposta alla domanda che apre il primo dei capitoli: “What is design?”. La soluzione qui adottata è quella di selezionare risposte che arrivano da molti agenti della disciplina: designer, produttori, curatori, critici. Ed è sintomatico che, quando viene citata Paola Antonelli – curatrice del MoMA di New York che possiamo considerare uno dei principali competitor del museo londinese –, venga sottolineata la sua propensione per il design speculativo o per quello anonimo. A tutti gli effetti, la scelta londinese sembra andare verso una definizione più classica di design, quella tradizionalmente anticipata dal termine “industrial”. Il prodotto di massa, o comunque pensato per le masse, alla fine resta un discrimine importante del progetto. Il che non vuol dire, sia chiaro, che il London Design Museum non preveda tra le sue attività la ricerca, anzi. Il suo programma “Designs of the Year” è uno dei più vivi a livello internazionale sul fronte della sperimentazione e della tutela dei giovani talenti. Tuttavia, esso riveste solo una delle porzioni del ventaglio delle proposte annuali. L’offerta è ampia perché le ambizioni di pubblico sono grandi. Gli slogan utilizzati sul sito sono eloquenti, in tal senso: “Design is a way to understand the world and how you can change it”. Che è una modalità inclusiva ed estremamente aperta per dialogare col grande pubblico. Ma questo è, da un punto di vista storico, un atteggiamento tipicamente consolidato nella cultura inglese della disciplina. Non a caso, il più citato tra i teorici del volume è Henry Cole, deus ex machina del design anglosassone e punto di riferimento per qualunque dissertazione storica sull’argomento.
Un autore che è stato capace di creare in contemporanea la prima grande fiera internazionale di design (la Great Exhibition del 1851), di ordinare le scuole di design del Regno Unito, di fondare il primo nucleo del Victoria and Albert Museum e di dirigere la più importante rivista sul progetto dell’epoca. Il che vuol dire riunire in un’unica figura professionale un critico, un curatore, un docente e un esperto/consulente politico. In poche parole, tutto quello che agisce nel design, stando dietro le quinte. Una visione che fa comprendere il prodotto come parte di un processo integrale nel quale il design necessariamente dialoga con l’economia, la politica, il costume, così come con la filosofia e la cultura della sua epoca. Così l’attitudine a non tenere disgiunte le parti e a non prediligerne una sulle altre emerge come un tratto tipicamente britannico, di cui anche il nuovo museo vuole farsi portavoce. In tal senso, anche la contemporaneità diviene parte di un flusso più ampio, nel quale le mostre temporanee servono – sempre citando dal sito – per essere “informed and inspired”. Pertanto il legame con gli effetti sociali della produzione industriale non possono mai venire meno: tanto quelli a breve termine, quanto quelli a lunghissima previsione. Ecco perché in questa impostazione pluralista, inclusiva e democratica risiede la linea critica più genuina che possa essere rilevata in questo volume e nel museo che esso rappresenta: quella che, parafrasando un celebre saggio di Nikolaus Pevsner, potremmo definire “the Englishness of English Design”.
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