Per Michelucci la forma era il modo che gli uomini avevano per comunicare restando in silenzio. Una sorta di letteratura muta, insomma. Viene da sé pensare che la letteratura sia di conseguenza il modo umano di costruire senso. Le due discipline all'apparenza così lontane si assomigliano, si cercano, prendono di continuo la misura del loro campo d'intervento, cercano punti di contatto, sovrapposizioni.
Da studente un amico mi invidiava: "scrivete più voi architetti che noi studenti di lettere". Gli architetti leggono e scrivono. Di continuo. Dove non arriva la forma interviene la parola, in un continuo desiderio di fissare il significato del nostro agire. Sono molti gli architetti che negli anni hanno attraversato la letteratura, più di quanti ne ricordiamo, sarebbe anzi il caso di farne una ricerca, uno studio approfondito. Perché l'argomento non è solo curioso, è indicatore di come due attività intellettuali spesso rappresentanti di ruoli sociali differenti (l'architettura è la rappresentazione oggettiva del potere. Anche solo del poter fare, del poter agire, la letteratura di contro è la forma del difforme, della critica al potere, dell'escluso) cerchino nella contiguità di sbaragliare i ruoli stessi.
L'architetto è stato da sempre, ed è sempre meno in questi anni, un intellettuale, un critico del reale, non un semplice giullare di corte, un portatore d'acqua. Se in questi anni è sotto gli occhi di tutti una crisi della qualità del costruito, che ha come corollario una crisi del ruolo della critica, è forse meno evidente come molti architetti (non so se più sensibili o meno) abbiano cercato in altre discipline – il cinema indipendente, la narrazione – altre modalità di formalizzazione della realtà.
Penso, per dire, a questo Racconti di architettura, di Davide Vargas.
Se scrivere è un modo differente di fare architettura – Proust ne era convinto e la sua Recherche doveva a tutti gli effetti essere una cattedrale – Vargas, qui, più che tronfi grattacieli, decide di edificare percorsi, cappelle votive, angoli raccolti. È un architettura che gli somiglia, molto etica, con punte di lirismo non cercate ma trovate quasi involontariamente.
Spesso, in questi racconti, si parte da un punto preciso – il campo santo di Pisa, per dire – e poi si lascia che il flusso della coscienza, le analogie degli spazi, ci portino da altre parti. Nessun luogo è insomma fine a se stesso, indipendente dal mondo. E grazie a questo taccuino di viaggio – incongruo e disordinato come tutti i taccuini autentici devono essere, fatto anche di cancellature o schizzi appena accennati – possiamo ritrovare luoghi e nomi della nostra formazione disciplinare e/o sentimentale: un Paolo Soleri a ritroso dall'America fino a Vietri sul mare, il Le Corbusier intimo di Maison la Roche e quello pubblico di Marsiglia, la sala della scherma "dimenticata" di Moretti, la Milano colma di affetto da parte di Vargas di Casa Rustici o della Chiesa di Baranzate.
Proprio come la sua prima raccolta, anche Racconti di architettura ha una forma ibrida: non sono racconti di finzione, non sono reportage né descrizioni oggettive